Alfabeta - anno V - n. 48 - maggio 1983

Mensile di informazione culturale Maggio 1983 Numero 48 - Anno 5 Lire 3.000 Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposile, 2 • 20137Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo lllnO • Printed in Italy Interventodi Alfabeta: 11 Nonsoltantoil 7 aprile" Agenzie per lo-comunicazione pubblicitaria in Milmw e Modena Disegno per tessuto da rivestimento (1969) SegreD, orflesF, ormentiP, orta,Eco Prove il' artista:Pardi/Mari/Leonetti C. S.. re: PIINNlo.. 1 elwald * G. DorRH: Mito.e .. ltele * G. Alaaul: Marowlh: * M. Lunetta: NesvalR. BugllaN: d Yl... lo della coaosceaaa * V. Deh•: Itaca• Tropici* Prove d'artista: G. Partii/ F. Leon_...: 11... 0 F. Ma1111h li 11uovo codice ca11011lco* Da Parigi * Da .. rUIIO* C. fOl'lllellll: lllu•••-- soclologlco M. ferrarHh Pall•psHIH * P. Yl11els: Musll • Mach * Testo: llllerv-■to di Alfalteta: «Noll soltalllo 117 aprii•• A. Porta: L'arte degll opposti* CéNr Moro, u11sul'NClllsta peruvla110 (• cura di M. -atti, con una nota di A. P.orta) La •col•tlca, conversazione di U. Eco con Ceseranl, C.stellari, Pasqulni, de federlds * T. Grlffero: llllorno all'llllerprehn:lone G... rtoluccl: Vuoto di puW.Hco * A. AlliNnl: Altri He111pl * Cfr. * R. C.noN, I. Colo11nello: La storia della prostlhalOBe R. Bonflglloll: Una nuova senslbllltà * I. Mereu: Cento anni di prostituzione ltallana * I. Pezzlnh Tene/I .... Lettere * Glornale del Glornall: Le «guerre stellari» di Reagan * Indice della co111unlcazlone: Più glornall 111eno nolb:le Immagini: Le «prove d'artista» di Mari Bibliotecaginobianco

Le immàgindiiquestonumero MARIE-LOUISVEON fRANZ Il FEMMINILNEELLAFIABA Lette in chiave junghiana. le fiabe offrono una parabola sorprendente della psicologiafemminile: il mondo fantastico come bussola nei comuni casi della vita. ALFONSOM. DINOLA L'ARCODIROVO Due rituali che esorcizzano l'aggressivitàe l'impotem.a nel mondo arcaico dei contadini del Sud: due momenti ritrovati delle culture popolari. PIERCESAREBORI Il vmuo D'ORO Le radici dell'antisemitismo, l'adorazione del vitello d'oro come matrice e modello delle rappresentazioni antigiudaiche nel cristianesimo. dai primi secoli sino all'800. ERMANNOKRUMM Il RITORNODELFLANEUR Da una rilettura dei temi cruciali della psicoanalisiallo studio di alcune funzioni letterarie in Walser. Montale, Zanzotto. Plath. CARLG.JUNG LASAGGEZZAORIENTALE La tradizione buddhistica, i testi confuciani, le pratiche yoga e zen: i dati religiosicome espressione simbolica della personalità umana. A cura di Luigi Aurigemma. "Universale scientifica" BORINGHIERI .+:.~. * .. ·~ ...... f;;; ... ·~ Versouna spettacolarità dellaparola? Mantova 21 maggio 1983 Teatro Bibiena Comune di Mantova Comune di Suzzara Ente Manifestazioni Mantovane Intervengono: A. Abruzzese, U. Artioli, G. Baratta, F. Bartoli, G. Bartolucci, A. Boatto, P.Fabbri, M. Grarde, A. Mango, P. Meneghetti, C. Milanese, A. Porta, G. Scalia, A. Tagliaferri, N. Trebbi, S. Trombini Teatro Ariston, 18 maggio «Anche gli insetti preferiscono le ortiche» La Gaia Scienza Teatro Ariston, 20 maggio «Sulla Strada» Magazzini Criminali Teatro Bibiena, 23 maggio «Il Vel'ltodel Nord» Teatro lpadò Informazioni: Assessorato alla Cultura 0376/361237 Trovo Mari nel suo studio come estenuato dalla mole di lavoro che si è presa, con spostamento delle visioni di piazza del Duomo (che sono così mal poste e non coerenti, come sono, al confronto con tante piazze italiane) ... Mi faccio ripetere da lui il termine tecnico che definisce i suoi «panettoni» - così detti nel volgare intellettuale milanese - ovvero i suoi paracarri qua e là collocati nell'Urbe del nord, stupendi, e nei quali il Movimento moderno ha raggiunto un culmine di risultato del problema concettuale «forma uguale a funzione» ... Lui mi dice stancamente il termine: essi sono «inafferrabili», cioè non si possono prendere a calci, neppure con lo schiacciasassi, ecc. ecc. Peccato mio l'avere anni fa rinunciato a dargli collaborazione nell'arredo urbano, secondo un suo invito (ero così fuori fase) ... Ma sono nel suo studio per la mostra di Parma (da me vista con lui il dì dell'inaugurazione) e ho il volume-catalogo di A. C. Quintavalle di pagine 355 sotto il braccio. Infatti gli abbiamo chiesto alcuni disegni progettuali per le «prove d'artista» di Alfabeta; e sulle immagini che egli ci ha date ha lavorato Gianni Sassi a costruirne un «continuum», dentro-fuori degli articoli, come intervento fotografico a puntate nel numero: che è la soluzione di rispetto del visivo da noi usata (e criticata acutamente a voce da Dorfles come spiazzante) . Sommario Cesare Segre Paradossi ebraici (Hatikvàdi R. Balbi) pagina 3 GUlo Dorfles Mito e Babele (Des tours de Babel, di J. Derrida; La fonction symbolique, di Autori vari; Rethorik und Phantasie,di D. Ph. Verene) pagina 4 Guido Almansi Marowitz (The Marowitz Hamlet - A Macbeth - An Othello - The Shrew - The Marowitz Shakespeare - Sex Wars, di Ch. Marowitz) pagina 5 Mario Lunetta Nezval (Valeriae lasettimanadellemeraviglie, di V. Nezval) pagina 6 Roberto Bugliani Il viaggio della conoscenza (Manuale dei luoghi fantastici, a c. di G. Guadalupie A. Manguel;Il concet-. to di spazio geografico - Il viaggiodi Ulisse, di J. M. Lotman; Dante a un nuovo crocevia, di M. Corti;Modelli semiologicinella Commediadi Dante, di D.S. Ava/le) pagina 7 Valerlo Dehò Itaca e Tropici pagina 8 Prove d'artista Gianfranco Pardi pagina 9 FrancescoLeonetti Il seno pagina 10 FrancoMannl Il nuovo codice canonico (Le leggi sono munifico dono del Signore, di GiovanniPaoloII; Codex iuris canonici I917;Codex iuris canonici 1983) pagina 11 Da Parigi a cura di Nanni Balestrini e di Maurizio Ferraris pagina 12 Da Berlino a cura di Kurt Hilgenberg e di MaurizioFerraris pagina 13 Carlo Formenti Hluminismosociologico (Illuminismo sociologico, di N. Luhmann; Ordinee conflittonellasocietà, L'Aquila 18-19febbraio 1983) pagina 14 Bibliotecaginobianco Le «prove d'artista» di Enzo Mari Si sa che per la grande iniziativa di Quintavalle i mostri maggiori del design e del progello hanno spedito con autocarri tutti i loro rotoli in un apposito Istituto parmense, il Dipartimento progetto del «Centro studi e archivio della comunicazione» (Csac). E questo quaderno per Mari nella serie di grandi mostre inventate e gestite da Quintavalle, in vari anni, ha il n. 56. Mentre ora un gruppo di collaboratori cura la catalogazione specialistica della montagna preziosa di carte arrotolate o distese, già collocata con alcuni esempi in evidenza per il lettore, un convegno generale sul progetto nel febbraio '82 ha posto alcuni quesiti decisivi; e quindi nella primavera '83 è presentata nell'edificio affascinante della Pilotta una mostra di pezzi progettuali scelti di Mari, in quadri, vetrine, palchi, percorsi ... I fogli dati da Mari al Csac sono, mi dice, 8.500. A noi ha date in consegna, di alcune diecine di originali che gli restano, le copie ... Peccato davvero che non siamo noi il Csac. E mancano le opere maggiori di • Mari. Io ho un ricordo particolarissimo della Pilotta: mi risuona ali'orecchio ancora la violenza critica prof onda di un amico di gioventù, Francesco Arcangeli, che durante una famosa mostra di Guttuso venti anni fa diceva a tutti: «Picassata alla siciliana; ma non è mia la battuta, è di Mazzacurati» ... e lasciava capire, come in uno scritto ha poi detto, che egli non amava neanche Picasso, al confronto con Braque ... Ebbene, a me Mari ricorda Braque ... E qui ora si vede finalmente Mari abbastanza bene nella sua ricerca indaginosa per rifondare a modo suo la «relazione oggettuale» ... Resta oscuro quale professione e quale ricerca egli eserciti, mentre emerge che egli è impegnatissimo a lasciare oscura questa cosa, legando a suo modo arte-scienza e teoria della percezione e utopia sulla base generale degli uomini ... Ciò che è assol111amentestraordinario, nelle lunghe scritture del catalogo della Mostra delle vie di Mari, mentre l'analisi di Quintavalle è accuratissima, consiste in certi nastri-racconti (raccolti anch'essi da Simona Riva con le 8.500 carte) dove Mari ricostruisce i percorsi ideativi e definisce gli oggetti suoi propri. Si potrebbero ricavare citazioni, nomi delle cose ... Ora, tali oggetti non mi sembrano mai «prodotti industriali» ma al contrario mi ricordano la rottura purissima dell'uso che fu insegnata da Duchamp ... Oh se l'industria producesse davvero feci così miracolose! Oh mondo, allora, di oggetti assolutamente migliori di noi, e, diversamente da noi, sottratti al regresso storico verso il Medioevo! Francesco Leonetti Mauro Ferraresi Lettere Palimpsestes pagina 37 (Introduzioneali'architesto - Palimpse- Giornale dei Giornali stes, di G. Genette; La retoricaantica, Le ~guerre stellari~ di Reagan di R. Barthes) pagina 38 pagina 15 lndlce ddla comunicazione Paolo Vinels ' Più giornali meno notizie Musi! e Mach pagina 38 (Sulle teoriedi Mach, di R. Musi/; Le Le immagini Peterllchols ltossocardhwe Realtà • romanzo nell'ambigua figura del cardinale Fabrizio Ruffo di Calabria. Pluo Jahler Conme a cva dJ Ottnto Cecdal • l!utco Glwlattl Tra pamphlet e memoriale lirico, sagQI e racconti pubblicati per la prima volta in volume. Edlth WlwtOll La CUI della gioia New York, fine dell'Ottocento, la storia di Lily Bart, vittima e •complice, delle regole sociali. Una prova superba della grande scrittrice americana. Jor,e LalsBor,a AdolfoBloyCasara I signoridelmistero La cattedra1e d lla paura Da Poe a Stevenson, da Conan Doyle a Chesterton, due celebri •aficionadosdel ,giallo, presentano i migliori racconti polizieschi. Editori Riuniti Istituto Gramsci Fondazione P.P. Pasolini Provincia di Milano teorie della causalità, di Autori vari; Le «proved'artista» Stili di analisi - Freud, Wittgenstein, t-d_i_E_n_z_o_M_a_n_· ----------; li 2 maa<rio alle ore 9,30 Musi/, di A. Gargani;Parolespostatee ,:,oparole sospese, di C. Monti) alfabeta non SIOp pagina 16 •-•- alla Sala dei Congressi Antonio Porta della Provincia di Milano L'arte degli opposti (Il raggiod'ombra, di G. Pontiggia) pagina 17 Testo Intervento di Alfabeta: «Non soltantoil 7 aprile» pagine· 18-22 Tonino Grllfero Intorno all'interpretazione (Teoriadell'interpretazione criticaletteraria - Come si interpretaun testo, di E.D. Hirsch) pagina 23 Maria Bonatti César Moro, un surrealista peruviano con una nota di Antonio Porta pagina 24 Umberto &o La scolastica conversazione con Ceserani, Ca.stellari, Pasquini, de Federicis pagina 27 Roaella BonflglJoll Una nuova sensibilità (PaesaggioMetropolitano,Roma gennaio-febbraio1981;Scenario-Informazione, Roma marzo-aprile1982;Collezione Autunno-inverno, Firenze novembre-dicembre1982) pagina 29 Giuseppe Bartoluccl Vuoto di pubblico pagina 30 Antonio Attisanl Altri esempi pagina 31 Cfr. Bibliografia analitica: I piccoli editori 1 a cura di MaurizioFerraris pagine 32-33 Romano Canosa Isabella Colonnello La storia della prostituzione pagina 34 Italo Mettu Cento anni di prostituzione italiana pagina 35 Isabella Pezzini Terra/idee (Viaggi, di J. Mandeville; La ricerca de~'Eldorado, di W. Raleghe L. Keymis; L'esplorazione italianadell'Africa, di Autori vari) pagina 36 mensile di informaz:ione culturale dellacooperativaAlfabeta Comitatodi direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella, Paolo Volponi Redazione: Carlo Formenti, Vincenzo Bonazza, Maurizio Ferraris, Marco Leva, Bruno Trombetti (grafico) Art director Gianni Sassi Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale Redazione e amministrazione Via Caposile 2, 20137Milano Telefono (02) 592684 Coordinamentoeditoriale: Carlo Formenti Coordinatoretecnico: Giovanni Alibrandi Pubblicherelazioni: Marco Pesatori Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, Milano Telefono 5392546 Stampa: Rotografica s.r.l. via Massimo Gorlci, San Giuliano Milanese Distribuzione: Messaggerie Periodici Abbonamento annuo Lire 30.000 estero Lire 36.000 (posta ordinarja) Lire 45.000 (posta aerea) •- Numeri arretrati Lire 5.000 Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale via Caposilc 2, 20137 Milano Telefono (02) 592684 Conto Corrente Postale 15431208 Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.9.1981 Direttore responsabile Leo Paolazzi Tutti i dirittidi proprietàletteraria e artistica riservati Una giornata insieme a Pasolini Passione e ideologia nel cinema di Pasolini Tavola rotonda con: Vittorio Spinazzola, Lino Micciché, Robeno Escobar, Marco Vallora, Goffredo Fofi, Giuseppe Perrella, Edoardo Bruno Coordinatore: Vittorio Spinazzola .. .'anche l'espressione è azione': riflemone sulla poesia di Pier Paolo P&10lini Tavola rotonda con: Mario Lavagetto, Paolo Volponi, Andrea Zanzotto, G. Carlo Ferretti, Giovanni Raboni, Luigi De Nardis, Gianni Scalia, Stefano Agosti Coordinatore: Mario Lavagetto Amado mio omaggio a Pier Paolo Pasolini di Gianni Fiori. Spettacolo musicale Assegnazione del premio «Pasolini di Poesia». m Edizione Assegnazione del 9fflDio Pasolini alle tesi di laurea. IV Edizione Primule e sabbia Valeria Magli balla alcune poesie di Pasolini Per la Fondazione Pasolini hanno collaborato: Laura Betti, Ninetta Bodini, Gabriella Pescucci

Paradosseibraici Rosellina Balbi Hatikvà. U ritorno degli ebrei nella terra promessa Bari, Laterza, 1983 pp. 168, lire 10.000 e he gli ebrei siano portatori e provocatori di paradossi, se ne accorge chiunque cerchi di parlare di loro. È paradossale che la loro consistenza di gruppo sia rafforzata, se non prodotta (lo di• ceva già Sartre), dall'antisemitismo. Dopo una ventina di secoli di esilio, gli ebrei hanno sviluppato un'adattabilità che li porterebbe a disciogliersi tra i popoli ospiti, se non fossero ghettizzati, discriminati, o nel caso migliore considerati «diversi». D'altro canto, la loro individualità collettiva è quasi inafferrabile: non razziale (basta confrontare ebrei russi e marocchini, tedeschi ed egiziani o turchi); non religiosa, data la precoce diffusione tra loro di posizioni laiche; non linguistica, perché soltanto gli askenaziti hanno elaborato una lingua propria, l'yiddish. Restano alcune tradizioni, varie secondo paesi, regioni, persino famiglie; resta il senso di un'unità perduta, di un esilio secolare. A interrogare ebrei di varia provenienza, risulterebbe forse che il nucleo della loro realtà di popolo sta in una doppia fedeltà: fedeltà ai morti per le persecuzioni, fedeltà ai fratelli che sono stati e sono perseguitati. Una concezione stoica e immanente dell'onore, anche davanti alla morte. Ma con i paradossi si può proseguire all'infinito. È paradossale che vari paesi abbiano favorito l'immigrazione degli ebrei limitandone e indirizzandone le attività (no al possesso e al lavoro della terra, sì all'esercizio dell'esattoria e del prestito; no agli studi universitari, sì all'artigianato e al commercio), e poi, in momenti di crisi, li abbiano perseguitati proprio perché esercitavano le attività richieste. È paradossale che l'antisemitismo, i cui argomenti fondamentali risalgono alla concorrenza del derivato vincente dell'ebraismo, il cristianesimo, abbia continuato a prosperare in epoche e ambienti non religiosi. L'antisemitismo fascista è apparso nella sua prima fase un degno erede dell'Inquisizione di Spagna, nel suo mescolare religione e razza, acqua santa e genealogia. Questi paradossi derivano in buona parte da una asimmetria delle distanze. L'ebreo sente la sua diversità come minima: qualcosa che riguarda l'intimità di alcuni ricordi, sentimenti, emozioni. Tant'è vero che gli ebrei della diaspora non solo si sono inseriti in tutti gli ambiti della società a loro aperti, ma hanno partecipato ai moti nazionalistici e irredentistici locali, a partire dal Risorgimento; si sono ovviamente trovati a combattere, per esempio nella grande guerra, ebrei francesi e italiani contro austriaci e tedeschi. La vera patria è quella di adozione. Grande invece la diversità quando vista dagli altri. La constatazione di Ludwig Borne è lapidaria: «Alcuni mi rinfacciano di essere ebreo, altri me lo perdonano, altri ancora addirittura mi lodano per questo, ma tutti ci pensano». È questa distanza degli altri, troppo maggiore della distanza dagli altri, a costituire il segno di elezione e di condanna degli ebrei. Nessuno scampo, tra gli espedienti tentati: la Spagna del Cinquecento insegna che una conversione in massa alla religione dominante non serve; cambiamenti di cognome non sono sfuggiti, durante il nazismo, a facili ricerche anagrafiche; l'isolamento individuale dalle comunità ebraiche ha semmai privato di una solidarietà senza produrne altre. Si sperò molto nella vittoria delle concezioni democratiche, favorevoli per definizione a tutte le minoranze oppresse. E anche per questo fu così grande il contributo degli ebrei all'azione rivoluzionaria, in particolare alla rivoluzione russa. Lo stalinismo dimostrò che pure questa era un'illusione; e dopo Stalin le cose sono migliorate di poco, come si può verificare ogni giorno ad apertura di giornale. L'alternativa, sviluppatasi appunto in parallelo, e in dialettica, con la storia del socialismo, era la nascita di un nazionalismo ebraico, di un movimento per ottenere l'assegnazione di un focolare nazionale. Fu il sionismo. L e vicende attuali della nazione effettivamente ricostituita, Israele, suscitano reazioni così immediate e passionali da impedire un discorso pacato. Si può affermare tranquillamente che quasi nessuno sa cos'è il sionismo. Benvenuto perciò il libro di Rosellina Balbi, Hatikvà. Il ritorno degli ebrei nella terra promessa. Opera lucida e avvincente, in cui si seguono tre linee storiche intrecciate: quella del sionismo, quella delle persecuzioni dell'ultimo secolo, quella dello stato di Israele. La prima è senza dubbio la meno conosciuta, e farò su di essa qualche considerazione saccheggiando i materiali raccolti e intelligentemente ragionati dalla Balbi. B1bliotecag1nobianco Cesare Segre Il sionismo è uno degli ultimi movimenti di riscossa nazionale d'Europa. Esso matura tra bruschi e decisivi cambiamenti della situazione istituzionale e sociale, tra riforme illuminate, movimenti rivoluzionari, restaurazioni. In questo panorama cangiante, gli ebrei passavano da entusiasmi a pogrom, constatando ancora una volta la propria sostanziale insicu- . rezza (fu una cartina di tornasole ·il caso Dreyfus). Questo, proprio mentre le idee progressiste mettevano in crisi la loro religiosità e i loro riti, e all'interno delle comunità si prendeva coscienza delle divaricazioni sociali e politiche. Il sionismo nasce perciò, più che come ideale di una nazione cosciente di sé, come impegno di ricompattamento e come tentativo di sottrarsi al sempre latente antisemitismo. Theodor Herzl, il giornalista ungherese che fondò il sionismo, aveva una sola preoccupazione (non poteva immaginare quanto giustificata): salvare gli ebrei. Aveva pensato prima a un battesimo collettivo. Poi aveva cercato terre disabitate o poco abitate dove poter trasferire il suo popolo: il sud dell'Argentina, l'Uganda. La Palestina (allora prevalentemente desertica) era una sola delle possibilità, certo più prestigiosa come sede degli ebrei in un passato remoto. Herzl non trovò da principio molte adesioni: gli ortodossi vedevano con sospetto uno Stato laico, istituito per volontà umana senza l'opera del Messia; gl'idealisti invocavano una rinascita spirituale, che sola avrebbe giustificato l'autonomia di una nazione; i socialisti riponevano più fiducia nella rivoluzione, preferendo la fraternità di i !. classe a quella di popolo. Solo nel 1905, quando Herzl era già morto, un congresso sionista decideva definitivamente per una sede in Palestina. Occorre attendere altri quarantadue anni prima che il sogno di Herzl sia realizzato da una risoluzione dell'Onu; nel mezzo, il genocidio di sei milioni di ebrei e gli altri massacri minori, prodotti o tollerati dall'indifferenza o dall'orgoglio imperialista o dagli interessi commerciali dell'Occidente. La Balbi fa benissimo a soffermarsi proprio sui primi decenni del Novecento, sulle prime limitate immigrazioni, sui rapporti tra ebrei e popolazioni locali, sui cambiamenti prodotti nella nuova entità ebraica dalla situazione e dal tipo di vita. Intellettuali che si facevano contadini, imbelli e pacifisti che imparavano l'uso delle armi; e in complesso un rovesciamento delle gerarchie sociali molto più radicale di quello predicato dai rivoluzionari europei. È in questo periodo l'incubazione di quanto di meglio ha poi dato Israele. Un 'altra tematica interessante sviluppata dalla Balbi è quella politica. Non alludo solo ai precedenti e alle conseguenze della «dichiarazione Balfour», la quale sin dal 1917 impegnava il governo inglese (che poi mancò alla parola) a costituire «un» focolare nazionale ebraico in Palestina (nella prima redazione si diceva «il» focolare; identico problema filologico nella ben più recente risoluzione dell'Onu che impegna Israele a restituire «territori occupati», oppure «i - cioè tutti i - territori occupati»). Sottolineo invece i tentativi frequenti di trovare un accordo preliminare con gli arabi: dal patto stipulato da Chaim Weizmann con Feisal nel 1919 (egli accettava la «dichiarazione Balfour»), agli incontri di Ben Gurion con esponenti del nazionalismo arabo nel 1935, alle trattative di Golda Meir con Abdullah di Transgiordania nel 1947. Ma Weizmann stesso constatava scoraggiato: «Nei nostri rapporti con gli arabi, una delle maggiori difficoltà è stata la mancanza di una personalità, o di un gruppo di personalità, capace di rappresentare il mondo arabo». Merita anche ricordare che già Ahad Ha'am aveva preconizzato uno Stato binazionale. I nsomma, mentre il sionismo non aveva mai rivendicato tutta la Palestina biblica («prenderemo quello che ci verrà offerto», diceva Herzl), il progetto della «grande Israele» rientra nella politica espansionista e militarista degli ultimi governi israeliani. Era in sintonia col sionismo, quasi sua realizzatrice, l'assemblea dell'Onu che istituì lo stato di Israele; era la voce del sionismo Gromiko, che in quell'assemblea dichiarava: «Il fatto che nessun paese occidentale (dimenticava la Russia. C.S.) sia in grado di assicurare la tutela dei diritti elementari del popolo ebraico e di difenderlo contro le violenze dei carnefici fascisti, spiega l'aspirazione degli ebrei al proprio Stato. Negare questo diritto al popolo ebraico è inammissibile». Eppure oggi, sotto l'etichetta dell'antisionismo, si sta sviluppando un nuovo antisemitismo. Sarebbe ingenuo pensare che si tratti Disegno per Vaso da fiori doppio (/968)

di disinformazione: basterebbe qualche libro come quello della Balbi per mettere le cose in chiaro. Il fatto determinante è che lo stato di Israele ha accolto solo una parte degli ebrei. La maggioranza non ha accettato (o ha avversato) una qualificazione nazionale e la conseguente identità di nazione e territorio. Questi ebrei hanno considerato loro patrie i paesi in cui hanno lavorato, magari da molte generazioni, di cui hanno assimilato la cultura e gli ideali, stringendo anche, appena possibile, legami familiari. Proprio per questo lo stato d'Israele, rifugio per molti ebrei, ha creato nuovi problemi agli altri. Prima, la questione ebraica s'impostava su uno schema bipolare: ebrei-non ebrei. Ora lo schema è tripolare: ebrei-stato d'Israelealtri stati. Per gli ebrei della diaspora, Israele è uno Stato straniero. Lo considerano con sentimentale simpatia o con amara severità (nella misura in cui i suoi governi lo allontanano dagli ideali che gli hanno dato la prima giustificazione); non partecipano ai suoi processi decisionali e non possono che giudicare, come chiunque altro, il suo operato. Ma i cittadini non ebrei degli Stati per cui gli ebrei hanno optato tendono a spingerli surrettiziamente verso l'altro polo da loro scartato: Israele. Era una traslazione di responsabilità (o una mostruosa sineddoche) imputare agli ebrei il comportamento della plebaglia di una piazza di Gerusalemme in una pasqua del quarto decennio d.C. Con identica traslazione di responsabilità li si vuole ora imputare di ciò che decide e fa il governo di Gerusalemme, anche per loro straniero. Credo che con l'accusa di sionismo l'antisemitismo abbia trovato la sua perfezione. Non parla più di razza (argomento screditato), non di deicidio (imputazione ritirata anche dalla Chiesa), non di religione (quasi tutte le religioni sono in crisi). L'accusa di sionismo rinverdisce il mito nazista della congiura ebraica internazionale. accomunando gli ebrei in una colpa politico-ideologica efficace presso i portatori di altra ideologia e là dove il solo sospetto di contatti col «nemico» può condurre in carcere o nel Gulag. In generale, permette di concentrare le passioni popolari (lo si è visto durante la guerra del Libano) contro un bersaglio indiMito eBabele Jacques Derrida «Des tours de Babel» in aut aut n. 189-190 Paesaggi benjaminiani pp. 272, lire 7.800 Autori vari La fonction symbolique a c. di M. Izard e P. Smith Paris, Nrf, 1979 Donai Philipp Verene «Rethorik und Phantasie» in Das Gesprach als Ereignis a c. di E. Grassi e H. Schmale Miinchen, W. Fink, 1982 L e più note teorizzazioni del pensiero mitico, da Vico a Schelling, da Cassirer a Durand, da Lévi-Strauss a Barthes, peccano per un lato almeno: quello di considerare il pensiero mitico come irrecuperabile o almeno non sovrapponibile al pensiero razionale. Bisogna giungere fino ai lavori di Dan Sperber - di cui è stato tradotto in Italia solo Le symbolisme en général che risale al 1974 (Per una teoria del simbolismo, Torino, Einaudi, 1981), - perché emerga l'ipotesi d'un mito che alberghi in sé un quid di razionalità;anzi, perché venga affermato come una prima fase razionale sia indispensabile alla stessa formulazione e costituzione del pensiero mitico-simbolico. «Selon la conception traditionnelle, dans l'histoire de l'humanité, tout comme dans celle de l'individu, la rationalité serait progressivement acquise et tendrait à remplacer les processus symboliques; selon la conception avancée ici, ce n'est pas la rationalité mais seulement des connaissances qui soni acquises; ces connaissances soni organisées en schèmes qui permettent à l'individu de trailer une plus grande quantité d'informations au moyen d'un dispositif rationnel qu'il possède au départ». (Dan Sperber «La pensée symbolique est-elle pre-rationnelle?», in Autori vari, La fonction symbolique, Paris, Nrf, 1979). Ho voluto riportare con una certa ampiezza queste considerazioni di Sperber, per una ragione soprattutto: che le stesse si riallacciano a quanto affermavo già in un mio antico saggio sul mito di Babele («Omoglossia, eteroglossia e il mito della fede», in Archivio di filosofia, Roma 1966). La torre di Babele, si sa, è un mito antichissimo, non soltanto giudaico-cristiano, ma - come spesso accade - di molti altri popoli. Il mito dell' eieroglossia - ossia della parlata di lingue diverse - si trova già in un'analoga leggenda persiana (come ci riferisce Schelling nella sua Philosophie der Mythologie), dove l'eteroglossia viene descritta come opera di Ariman; cui segue, dopo la vittoria su Ariman da parte di Ormudz, una rinnovata unità linguistica, una omoglossia. P erché ho citato il caso dell'eteroglossia babelica? Perché proprio questo mito ci indica chiaramente come il significato, presente nella stessa analisi etimologica del nome di Babele, sia capace di chiarire l'origine e lo sviluppo del pensiero che ne sta alla base. Il vocabolo Babele, infatti, è strettamente connesso ad altri termini come ba/bus, balbutiens, barbaros ( e si veda il tedesco babe/n, e il francese babiller). Disegnoper Vaso da fiori doppio (1968) Evidentemente, per gli antichi l'esistenza di Barbari (ossia di popolazioni che non conoscevano la lingua del paese, che «balbettavano») costituì il punto di partenza di tutta la successiva costruzione mitica dell'eteroglossia, considerata una punizione divina. Per cui il fenomeno dell'eteroglossia doveva venir rivestito dalle vesti fantasiose d'un mito come quello della Torre, per giustificare il semplice fatto che esistessero popolazioni o individui incapaci di parlare il «normale» idioma d'un paese. È sintomatico, del resto, che in un suo recente saggio Jacques Derrida si rifaccia proprio alla leg• genda di Babele, per rispolverare un problema così discusso e così poco «antico» come quello della traduzione da una lingua all'altra (cfr. «Des tours de Babel», in aut aut n. 189-190, pp. 67-97). Derrida - che, in realtà, trascura o ignora la base etimologica soBibliotecaginob1anco Cii/o Dorfles pra riferita e avanza invece quella proposta da Voltaire, secondo cui Babele deriva da Ba (Padre) e Bel (Dio), dunque: «città di Dio», etimologia molto meno pregnante di quella suggerita da Schelling - vuol riconoscere nel mito dell'eteroglossia la vera origine della traducibilità e dell'intraducibilità: «Quest'esempio singolare, insieme archetipico e allegorico, potrebbe introdurre tutti i problemi cosiddetti teorici della traduzione. Tuttavia nessuna teorizzazione, dal momento che si produce in una lingua, potrà mai dominare l'esito babelico» (p. 74). Fino a che punto, allora, il mito dell'eteroglossia si può considerare come l'equivalente della discussione attorno alla traduzione e all'impossibile-possibile convergenza tra due lingue diverse? «Si direbbe - continua Derrida, appellandosi anche a Benjamin, - che ogni lingua è come atrofizzata nella sua solitudine, magra, bloccata nella sua crescita, inferma. Grazie alla traduzione ( ... ) a questa supplementarità linguistica per mezzo della quale una lingua dà all'altra ciò che le manca, (... ) quest'incrocio delle lingue assicura la crescita delle lingue, e anche la 'santa crescita delle lingue' fino alla 'fine messianica della storia'. (... ) La traduzione, in quanto santa crescita delle lingue, annuncia sicuramente la fine messianica» (p. 95). «La traduzione promette un regno alla riconciliazione delle lingue» (p. 93). Come si vede, ce n'è d'avanzo per stabilire un traitd'union tra l'antico mito babelico e il nuovo mito d'una traduzione intesa come ritorno all'omoglossia. Lo stato edenico di omoglossia, di unica lingua comune a tutti, e lo stato di eteroglossia, di «confusione delle lingue», sono dunque facilmente razionalizzabili e danno al mito stesso una ben maggiore rilevanza. È soltanto attraverso la pluralità delle lingue che l'uomo raggiunge una maturità, diventa capace di comunicare anche con le popolazioni lontane e «barbariche»; mentre il balbettio del bambino, il «babillement» dell'infante, è destinato a restare tale finché l'umanità è infantile, omoglossica, finché il crollo della Torre - la fine dell'intraducibilità - non è ancora avvenuto. P er tornare alle diverse possibili interpretazioni del mito in generale, di fronte alle tre ipotesi: l. quella «storico-filogenetica», secondo cui il pensiero razionale sarebbe un'evoluzione tarda d'un primo stadio esclusivamente simbolico (Lévy-Bruhl); 2. quella «ontogenetica», secondo cui la razionalità concettuale è, nello sviluppo infantile, un'acquisizione posteriore a uno stadio «preconcettuale» e simbolico (Piaget); 3. quella «cognitiva», secondo cui il pensiero razionale sarebbe uno sviluppo successivo di un primitivo pensiero simbolico; sembra effettivamente molto acconcia l'ipotesi di Sperber, secondo cui anche il pensiero mitico-simbolico è costruito a partire da un minimo di elaborazione razionale preesistente. Perciò non si potrebbe più considerare il pensiero mitico o simbolico come necessariamente preesistente a quello razionale (né feso a qualunque dimostrazione o attentato. La strategia e le alleanze di Israele, la sua sordità verso i diritti dei palestinesi, l'oppressione degli arabi di Cis~iordania creano un focolare permanente di impopolarità, che permette (in questa ottica strabica) di polarizzare sugli ebrei della diaspora passioni e istinti. L'equazione ebrei = sionismo = Israele contiene tragiche potenzialità. E, ancora, un paradosso: chi ha scelto diversamente da o contro Israele, può dover pagare per Israele. onto- né filo-geneticamente). E in questo senso sembra indirizzato anche il recente giudizio di uno studioso come Donald Phillip Verene, quando afferma (in un suo saggio che fa parte dei Zurcher Gespriiche raccolti da Grassi e Schmale e impostati sopra una concezione del mito molto lontana da quella abbracciata da Sperber): «La fantasia mitica, rispetto alla razionalità e alla conoscenza, è preminente( ... ). Ho cercato di dimostrare che la teoria della conoscenza può affrancarsi dalla limitazione entro i confini che le sono posti dalla razionalità scientifica e può scoprire nuove regioni conoscitive, quelle dell'immagine e del discorso». Questa opinione, come si vede, non si discosta gran che da quella sostenuta da Sperber, già a partire dal suo primo lavoro, dove affermava: «Il simbolismo è un sistema conoscitivo non semiologico; non è sottomesso a restrizioni di questo tipo». Che cosa rimane oggi, in definitiva, del mito della torre di Babele? Forse soltanto la constatazione che neppure il più sofisticato calcolatore elettronico è in grado di tradurre (senza «tradirlo») un brano letterario o una poesia da una lingua all'altra; che la comprensione totale e assoluta d'un idioma è possibile soltanto attraverso una qualità che non corrisponde a nozioni grammaticali ma a una sorta di «empatia» (usando questo vecchio concetto in un'accezione assai dilatata); e infine che la conoscenza d'una lingua ha a che fare addirittura con l'organizzazione citoarchitettonica della nostra corteccia cerebrale. (Se è vero, come recenti esperimenti sembrano dimostrare, che i giapponesi - ad esempio - possiedono localizzazioni cerebrali diverse nella distribuzione tra emisfero destro e sinistro proprio in merito alla diversità nella strutturazione della loro lingua e nella visualizzazione della stessa rispetto a quella dei popoli occidentali). Dato che non ci è possibile, insomma, trasformare la struttura del nostro cervello dopo una certa età, dobbiamo accettare il fatto che la nostra possibilità di comprendere fino io fondo certi meccanismi linguistici «alieni,. ( è il caso di usare questo termine proprio in senso fantascientifico) ci rimarrà per sempre precluso. Sicché, per l'instaurarsi di una rinnovata omoglossia, dovremo attendere pazientemente o una nuova pentecoste, con la discesa delle fiammelle dello Spirito santo sulle nostre teste, o una trasformazione filogenetica nelle aree linguistiche della nostra corteccia.

Charles Marowitz The Marowitz Hamlet London, Allen Lane, 1968 A Macbeth London, Calder & Boyars, 1971 «An Othello» in Open Space Plays selected by Ch. Marowitz Harmondsworth, Penguin, 1974 The Shrew London, Calder & Boyars, 1975 The Marowitz Shakespeare London, M. Boyars, 1978 Sex Wars. Free Adaptations from lbsen and Strindberg Boston-London, M. Boyars, 1982 e ome difendere «quella polvere indecifrabile che fu Shakespeare» (Borges)? Difenderlo dall'oblio; e da quell'altro, terribile oblio che è l'oblio per eccessiva familiarità. Si tratta alla fine dell'esistenza stessa di un grande testo come poesia, cioè come stimolo di perplessità, oggetto di dibattito, fonte e origine di croce e delizia, manutengolo di complotti e di complicità - non come m•,;,o ristoro alla sete estetica. Se questo è in gioco, tutto dovrebbe essere permesso. Quando la bardolatria fallisce, cioè sempre, perché non ricorrere alla parodia? Charles Marowitz spezzetta i brani più famosi di Hamlet e introduce altri personaggi della tragedia che li commentano e ci scherzano sopra: cioè adopera Hamlet solo tra virgolette, in modo pop, con una riproduzione dévoyante. « ... perché non c'è niente che sia buono o cattivo, ma è il pensiero che lo rende tale», dice il principe di Danimarca in The Marowitz Hamlet; e un altro personaggio commenta: «Toccato, veramente toccato ... » (battuta tratta dalla scena del duello). «Essere propriamente grandi significa non scuotersi se non per una ragione importante ..... ; e l'altro personaggio: «Recita questo brano, ti prego, così come l'ho pronunciato a te, facendolo saltellare sulla lingua ... » (dalla scena con gli attori). L'approccio satirico del trascrittore moderno è segno di mancanza di rispetto: non per l'originale, ma per la condizione abbietta in cui l'originale, troppo conosciuto, ora si trova. La parodia non nasce dal di fuori ma dal di dentro: dal verme della conoscenza che consuma la rosa della poesia (parafrasando una celebre metafora shakespeariana). Come diceva Georges Bataille, ogni opera è anche la parcdia di se stessa. Marowitz non usa altri drammi e altre parole per riscrivere Shakespeare: riscrive Shakespeare con lo stesso Shakespeare. The Marowitz Shakespeare sono adattamenti e collages scritti da Shakespeare e scelti da Marowitz; ma molta malizia si può celare in quel participio «scelti». Se tutto è già stato detto in passato, perché parlare? La mattina, all'alba, come è possibile aprire le tende e la bocca e pronunciare le parole «Che splendida giornata!» se,1za arrossire, pur sapendo c;he queste stesse parole sono state pronunciate milioni di volte in simili circostanze? Maròwitz Se tutto è già stato scritto, perché scrivere? La sera, nello studio, come è possibile prendere penna e calamaio (si fa per dire) e scrivere che Oliver ama Jenny Jenny ama Oliver, quando un altro scrittore molto tempo fa aveva già scritto che Romeo ama Giulietta Giulietta ama Romeo? [I contributo dell'artista è dunque questo: la sostituzione di una coppia di amanti con un'altra coppia dal nome più moderno? «Rimastichiamo la lingua dei morti» rimasticava Enrico IV in Pirandello. La distinzione fra l'atto delJo scrivere e l'atto del copiare è a volte straordinariamente sottile, nonostante tutte le sciocchezze romantiche sull'ispirazione e sull'originalità. Siamo forse ispirati quando la mattina respiriamo l'aria a pieni polmoni e diciamo trionfalmente e sinceramente: «Che splendida giornata!» Lo scrittore è uno scriba infedele, troppo pigro per copiare fedelmente e coscienziosamente; e allora cambia qualche dettaglio qua e là, un po' per evitare la noia, un po' per coprire le sue malefatte e concedersi la facile illusione di avere qualcosa da dire. F orse il modo più economico e più proficuo di essere scrittore non è inventare qualcosa di nuovo (che è impossibile), o trovare un nuovo modo di dire qualcosa di vecchio (che è quasi altrettanto impossibile), ma riscrivere parole che sono già state scritte adottando una sequenza diversa dall'originale. Lo scrittore non è poi tanto diverso dall'inventore di una contrepèterie che riceve dalla sua tradizione linguistica la parola francese parachute e la trasforma io un char-à-putes. Se poi lo scrittore è anche un poeta, allora può prendere dei versi famosi e smazzarli in modo da ottenere risultati nuovi e inusitati, impiegando gli stessi ingredienti del passo originale (cioè non soltanto gli ingredienti comuni a tutti - le ventisei lettere dell'alfabeto e le diecimila parole del vocabolario, - ma le minisequenze di parole che si trovano in un verso). Come ricordava Umberto Eco nel suo Trattato, Pascal scriveva: «Qu'on ne dise pasque je n'ai rien écrit de nouveau: la disposition des matières est nouvelle», sacrificando inventio ed elocutio al dono essenziale della disposirio. L'arte di scrivere poesia, di ridurre un minuto frammento di conoscenza e di sensibilità nel circuito chiuso di uno schema metrico, è compito inaccessibile piuttosto che arduo, se il poeta è cosciente di duplicare formule che sono già state messe alla prova ed esperimentate in passato (voglionsi quindi poeti incoscienti, o almeno solidamente ignoranti). Virgilio aveva già versificato buona parte dello scibile e del sensibile, e con la sua abilità suprema di prosodista e di versificatore ritmico aveva ottenuto risultati che nessun poeta poteva sperare di emulare. Immaginiamo per un istante che io abbia qualche cosa di importante da dire, e abbastanza energia per decidere di dirla. Inoltre, potrei decidere non soltanto di parlare, ma di mettere su carta quello che voglio dire; e, per magnificare e allargare la portata di quello che Guido Almansi intendo dire, potrei addirittura scegliere la scrittura in versi. Ecco, qui si aprono due alternative: potrei scrivere i versi io stesso; oppure potrei limitarmi a identificare ed a isolare versi di Virgilio che si adattano a quello che intendo dire, e contrabbandarli nel mio contesto moderno e privato. È come se T.S. Eliot avesse deciso di scrivere le sue poesie e i suoi poemi citando Dante e Baudelaire e Wagner e Ovidio non solo qua e là ma in modo sistematico, strofa dopo strofa, senza prendersi la briga di modificare i versi originari (cioè come se T.S. Eliot avesse imitato più da vicino Ezra Pound). Nel Rinascimento questa tecnica della citazione aveva generato il centone, un genere letterario che sfruttava i versi dei classici per raccontare storie completamente diverse da quelle a cui erano interessati gli antichi poeti. La vittima principale fu Virgilio, il massimo artefice di versi della lirica occidentale; ma anche altri poeti, soprattutto latini, furono saccheggiati, anzi vampirizzati, in questo modo. Con i versi sparsi dell'Opera omnia di Virgilio i centonisti scrissero del Calvario, delle loro avventure personali, degli scontri navali della flotta olandese; lontane vicende di significato simbolico e contemporanei avvenimenti di immediata rilevanza. Tutto quello che il centonista doveva fare era sedere ai bordi dello stagno virgiliano con amo ed esca, e pescare il verso adatto a ogni circostanza. L'operazione nasce da due scopi opposti: per evitare sforzo e dolore (motivazione algof.oba); per ricercare piacere e diletto (motivazione edonistica con componente sadica). Il dolore da evitare è quello del parto poetico («the pangs of creation»), a cui si preferisce lo spoglio di migliaia di versi per trovare le parole e il concetto voluto. Il piacere (grande) da ricercare è la volontà di falsare la personalità altrui (di 'cambiare i connotati' a qualcuno), costringendo il 'maestro' e 'autore' a dire cose che non si era mai sognato di pensare ma che aveva inca'.ltamente scritto: far scrivere a un poeta le poesie che non ha mai avuto il coraggio di scrivere (ma che sono lì, acquattate nelle strofe, nei versi, se non addirittura nei giochi anagrammatici della poesia). Come un poliziotto disonesto che fabbrica prove e indizi usando frammenti di nastri registrati, il poeta centonista diventa un falsario che si diletta nella sistematica deformazione dell'intenzione originale del creatore per soddisfare le proprie ambizioni e la propria invidia. Lo scrittore è finalmente libero dall'Ansia dell'Influenza (ci riferiamo al titolo del celebre saggio critico di Harold Bloom): non è più Virgilio che influenza lui, bensì lui che influenza Virgilio, alterando il significato dei suoi versi. N ei suoi adattamenti shakespeariani (più che in quelli da lbsen e da Strindberg) Charles Marowitz è un perfetto centonista moderno. Da un lato, la sua opera appartiene alla nuova moda di adattamenti shakespeariani in quanto l'autore partecipa e collabora al banchetto primitivo in cui il corpo di padre Shakespeare viene macellato smembrato divorato, secondo modelli antropologico-cultural-culinari ben noti. Da un altro, Marowitz si differenzia dagli altri commediografi che hanno adattato i testi di Shakespeare nel Novecento, in quanto rimane fedele alla lettera e non solo allo spirito dei drammi shakespeariani, riproducendo i versi originari ma alterandone la sequenza. Gli altri riscrittori adottano tall volta la trama dell'opera, i nomi dei personaggi, persino l'atmosfera del dramma primigenio, ma soprattutto l'aura mitica che si è creata attorno a certe leggende capjtali della nostra cultura (in questa direzione, il lavoro di Giovanni Testori dall'Ambleto al Macbetto e infine all'Edipo è esemplare). Per quanto riguarda il testo - le parole stesse che formano il tessuto del dramma shakespeariano - tutti, tranne Marowitz, si prendono il massimo di libertà. L'adattatore moderno parte da un basso istinto che lo vuole stupratore di testi, macellaio di miti, vandalo di passi poetici, in modi che ci ricordano la disinvolta violenza, il cinico barbarismo, l'ironica sovversione ostentate da Shakespeare stesso verso la sua cultura. • Ma queste operazioni terremotanti richiedono negli altri riscrittori un linguaggio e un lessico autonomo. Non così nei testi di Marowitz, che adottano solo parole dalla concordanza shakespeariaBibl1otecaginobianco na, versi tratti dai Complete Works, e quasi sempre dalla commedia stessa che viene adattata. Il testo è stuprato dall'interno e non dall'esterno, come nel celebre quadro di Salvador Dalì, Giovane vergine autosodomizzata dalla sua castità. Slittiamo verso una metafora diversa: Marowitz non assassina i testi ma li costringe al suicidio. Gli altri adattatori sono gladiatori selvaggi che maneggiano ogni sorta di arma d'offesa per fare a pezzi e straziare questi venerandi capi d'opera; sfruttano l'alone di grandezza che circonda i nomi gloriosi, Macbeth, Otello, Tito Andronico, Re Giovanni, per soddisfare le loro perversioni private. Anche Marowitz deve soddisfare la sua perversione privata, ma con un bisturi, non con un'ascia d~.guerra. Ovvero Marowitz usa una forma di tortura psicologica piuttosto che agire da carnefice. «Hai scritto tu questo verso, signor Shakespeare? Ebbene, prova a ripeterlo, e vedrai cosa ti succede». A Macbeth di Marowitz sta al Macbett di lonesco come il Grande Inquisitore sta ad Attila. Il collage di Hamlet, il più famoso e il più infame degli adattamenti di Marowitz, è legato al mito di Hamlet, a tutto quello che uno pensa durante una rappresentazione di Hamlet e non osa dire. L' Hamlet di Shakespeare rimane intatto nonostante tutte le atrocità commesse dai filologi, dai critici, dagli adattatori e dai registi (i puristi che ne difendono la integrità pensano che si tratti di opera ben fragile se la sua grandezza può essere minacciata da una parodia). Qualcuno continuerà a leggere Hamlet nonostante quello che è stato perpetrato contro la tragedia. Se poi il testo non sopravvive alla violenza subita, questo significherebbe - ed è assurdo pensarlo - che non meritava la sopravvivenza. Marowitz denuncia tra le altre cose lo stato miserabile in cui sono decaduti alcuni dei più alti brani di poesia che siano mai stati scritti. Talvolta i versi non hanno più difesa, non a causa della parodia ma perché sono stati detti e ridetti, usati e abusati, declamati e biascicati, troppo a lungo. Si provi a ripetere ad alta voce il celebre attacco: «Oh if this too too so/id flesh ... » (Ah se questa carne troppo troppo salda ... ). Si viene subito colti da nausea non perché il verso non sia memorabile ma perché è troppo memorabile: lo si conosce 'a morte', anche se ci è stato risparmiato l'obbrobrio finale di essere coinvolti nell'antica «crux» testuale (so/id o sullied?) Marowitz sfrutta a suo vantaggio questa situazione grottesca e compie una operazione pop, citando tutti i versi come fra virgolette, come materiale di seconda mano, già conosciuto e già criticato (si pensi al vecchio ma significativo scherzo: «Che brutta tragedia l'Amleto: ci sono troppe citazioni!»). Il riscrittore riscopre una antichissima verità già nota ai classici: l'allucinante banalità della grande poesia quando è troppo nota e troppo citata. Basta dire: «Per me si va nella città dolente», per sentire i brividi, e non d'orrore.

Vitézlav Nezval Valeria e la settimana delle meraviglie trad. it. di Giuseppe Dierna Roma, Ed. e/o, 1982 pp. 156, lire 8.500 D ice il luogo comune che Breton abbia definito Praga «capitale magica dell'Europa», alludendo certo non solo all'antica, oscura ricchezza della mitologia alchemico-golemica della città vltavina, ma anche alla sfolgorante inventività della sua cultura d'avanguardia tra gli anni venti e quaranta («li pensiero di Kafka sposa ogni fascino, ogni sortilegio della stupenda Praga, la sua città natale: benché segni l'attimo presente, esso gira simbolicamente a ritroso con le lancette dell'orologio della sinagoga, regola a mezzogiorno il dibattersi dei gabbiani sulla Moldava, risveglia al tramonto, per sé solo, i forni spenti della piccola strada degli Alchimisti, vero quartiere riservato dello spirito ... », Antologia dello humour nero). Ma già Apollinaire, in quel capolavoro di ambiguità tutto giocato tra puntigliosità anagrafica e invincibile, spettacolare attrazione per il «surnaturel» che è Passant de Prague ( 1902), aveva evocato la figura leggendaria dell'Ebreo errante, facendolo incontrare per le vie della città col protagonista del racconto («Je croyais - dis-je - que vous n'existiez pas. Votre légende - me semblait-il - symbolisait votre race errante ... J'aime les Juifs, Monsieur ... »). In effetti, senza ombra di dubbio, la poesia ceca contemporanea muove da Apollinaire. Nel marzo 1902, l'autore dei Calligrammes fu a Praga per tre giorni, alloggiando in un alberguccio di infima categoria. li suo interesse si concentrò esclusivamente sulla Praga più tipica: Hradcany attraverso Staré Mesto, il ghetto e Mala Strana, come denunciano chiaramente alcuni passi del poema «Zone». La fortuna boema di Apollinaire inizia dopo la prima guerra mondiale. Negli anni venti il poeta diventa il nume tutelare della generazione di artisti e letterati raccolta intorno al Devétsil. Ripellino dà per scontato che poeti della statura di Nezval, Biebl, Seifert, Wolker appresero da Apollinaire la tecnica e i procedimenti dell'Esprit Nouveau, «la grazia del burlesco e dei giochi verbali, il capriccio delle metafore e il fantasismo esotico». Affascinato come i suoi compagni di cordata avanguardistica da tutto ciò che si pone come segno inconfondibile dello Zeitgeist nelle sue forme più svariate, Vitezlav Nezval fece, ad esempio, in un suo famoso poema, i nomi di Apollinaire, Picasso, Chaplin e Fairbanks come quelli dei quattro cavalieri che presiedettero alla nascita della nuova poesia ceca. Il «nuovo» era la civiltà industriale, cui non poteva che corrispondere, sul piano creativo, un'inesausta attitudine sperimentale. Il «nuovo» più nuovo di tutto era, naturalmente, l'America: magari via Parigi. E l'arte americana era pop ben prima dell'avvento della Pop art. Non aveva scritto lo stesso Majakovskij («La mia scoperta dell'America», 1926) che Nezval «con la parola americano da noi s'intende un misto di vagabondi eccentrici alla O. Henry, di Nick Carter con l'inseparabile pipa e di cowboys a scacchi del cinestudio di Lev Kulesov»? A nche_in Boemia, perciò_,tra i venti e I trenta s1 assiste a una sorta di azzeramento degli specifici, alla ricerca di un inter-medium estetico capace di utilizzare col massimo di novità e di audacia sperimentale la «volgarità» dell'intrattenimento di massa. «Il teatro venne equiparato alla danza, al circo, al cinema muto, al music-hall, alle attrazioni delle fiere, ai labirinti di specchi. alle réclames luminose, ai fuochi d'artificio, alle partite di calcio» (A.M. Ripellino, Storia della poesia ceca contemporanea): la poesia è come attraversata da linee di suggestione provenienti da direzioni che fondano la loro più intensa vitalità sul principio della contraddizione permanente. Fallito il mito effimero dell'arte proletaria, nella primavera del 1924 appare il manifesto del poetismo. Nezval ne rievocò la nascita in una poesia: «un giorno ho intravisto una sirena/ la mia vita più Mario Lune/la tenendovi conferenze e recitals: per la curiosità, a Praga fu concepita Aube, la figlia di Breton, alla quale è dedicato L'amour fou. Nezval, che è indubitabilmente uno dei massimi autori surrealisti mondiali, segue una parabola di rapida involuzione. La sua produzione di testi accattivanti e sentimentali, che vedono la luce contemporaneamente a opere dell'altezza di Absolutn[ hrobaf (1937), va di pari passo con la sua adesione all'ortodossia stalinista. Nel '38 si consuma la rottura tra lui e il gruppo surrealista. li Becchino Assoluto è finito nella fossa. L'energia metaforico-metonimica di colui che fu definito il Meliès della poesia, il poeta che aveva saputo parafrasare con straordinaria originalità i procedimenti daliniani («La disposizione spaziale che risponde alla sostanza della pittura è sostituita con la successione temporale che s'addice alla poesia: il ritratto psichico è composto dicose e di essenze con cui l'uomo viene a mano a mano a contatto sul cammino della vita», ne ha scritto Jan Mukafovsky) è spenta. La produzione nezvaliana fino all'anno della morte (1958) è la testimonianza patetica di un tentatichissà in quale percentuale volontaria, che raggiunge l'effetto di contraffazione in virtù di un procedimento di calco straniato. La sua particolarità è data dal fatto che, mentre tutti i testi parodici esibiscono la loro scaltrezza per via di allusioni smaccate o labilissime, Valeria ostenta al massimo la sua ù,nocenza. C'è, a pervadere l'intera narrazione, un tono di candore che si rivela alla fine più diabolico di qualsiasi ammicco. La genesi del romanzo, su ammissione dello stesso Nezval, risponde perfettamente (e magari con un certo ritardo, almeno sul piano della cronologia culturale) al pri'em dell'hasard surrealista, del «caso in conserva» bretoniano. C'è, in principio, una sorta di epifania: l'apparizione di una figura femminile «fatale», inaccessibile, misteriosa, che attrae inesplicabilmente lo scrittore. Contemporaneamente entra in azione il c6té «popolare» della mitologia quotidiana di osservanza surrealista: l'interesse per le vecchie storie di cronaca nera. Egli ricorda un celebre caso di omicidio all'inizio del secolo, una vicenda di «amanti diabolici» che aveva avuto a protagonisti un pre- • ·-f Disegno per copertina (Piaget, La rappresentazione del mondo nel fanciullo, ed. Boringhieri, 1965) non m'appartiene sono sciolto/ in amore e le mie parole si mutano in pazze granate di malinconia/ il fantasma pieno di odore s'allontana e gli amici/ d'improvviso cinicamente ridono io sono in una strana/ incoscienza/ il bar è quasi vuoto/ quella sera nacque il poetismo/ è primavera siedo a zofin e mi segno la data/ di quando inventai l'apparecchio della poesia per tutti i sensi/ barcolliamo con teige per le vie/ atmosfera di miracoli che si può vivere solo una volta nella vita». Siamo già, come si vede, in clima surrealista. Nel 1934 inizia la collaborazione coi surrealisti francesi. La Prima Serata praghese del gruppo surrealista boemo vede Nezval, Honzl, Brouk, Styrski tra i' partecipanti più prestigiosi. Nel 1936 Breton ed Eluard visitano Praga e altre città cecoslovacche vo impossibile: coniugare· la propaganda ideologica con l'immaginario d'avanguardia. Eppure, nonostante tutto, Nezval resta forse il vertice di quella ricca costellazione di scrittori che fu il surrealismo ceco. 11 poeta non ha certo bisogno di carte di credito. Meno noto è il narratore, al cui attivo va segnato, e proprio durante la fase del suo declino creativo sul piano della poesia, un risultato di tutto rilievo: Valérie a tyden divu (Valeria e la settimana delle meraviglie), che è da poco apparso in traduzione italiana. Il romanzo, anzi il «romanzo nero», giusta il sottotitolo, appare nel '45: un anno non precisamente indicato per operazioni di natura parodica. Già, perché Valeria è per l'appunto un testo di parodia, te e una donna, chissà se seduttrice o sedotta. Raccapriccianti ricordi infantili, situazione sentimentale «calda» del poeta, ritagli di giornali ingialliti: gli elementi della suggestione ci sono tutti. La donna amata entra automaticamente nel vortice dell'inconscio. Ha chiarito lo stesso Nezval: «Nell'ambito dei romanzi neri lei sarebbe stata una di quelle signore buone che si trovano in potere di un mostro che domina con crudeltà i suoi sudditi». Si apre lo spazio della scrittura: Valeria l'attraversa, e il suo è un mood assolutamente angelico. La Bella vince sempre sulla Bestia: questo è il livello della favola, che è solo uno dei livelli del libro - magari il meno sofisticato. Perché poi, subito dopo, appare preponderante la «memoria storica» dell'Alice di Carroll (che, non a caso, è uno dei Bibliotecaginobianco «padri» del surrealismo, uno dei suoi lari domestici). Azzardando un'ipotesi forse piuttosto audace, tuttavia non del tutto infondata: non è possibile vedere in quel «mostro che domina con crudeltà i suoi sudditi», e che nel romanzo s'incarna nell'orrido vecchio dal muso di puzzola, con un'età intorno ai centocinquant'anni e uno sguardo al cui magnetismo fascinoso la fanciulla non riesce a sottrarsi, una figurazione complicatamente allegorica del Tiranno par excel/ence di quegli anni (e di quella parte d'Europa), quello Stalin in cui onore per altro il Nezval ortodosso aveva pubblicato un poema eponimo? Al di là delle supposizioni, delle congetture, delle illazioni, parla comunque il testo. E parla la lingua dell'ambiguità e della reticenza con una voce che è quella della verità. Il gioco della simulazione è sottile, lievemente perverso. L'orfana Valeria funge da referente alle fantasie erotiche del vecchio: un referente la cui innocenza confina abbastanza spesso con il piacere di esserlo, in una maliziosa indistinzione di castità reale e di lussuria immaginata - e come presentita, S<. non desiderata. A fare da pendant al mostruoso vecchio c'è un giovane, naturalmente buono e dolcissimo, che ama Valeria e le dà tutta la protezione possibile. La proiezione Jekyll-Hyde, come si vede, è geometrica. Il mostro, inoltre, a maggiore edificazione delle anime perverse e tortuose, è forse il padre della fanciulla, e probabilmente il ragazzo è suo fratello (ecco profilarsi l'ombra dell'incesto). Infine la nonna, in apparenza affettuosa e piena di attenzioni per Valeria, si rivela una strega malvagia e assatanata di sesso. I due vecchi infregoliti scoprono a un tratto un loro torbido passato di orrori e di peccato, dal momento che il vecchio-puzzola è il doppio di un vescovo, e così via ... S e mancasse il lieto fine, tutto questo macchinario di improbabili nefandezze e turpitudini non avrebbe senso - senso poetico, intendo. L'happy end ne rovescia la lettera orrifica in un sovrasenso simbolico, come si diceva ' all'inizio, fortemente parodizzante. La «settimana delle meraviglie» si determina così come un itinerario nel buio (delle viscere e dell'inconscio), un'iniziazione ai misteri dell'eros (e della vita, infine, nella sua molteplicità inafferrabile), compiuta dalla fanciulla Valeria in una sospensione abbastanza indefinita - e indefinibile - tra sogno accaduto e realtà accadenda. Che il linguaggio del romanzo, poi, risulti di una discorsività che oserei dire «serena», è soltanto un elemento ulteriormente raggelante all'interno del quieto museo degli orrori che la scrittura visionaria di Nezval ha allestito con pacatezza sorniona, con quas_ididascalica pazienza. Anche dentro lo stalinismo, il «surnaturel» intravisto da Apollinaire e inalberato sfacciatamente da Breton & C., non ha smesso di aggirarsi, ormai sempre più spettrale, per quella contrada d'Europa dove ventisei anni prima qualcun altro aveva scritto Nella colonia penale.

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