Alfabeta - anno V - n. 48 - maggio 1983

Il nuovocodicecanonico .. .. .. .. .. Giovanni Paolo II «Le leggi sono munifico dono del Signore» discorso di promulgazione in L'Osservatore Romano 4 febbraio 1983 Codex iuris canonici Benedicti papae XV auctoritate promulgatus Typis Polig)ottis Vaticanis 1917, pp. 918 Codex iuris canonici auctoritate Joannis Pauli Il promulgatus Roma, Lib. ed. Vaticana, 1983 pp. 318, lire 10.000 G ià dalla vittoria sull'arianesimo durante il regno dei Visigoti (633 d.C.) la Chiesa usò riunire i suoi canoni in unum «quia ignorantia mater cunctorum errorum vitanda est» ( Codice del 1983, prefazione). Esempio attuale di questa tradizione è il nuovo Codice di diritto canonico, promulgato qualche mese fa a sostituire quello del '17, in quanto, come dice il papa, «da quell'anno tutto un mondo è psicologicamente cambiato». Edizione affrettata (errori nei rimandi, mancano gli indici), dopo un lavorio di vent'anni per applicare nel diritto il Concilio Vaticano Il. 1.752 canoni oggi contro i 2.414 del '17 ricostituiscono un sistema se non coattivo almeno prescrittivo che regolamenta gli atti «esterni» dei cattolici. Ognuno di essi partecipa di una «generale e mistica eguaglianza» perché hanno «una la salvezza, una la speranza ed indivisa la carità», ma «la Chiesa-corpo di Cristo è compagine organizzata, se comprende una diversità di membra e di funzioni» le cui relazioni reciproche possono essere oggetto di indagine, appunto, giuridica. La società diventa sempre più complessa e il Codice riduce i suoi canoni. Perché? Perché sempre più la Chiesa lascia posto alle consuetudini, rinuncia a regolamentare una complessità che sempre più le sfugge: cosi «consuetudo optima legum interpres» (can. 27). E la logica del magistero si tiene sul generico, preferendo trovare una saldezza nella coerenza piuttosto che nella concretezza: la consuetudine può avere valore di legge al di là del Codice solo se è «ragionevole», ma se nel Codice è espressamente riprovata, allora non è «ragionevole» (can. 24). Una questione squisitamente procedurale mostra bene, come in una metafora, l'astrattismo aposterioristico che pare sia diventato lo stile normale della Chiesa quando si esprime prescrittivamente: se vi sono dei decreti tra loro contrari, quello più individuato prevale su quello più generale, e se sono entrambi individuati o entrambi generali prevale il più recente (can. 53). È una maniera precisa per esprimere la rinuncia all'antico apriorismo che laboriosamente deduceva dal dogma trinitario le regolamentazioni dei prestiti, e mostrare una Chiesa che ascolta in silenzio i discorsi originali del Mondo, accontentandosi di mettere, di suo, qualche «no!» ogni tanto, e sempre meno di frequente. LI a!to sacramentale, il battesimo, mcorpora un uomo nella Chiesa e in essa locostituisce come «persona» (can. 96), con tutti i diritti e i doveri relativi alla «communio» tra le altre persone dell'istituto. Questa «communio» nel Codice non viene trattata e rimanda ad altro (alla teologia, alla catechesi), con notevole diversità dai codici civili dove le stesse regole giuridiche che sono la «forma» della personalità ne valgono anche come «contenuto». Non stupisce poi, come per tanti particolari direttamente sociologici, l'adeguamento ai codici civili riguardo la capacità giuridica. Nel vecchio codice si era maggiori a ventuno anni e si godeva di alcuni diritti (legati alla sessualità) al raggiungere la «pubertà», cioè qualDisegno per Propostaper un'autoprogettazione di mobili (1973) tordici anni per i maschi e dodici per le femmine (can. 88); ora cade questa categoria e si abbassa il termine per la maggiore età nel nuovo codice (can. 97) mentre rimane, quasi più biologicamente (o psicanaliticamente) fondata, la categoria di «infanzia», come mancanza di ragione: «expleto autem septennio usum rationis habere praesumitur». Questo per ciò che riguarda le persone fisiche. Vi sono poi le persone giuridiche, cioè le università di cose e persone, tra cui il nuovo codice traccia una importante distinzione: associazioni e fondazioni varie sono «iuridicae», ma la Chiesa stessa è «moralis persona ex ipsa ordinatione divina» (can. 113), mentre il vecchio codice equiparava (cann. 100 e sgg.). E questo è un tratto del Vaticano II: sempre più la Chiesa (e anche la «apostolica sedes») si pensa come corpo di Cristo, come individualità viva e quasi fisica al di là di costumi e leggi «artificiali» che regolaBibliotecagiobianco Franco Manni mentano i suoi rapporti interni ed esterni. La Costituzione che precede il Codice descrive la Chiesa secondo tre caratteri: appartenenza metafisica a un'entità trascendente (populus Dei), appartenenza psicologico-culturale a uno stesso sistema di comunicazione (communio), appartenenza psicologico-politica a uno stesso sistema di divisione del lavoro (auctoritas, ministerium, servitium). Il primo carattere, e cioè il legame non discutibile con lo stesso Dio, dovrebbe garantire la compatibilità degli altri due: in quanto cioè tutti si è corpo di Cristo, tra i cristiani vige «vera aequalitas» anche se ognuno agisce «secundum propriam condicionem et munus» (can. 208). Gerarchia e potere insomma esistono, essendo ogni individuo un differenziato centro di ----. ragione e di azione, ma solo in quanto si mantengono nello stesso e consentito sistema psicologicoculturale, o communio (can. 209). Questo all'interno. All'esterno, alla Chiesa compete - in quanto persona essa stessa - la comunicazione nel sistema più vasto della società: non solo con l'esprimere verità religiose ma anche principi morali, consigli sull'ordine sociale e insomma «iudicium terre de quibuslibet rebus humanis» (can. 747). Sfruttando in ciò, per massimizzare l'efficacia, tutti i moderni mezzi di comunicazione sociale e di massa (can. 822). L'ultima parola nelle decisioni dei vari «organi di governo» spetta a chi istituzionalmente (cioè per separazione pubblica e definitiva o sacramento) «serve», quindi ai «clerici vel ministri sacri». I laici, invece, vengono definiti negativamente: «celeri autem et laici noncupantur» (can. 207). Ma mentre nel vecchio codice dei laici si parla poco e limitatamente a categorie esse stesse clericali (obbligo di dimostrare reverenza al culto e al clero, titolari di eventuali privilegi nei luoghi di culto, lodati se autori di pie associazioni e deplorati se partecipi di associazioni «contrarie alla Chiesa», cann. 119, 1263, 684), nel codice nuovo al riguardo c'è sicuramente la rivoluzione più notevole. I laici secondo le proprie conoscenze e competenze hanno il diritto e il dovere di esprimere ai chierici le proprie opinioni in maniera pubblica anche per tutti gli altri (can. 212); in concreto: possono predicare e catechizzare, partecipare a vari organi di amministrazione della diocesi e della parrocchia, e possono - cosa questa assolutamente inedita - accedere alle università teologiche come studenti e come docenti (cann. 228, 443, 463, 483, 492, 494, 229). M a il compito fondamentale dei laici rimane la gestione della propria sessualità: in quanto riproduttori o genitori, essi devono assicurare la tradizione di base del cristianesimo, e cioè la prima educazione religiosa ai propri figli, nuovi e perpetuanti membri della Chiesa (can. 226). La sessualità rimane una preoccupazione centrale e discrimine della valutazione dell'uomo in aspetti pubblici e privati della sua vita: se il matrimonio rato e consumato può essere sciolto solo dalla morte, il matrimonio rato e non consumato può essere considerato nullo; tra i pochi delicta per cui si prevedono gravi sanzioni vi è la stimolazione al peccato contro il sesto da parte di un confessore e gli atti di un chierico contro il sesto nei confronti di un minore (cann. 1141, 1142, 1387, 1395). La concessione maggiore all'intersoggettività umana al di sopra della funzione riproduttiva è nel can. 1055 sul matrimonio: mentre Disegno per Propostaper un'autoprogettazione di mobili (/973) nel vecchio codice si leggeva (can. 1013)che il fine primario è la procreazione della prole, e il fine secondario il remedium concupiscientiae, oggi si indica il fine primario nel «totius vitae consortium ad bonum coniugum», e il secondario nella procreazione ed educazione della prole. La concessione maggiore alla sessualità al di sopra dell'intersoggettività umana è invece il fermo permanere del principio secondo cui i ministri sacri non possono essere che maschi (can. 233 e sgg.), e così pure i lectores e gli acholyti (chierichetti) nel servizio liturgico (can. 230). Se la pulsione eterosessuale è sublimata nell'oggetto (matrimonio cristiano), la pulsione «omosessuale» è distratta nella meta: il compito è di tramandare l'ordine sacro attraverso il ben regolato meccanismo della gerarchia: «solliciti sint super sacerdotes, praesertim vero Episcopi diocesani» per preparare quei «maturioris aetatis viri» che si stimino chiamati al ministero (can. 233). E così anche gli aspiranti al diaconato possono essere solo maschi, per quanto sia celibi che coniugati (can. 236). Secondo questa scala di progressiva «separazione» sacra, i vescovi hanno il pieno potere, legislativo, esecutivo, giudiziario, mentre i sacerdoti solo in certi casi e con funzione consultiva possono intervenire nella legislazione (can. 495). Alcuni laici eletti possono far parte di un consiglio esecutivo o pastorale (can. 511) e svolgere nei tribunali la funzione di uditori e assessori, ma non di giudici (cann. 1424, 1428). Dopo la.promulgazione del Codice le reazioni (per ora) incensatorie della stampa cattolica, e quelle apatiche della stampa laica, mostrano anche a livello di cronaca diretta una verità più diffusa e sostanziale: che il nuovo diritto non fa che sancire situazioni già create dagli eventi, non esprime direttive originali suscettibili di indesiderate discussioni, si astiene il più possibile dall'esprimere un giudizio sul mondo contemporaneo (un esempio preciso è il decadere della penalistica verso i laici). Le leggi diventano sempre più astratte e le consuetudini - «ottime» interpreti delle leggi - evidentemente vengono prodotte altrove.

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