di disinformazione: basterebbe qualche libro come quello della Balbi per mettere le cose in chiaro. Il fatto determinante è che lo stato di Israele ha accolto solo una parte degli ebrei. La maggioranza non ha accettato (o ha avversato) una qualificazione nazionale e la conseguente identità di nazione e territorio. Questi ebrei hanno considerato loro patrie i paesi in cui hanno lavorato, magari da molte generazioni, di cui hanno assimilato la cultura e gli ideali, stringendo anche, appena possibile, legami familiari. Proprio per questo lo stato d'Israele, rifugio per molti ebrei, ha creato nuovi problemi agli altri. Prima, la questione ebraica s'impostava su uno schema bipolare: ebrei-non ebrei. Ora lo schema è tripolare: ebrei-stato d'Israelealtri stati. Per gli ebrei della diaspora, Israele è uno Stato straniero. Lo considerano con sentimentale simpatia o con amara severità (nella misura in cui i suoi governi lo allontanano dagli ideali che gli hanno dato la prima giustificazione); non partecipano ai suoi processi decisionali e non possono che giudicare, come chiunque altro, il suo operato. Ma i cittadini non ebrei degli Stati per cui gli ebrei hanno optato tendono a spingerli surrettiziamente verso l'altro polo da loro scartato: Israele. Era una traslazione di responsabilità (o una mostruosa sineddoche) imputare agli ebrei il comportamento della plebaglia di una piazza di Gerusalemme in una pasqua del quarto decennio d.C. Con identica traslazione di responsabilità li si vuole ora imputare di ciò che decide e fa il governo di Gerusalemme, anche per loro straniero. Credo che con l'accusa di sionismo l'antisemitismo abbia trovato la sua perfezione. Non parla più di razza (argomento screditato), non di deicidio (imputazione ritirata anche dalla Chiesa), non di religione (quasi tutte le religioni sono in crisi). L'accusa di sionismo rinverdisce il mito nazista della congiura ebraica internazionale. accomunando gli ebrei in una colpa politico-ideologica efficace presso i portatori di altra ideologia e là dove il solo sospetto di contatti col «nemico» può condurre in carcere o nel Gulag. In generale, permette di concentrare le passioni popolari (lo si è visto durante la guerra del Libano) contro un bersaglio indiMito eBabele Jacques Derrida «Des tours de Babel» in aut aut n. 189-190 Paesaggi benjaminiani pp. 272, lire 7.800 Autori vari La fonction symbolique a c. di M. Izard e P. Smith Paris, Nrf, 1979 Donai Philipp Verene «Rethorik und Phantasie» in Das Gesprach als Ereignis a c. di E. Grassi e H. Schmale Miinchen, W. Fink, 1982 L e più note teorizzazioni del pensiero mitico, da Vico a Schelling, da Cassirer a Durand, da Lévi-Strauss a Barthes, peccano per un lato almeno: quello di considerare il pensiero mitico come irrecuperabile o almeno non sovrapponibile al pensiero razionale. Bisogna giungere fino ai lavori di Dan Sperber - di cui è stato tradotto in Italia solo Le symbolisme en général che risale al 1974 (Per una teoria del simbolismo, Torino, Einaudi, 1981), - perché emerga l'ipotesi d'un mito che alberghi in sé un quid di razionalità;anzi, perché venga affermato come una prima fase razionale sia indispensabile alla stessa formulazione e costituzione del pensiero mitico-simbolico. «Selon la conception traditionnelle, dans l'histoire de l'humanité, tout comme dans celle de l'individu, la rationalité serait progressivement acquise et tendrait à remplacer les processus symboliques; selon la conception avancée ici, ce n'est pas la rationalité mais seulement des connaissances qui soni acquises; ces connaissances soni organisées en schèmes qui permettent à l'individu de trailer une plus grande quantité d'informations au moyen d'un dispositif rationnel qu'il possède au départ». (Dan Sperber «La pensée symbolique est-elle pre-rationnelle?», in Autori vari, La fonction symbolique, Paris, Nrf, 1979). Ho voluto riportare con una certa ampiezza queste considerazioni di Sperber, per una ragione soprattutto: che le stesse si riallacciano a quanto affermavo già in un mio antico saggio sul mito di Babele («Omoglossia, eteroglossia e il mito della fede», in Archivio di filosofia, Roma 1966). La torre di Babele, si sa, è un mito antichissimo, non soltanto giudaico-cristiano, ma - come spesso accade - di molti altri popoli. Il mito dell' eieroglossia - ossia della parlata di lingue diverse - si trova già in un'analoga leggenda persiana (come ci riferisce Schelling nella sua Philosophie der Mythologie), dove l'eteroglossia viene descritta come opera di Ariman; cui segue, dopo la vittoria su Ariman da parte di Ormudz, una rinnovata unità linguistica, una omoglossia. P erché ho citato il caso dell'eteroglossia babelica? Perché proprio questo mito ci indica chiaramente come il significato, presente nella stessa analisi etimologica del nome di Babele, sia capace di chiarire l'origine e lo sviluppo del pensiero che ne sta alla base. Il vocabolo Babele, infatti, è strettamente connesso ad altri termini come ba/bus, balbutiens, barbaros ( e si veda il tedesco babe/n, e il francese babiller). Disegnoper Vaso da fiori doppio (1968) Evidentemente, per gli antichi l'esistenza di Barbari (ossia di popolazioni che non conoscevano la lingua del paese, che «balbettavano») costituì il punto di partenza di tutta la successiva costruzione mitica dell'eteroglossia, considerata una punizione divina. Per cui il fenomeno dell'eteroglossia doveva venir rivestito dalle vesti fantasiose d'un mito come quello della Torre, per giustificare il semplice fatto che esistessero popolazioni o individui incapaci di parlare il «normale» idioma d'un paese. È sintomatico, del resto, che in un suo recente saggio Jacques Derrida si rifaccia proprio alla leg• genda di Babele, per rispolverare un problema così discusso e così poco «antico» come quello della traduzione da una lingua all'altra (cfr. «Des tours de Babel», in aut aut n. 189-190, pp. 67-97). Derrida - che, in realtà, trascura o ignora la base etimologica soBibliotecaginob1anco Cii/o Dorfles pra riferita e avanza invece quella proposta da Voltaire, secondo cui Babele deriva da Ba (Padre) e Bel (Dio), dunque: «città di Dio», etimologia molto meno pregnante di quella suggerita da Schelling - vuol riconoscere nel mito dell'eteroglossia la vera origine della traducibilità e dell'intraducibilità: «Quest'esempio singolare, insieme archetipico e allegorico, potrebbe introdurre tutti i problemi cosiddetti teorici della traduzione. Tuttavia nessuna teorizzazione, dal momento che si produce in una lingua, potrà mai dominare l'esito babelico» (p. 74). Fino a che punto, allora, il mito dell'eteroglossia si può considerare come l'equivalente della discussione attorno alla traduzione e all'impossibile-possibile convergenza tra due lingue diverse? «Si direbbe - continua Derrida, appellandosi anche a Benjamin, - che ogni lingua è come atrofizzata nella sua solitudine, magra, bloccata nella sua crescita, inferma. Grazie alla traduzione ( ... ) a questa supplementarità linguistica per mezzo della quale una lingua dà all'altra ciò che le manca, (... ) quest'incrocio delle lingue assicura la crescita delle lingue, e anche la 'santa crescita delle lingue' fino alla 'fine messianica della storia'. (... ) La traduzione, in quanto santa crescita delle lingue, annuncia sicuramente la fine messianica» (p. 95). «La traduzione promette un regno alla riconciliazione delle lingue» (p. 93). Come si vede, ce n'è d'avanzo per stabilire un traitd'union tra l'antico mito babelico e il nuovo mito d'una traduzione intesa come ritorno all'omoglossia. Lo stato edenico di omoglossia, di unica lingua comune a tutti, e lo stato di eteroglossia, di «confusione delle lingue», sono dunque facilmente razionalizzabili e danno al mito stesso una ben maggiore rilevanza. È soltanto attraverso la pluralità delle lingue che l'uomo raggiunge una maturità, diventa capace di comunicare anche con le popolazioni lontane e «barbariche»; mentre il balbettio del bambino, il «babillement» dell'infante, è destinato a restare tale finché l'umanità è infantile, omoglossica, finché il crollo della Torre - la fine dell'intraducibilità - non è ancora avvenuto. P er tornare alle diverse possibili interpretazioni del mito in generale, di fronte alle tre ipotesi: l. quella «storico-filogenetica», secondo cui il pensiero razionale sarebbe un'evoluzione tarda d'un primo stadio esclusivamente simbolico (Lévy-Bruhl); 2. quella «ontogenetica», secondo cui la razionalità concettuale è, nello sviluppo infantile, un'acquisizione posteriore a uno stadio «preconcettuale» e simbolico (Piaget); 3. quella «cognitiva», secondo cui il pensiero razionale sarebbe uno sviluppo successivo di un primitivo pensiero simbolico; sembra effettivamente molto acconcia l'ipotesi di Sperber, secondo cui anche il pensiero mitico-simbolico è costruito a partire da un minimo di elaborazione razionale preesistente. Perciò non si potrebbe più considerare il pensiero mitico o simbolico come necessariamente preesistente a quello razionale (né feso a qualunque dimostrazione o attentato. La strategia e le alleanze di Israele, la sua sordità verso i diritti dei palestinesi, l'oppressione degli arabi di Cis~iordania creano un focolare permanente di impopolarità, che permette (in questa ottica strabica) di polarizzare sugli ebrei della diaspora passioni e istinti. L'equazione ebrei = sionismo = Israele contiene tragiche potenzialità. E, ancora, un paradosso: chi ha scelto diversamente da o contro Israele, può dover pagare per Israele. onto- né filo-geneticamente). E in questo senso sembra indirizzato anche il recente giudizio di uno studioso come Donald Phillip Verene, quando afferma (in un suo saggio che fa parte dei Zurcher Gespriiche raccolti da Grassi e Schmale e impostati sopra una concezione del mito molto lontana da quella abbracciata da Sperber): «La fantasia mitica, rispetto alla razionalità e alla conoscenza, è preminente( ... ). Ho cercato di dimostrare che la teoria della conoscenza può affrancarsi dalla limitazione entro i confini che le sono posti dalla razionalità scientifica e può scoprire nuove regioni conoscitive, quelle dell'immagine e del discorso». Questa opinione, come si vede, non si discosta gran che da quella sostenuta da Sperber, già a partire dal suo primo lavoro, dove affermava: «Il simbolismo è un sistema conoscitivo non semiologico; non è sottomesso a restrizioni di questo tipo». Che cosa rimane oggi, in definitiva, del mito della torre di Babele? Forse soltanto la constatazione che neppure il più sofisticato calcolatore elettronico è in grado di tradurre (senza «tradirlo») un brano letterario o una poesia da una lingua all'altra; che la comprensione totale e assoluta d'un idioma è possibile soltanto attraverso una qualità che non corrisponde a nozioni grammaticali ma a una sorta di «empatia» (usando questo vecchio concetto in un'accezione assai dilatata); e infine che la conoscenza d'una lingua ha a che fare addirittura con l'organizzazione citoarchitettonica della nostra corteccia cerebrale. (Se è vero, come recenti esperimenti sembrano dimostrare, che i giapponesi - ad esempio - possiedono localizzazioni cerebrali diverse nella distribuzione tra emisfero destro e sinistro proprio in merito alla diversità nella strutturazione della loro lingua e nella visualizzazione della stessa rispetto a quella dei popoli occidentali). Dato che non ci è possibile, insomma, trasformare la struttura del nostro cervello dopo una certa età, dobbiamo accettare il fatto che la nostra possibilità di comprendere fino io fondo certi meccanismi linguistici «alieni,. ( è il caso di usare questo termine proprio in senso fantascientifico) ci rimarrà per sempre precluso. Sicché, per l'instaurarsi di una rinnovata omoglossia, dovremo attendere pazientemente o una nuova pentecoste, con la discesa delle fiammelle dello Spirito santo sulle nostre teste, o una trasformazione filogenetica nelle aree linguistiche della nostra corteccia.
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