Alfabeta - anno V - n. 48 - maggio 1983

Vitézlav Nezval Valeria e la settimana delle meraviglie trad. it. di Giuseppe Dierna Roma, Ed. e/o, 1982 pp. 156, lire 8.500 D ice il luogo comune che Breton abbia definito Praga «capitale magica dell'Europa», alludendo certo non solo all'antica, oscura ricchezza della mitologia alchemico-golemica della città vltavina, ma anche alla sfolgorante inventività della sua cultura d'avanguardia tra gli anni venti e quaranta («li pensiero di Kafka sposa ogni fascino, ogni sortilegio della stupenda Praga, la sua città natale: benché segni l'attimo presente, esso gira simbolicamente a ritroso con le lancette dell'orologio della sinagoga, regola a mezzogiorno il dibattersi dei gabbiani sulla Moldava, risveglia al tramonto, per sé solo, i forni spenti della piccola strada degli Alchimisti, vero quartiere riservato dello spirito ... », Antologia dello humour nero). Ma già Apollinaire, in quel capolavoro di ambiguità tutto giocato tra puntigliosità anagrafica e invincibile, spettacolare attrazione per il «surnaturel» che è Passant de Prague ( 1902), aveva evocato la figura leggendaria dell'Ebreo errante, facendolo incontrare per le vie della città col protagonista del racconto («Je croyais - dis-je - que vous n'existiez pas. Votre légende - me semblait-il - symbolisait votre race errante ... J'aime les Juifs, Monsieur ... »). In effetti, senza ombra di dubbio, la poesia ceca contemporanea muove da Apollinaire. Nel marzo 1902, l'autore dei Calligrammes fu a Praga per tre giorni, alloggiando in un alberguccio di infima categoria. li suo interesse si concentrò esclusivamente sulla Praga più tipica: Hradcany attraverso Staré Mesto, il ghetto e Mala Strana, come denunciano chiaramente alcuni passi del poema «Zone». La fortuna boema di Apollinaire inizia dopo la prima guerra mondiale. Negli anni venti il poeta diventa il nume tutelare della generazione di artisti e letterati raccolta intorno al Devétsil. Ripellino dà per scontato che poeti della statura di Nezval, Biebl, Seifert, Wolker appresero da Apollinaire la tecnica e i procedimenti dell'Esprit Nouveau, «la grazia del burlesco e dei giochi verbali, il capriccio delle metafore e il fantasismo esotico». Affascinato come i suoi compagni di cordata avanguardistica da tutto ciò che si pone come segno inconfondibile dello Zeitgeist nelle sue forme più svariate, Vitezlav Nezval fece, ad esempio, in un suo famoso poema, i nomi di Apollinaire, Picasso, Chaplin e Fairbanks come quelli dei quattro cavalieri che presiedettero alla nascita della nuova poesia ceca. Il «nuovo» era la civiltà industriale, cui non poteva che corrispondere, sul piano creativo, un'inesausta attitudine sperimentale. Il «nuovo» più nuovo di tutto era, naturalmente, l'America: magari via Parigi. E l'arte americana era pop ben prima dell'avvento della Pop art. Non aveva scritto lo stesso Majakovskij («La mia scoperta dell'America», 1926) che Nezval «con la parola americano da noi s'intende un misto di vagabondi eccentrici alla O. Henry, di Nick Carter con l'inseparabile pipa e di cowboys a scacchi del cinestudio di Lev Kulesov»? A nche_in Boemia, perciò_,tra i venti e I trenta s1 assiste a una sorta di azzeramento degli specifici, alla ricerca di un inter-medium estetico capace di utilizzare col massimo di novità e di audacia sperimentale la «volgarità» dell'intrattenimento di massa. «Il teatro venne equiparato alla danza, al circo, al cinema muto, al music-hall, alle attrazioni delle fiere, ai labirinti di specchi. alle réclames luminose, ai fuochi d'artificio, alle partite di calcio» (A.M. Ripellino, Storia della poesia ceca contemporanea): la poesia è come attraversata da linee di suggestione provenienti da direzioni che fondano la loro più intensa vitalità sul principio della contraddizione permanente. Fallito il mito effimero dell'arte proletaria, nella primavera del 1924 appare il manifesto del poetismo. Nezval ne rievocò la nascita in una poesia: «un giorno ho intravisto una sirena/ la mia vita più Mario Lune/la tenendovi conferenze e recitals: per la curiosità, a Praga fu concepita Aube, la figlia di Breton, alla quale è dedicato L'amour fou. Nezval, che è indubitabilmente uno dei massimi autori surrealisti mondiali, segue una parabola di rapida involuzione. La sua produzione di testi accattivanti e sentimentali, che vedono la luce contemporaneamente a opere dell'altezza di Absolutn[ hrobaf (1937), va di pari passo con la sua adesione all'ortodossia stalinista. Nel '38 si consuma la rottura tra lui e il gruppo surrealista. li Becchino Assoluto è finito nella fossa. L'energia metaforico-metonimica di colui che fu definito il Meliès della poesia, il poeta che aveva saputo parafrasare con straordinaria originalità i procedimenti daliniani («La disposizione spaziale che risponde alla sostanza della pittura è sostituita con la successione temporale che s'addice alla poesia: il ritratto psichico è composto dicose e di essenze con cui l'uomo viene a mano a mano a contatto sul cammino della vita», ne ha scritto Jan Mukafovsky) è spenta. La produzione nezvaliana fino all'anno della morte (1958) è la testimonianza patetica di un tentatichissà in quale percentuale volontaria, che raggiunge l'effetto di contraffazione in virtù di un procedimento di calco straniato. La sua particolarità è data dal fatto che, mentre tutti i testi parodici esibiscono la loro scaltrezza per via di allusioni smaccate o labilissime, Valeria ostenta al massimo la sua ù,nocenza. C'è, a pervadere l'intera narrazione, un tono di candore che si rivela alla fine più diabolico di qualsiasi ammicco. La genesi del romanzo, su ammissione dello stesso Nezval, risponde perfettamente (e magari con un certo ritardo, almeno sul piano della cronologia culturale) al pri'em dell'hasard surrealista, del «caso in conserva» bretoniano. C'è, in principio, una sorta di epifania: l'apparizione di una figura femminile «fatale», inaccessibile, misteriosa, che attrae inesplicabilmente lo scrittore. Contemporaneamente entra in azione il c6té «popolare» della mitologia quotidiana di osservanza surrealista: l'interesse per le vecchie storie di cronaca nera. Egli ricorda un celebre caso di omicidio all'inizio del secolo, una vicenda di «amanti diabolici» che aveva avuto a protagonisti un pre- • ·-f Disegno per copertina (Piaget, La rappresentazione del mondo nel fanciullo, ed. Boringhieri, 1965) non m'appartiene sono sciolto/ in amore e le mie parole si mutano in pazze granate di malinconia/ il fantasma pieno di odore s'allontana e gli amici/ d'improvviso cinicamente ridono io sono in una strana/ incoscienza/ il bar è quasi vuoto/ quella sera nacque il poetismo/ è primavera siedo a zofin e mi segno la data/ di quando inventai l'apparecchio della poesia per tutti i sensi/ barcolliamo con teige per le vie/ atmosfera di miracoli che si può vivere solo una volta nella vita». Siamo già, come si vede, in clima surrealista. Nel 1934 inizia la collaborazione coi surrealisti francesi. La Prima Serata praghese del gruppo surrealista boemo vede Nezval, Honzl, Brouk, Styrski tra i' partecipanti più prestigiosi. Nel 1936 Breton ed Eluard visitano Praga e altre città cecoslovacche vo impossibile: coniugare· la propaganda ideologica con l'immaginario d'avanguardia. Eppure, nonostante tutto, Nezval resta forse il vertice di quella ricca costellazione di scrittori che fu il surrealismo ceco. 11 poeta non ha certo bisogno di carte di credito. Meno noto è il narratore, al cui attivo va segnato, e proprio durante la fase del suo declino creativo sul piano della poesia, un risultato di tutto rilievo: Valérie a tyden divu (Valeria e la settimana delle meraviglie), che è da poco apparso in traduzione italiana. Il romanzo, anzi il «romanzo nero», giusta il sottotitolo, appare nel '45: un anno non precisamente indicato per operazioni di natura parodica. Già, perché Valeria è per l'appunto un testo di parodia, te e una donna, chissà se seduttrice o sedotta. Raccapriccianti ricordi infantili, situazione sentimentale «calda» del poeta, ritagli di giornali ingialliti: gli elementi della suggestione ci sono tutti. La donna amata entra automaticamente nel vortice dell'inconscio. Ha chiarito lo stesso Nezval: «Nell'ambito dei romanzi neri lei sarebbe stata una di quelle signore buone che si trovano in potere di un mostro che domina con crudeltà i suoi sudditi». Si apre lo spazio della scrittura: Valeria l'attraversa, e il suo è un mood assolutamente angelico. La Bella vince sempre sulla Bestia: questo è il livello della favola, che è solo uno dei livelli del libro - magari il meno sofisticato. Perché poi, subito dopo, appare preponderante la «memoria storica» dell'Alice di Carroll (che, non a caso, è uno dei Bibliotecaginobianco «padri» del surrealismo, uno dei suoi lari domestici). Azzardando un'ipotesi forse piuttosto audace, tuttavia non del tutto infondata: non è possibile vedere in quel «mostro che domina con crudeltà i suoi sudditi», e che nel romanzo s'incarna nell'orrido vecchio dal muso di puzzola, con un'età intorno ai centocinquant'anni e uno sguardo al cui magnetismo fascinoso la fanciulla non riesce a sottrarsi, una figurazione complicatamente allegorica del Tiranno par excel/ence di quegli anni (e di quella parte d'Europa), quello Stalin in cui onore per altro il Nezval ortodosso aveva pubblicato un poema eponimo? Al di là delle supposizioni, delle congetture, delle illazioni, parla comunque il testo. E parla la lingua dell'ambiguità e della reticenza con una voce che è quella della verità. Il gioco della simulazione è sottile, lievemente perverso. L'orfana Valeria funge da referente alle fantasie erotiche del vecchio: un referente la cui innocenza confina abbastanza spesso con il piacere di esserlo, in una maliziosa indistinzione di castità reale e di lussuria immaginata - e come presentita, S<. non desiderata. A fare da pendant al mostruoso vecchio c'è un giovane, naturalmente buono e dolcissimo, che ama Valeria e le dà tutta la protezione possibile. La proiezione Jekyll-Hyde, come si vede, è geometrica. Il mostro, inoltre, a maggiore edificazione delle anime perverse e tortuose, è forse il padre della fanciulla, e probabilmente il ragazzo è suo fratello (ecco profilarsi l'ombra dell'incesto). Infine la nonna, in apparenza affettuosa e piena di attenzioni per Valeria, si rivela una strega malvagia e assatanata di sesso. I due vecchi infregoliti scoprono a un tratto un loro torbido passato di orrori e di peccato, dal momento che il vecchio-puzzola è il doppio di un vescovo, e così via ... S e mancasse il lieto fine, tutto questo macchinario di improbabili nefandezze e turpitudini non avrebbe senso - senso poetico, intendo. L'happy end ne rovescia la lettera orrifica in un sovrasenso simbolico, come si diceva ' all'inizio, fortemente parodizzante. La «settimana delle meraviglie» si determina così come un itinerario nel buio (delle viscere e dell'inconscio), un'iniziazione ai misteri dell'eros (e della vita, infine, nella sua molteplicità inafferrabile), compiuta dalla fanciulla Valeria in una sospensione abbastanza indefinita - e indefinibile - tra sogno accaduto e realtà accadenda. Che il linguaggio del romanzo, poi, risulti di una discorsività che oserei dire «serena», è soltanto un elemento ulteriormente raggelante all'interno del quieto museo degli orrori che la scrittura visionaria di Nezval ha allestito con pacatezza sorniona, con quas_ididascalica pazienza. Anche dentro lo stalinismo, il «surnaturel» intravisto da Apollinaire e inalberato sfacciatamente da Breton & C., non ha smesso di aggirarsi, ormai sempre più spettrale, per quella contrada d'Europa dove ventisei anni prima qualcun altro aveva scritto Nella colonia penale.

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==