Alfabeta - anno V - n. 48 - maggio 1983

Palimpsestes Gerard Genette Introduzione all'architesto trad. it. di Armando Marchi Parma, Pratiche, 1979 pp. 86, lire 4.500 Palimpsestes. La littérature au second degré Paris, Seuil, 1982 pp. 467, ff. 100 Roland Barthes La retorica antica Milano, Bompiani, 1972 pp. 115, lire 4.500 I n una di quelle brumose serate invernali che sembrano non terminare mai, un amico mi ha raccontato una curiosa interpretazione di una trama ben nota. L'interpretazione narrava le vicissitu- •dini di un personaggio che era disceso dal cielo e che era vissuto per un certo periodo in mezzo a noi. Presto fu scoperto e perseguitato, morì, resuscitò e di nuovo ascese al cielo dicendo ai suoi «collaboratori,. più stretti che sarebbe sempre rimasto in mezzo a loro. Grande è stata la sorpresa per le mie orecchie annoiate quando l'amico mi ha suggerito che il racconto non era un rapido sunto dei quattro Vangeli, né che l'affermazione finale del nostro personaggio era presa - più o meno esattamente - dal Nuovo Testamento (e più precisamente dalla missione degli apostoli nel Vangelo secondo Matteo). L'interpretazione, mi è stato detto, altro non era che il canovaccio dell'ultimo film di Steven Spielberg: E. T. Lo stupore che assale in questi casi è, probabilmente, causato da qualcosa in più che la semplice scoperta di una analogia tra due storie tanto distanti: ciò che sembra accadere ha a che fare con la letteratura nel suo complesso, e individua al suo interno due caratteristiche di notevole importanza. Infatti, per una felice interpretazione del film di Spielberg non è importante ciò che il regista ha inteso dire, né tanto meno è importante il fatto che egli abbia pensato e dunque voluto una tale connessione. In altre parole, non è in discussione la verità dell'interpretazione; piuttosto quello che si ammira è la validità intrinseca e strutturale di tale interpretazione, il fatto che essa sembra essere una comoda metafora del funzionamento della letteratura. Se si analizzano sino in fondo le conseguenze di questa metafora, si possono individuare le due caratteristiche della letteratura accennate sopra. Esse sono: i) una prima affermazione per cui le «interferenze» e le «sfumature,. fanno le grandi scoperte e le grandi opere, ii) una seconda per cui tutta la letteratura è una letteratura al secondo grado e funziona (ancora una volta metaforicamente) come un palinsesto. Entrambi i concetti sono ripresi dall'ultimo libro di Genette uscito da poco in Francia e non ancora tradotto: Palimpsestes. A I primo punto, Genette dedica poco più che un accenno. Egli afferma: «nouvelle nuance, nouveau brouillage, c'est le fait des grandes oeuvres» (Palimpsestes, p. 39). Neli'affermazione di Genette è implicito il riferimento a un'altra affermazione, questa volta di Paul Valéry, la quale più poeticamente dice che le grandi opere sono «nuance» (sfumatura), non colore; tutto il resto è letteratura. Nonostante la brevità con cui viene trattato, il primo punto è un'importante chiave di volta per la comprensione del testo di Genette. Esso manifesta, in nuce, il funzionamento della letteratura nel suo complesso, come è stato compreso dall'autore, e inoltre dà inizio alla spiegazione del concetto di palinsesto. Un palinsesto è, fuori di metafora, una pergamena su cui è stata cancellata la prima iscrizione per fare posto a un'altra. Questa operazione di riscrittura non è mai perfetta, per cui è possibile leggere quasi in trasparenza il testo vecchio sotto il nuovo. Le valenze operative del palinsesto permettono una trasposizione al livello delle analisi testuali, dove - continua Genette - la vecchia iscrizione assume la struttura di un ipotesto su cui fa aggio la nuova iscrizione, ovvero l'iperteDisegno per Il gioco delle parole (1965) sto (Palimpsestes, pp. 451-52). Appare ovvio che il palinsesto serve a Genette per spiegare le forme delle relazioni transtestuali che egli, in uno sforzo tassonomico, cerca di ricondurre a cinque tipi primari. Il primo tipo, forse anche in ordine di importanza, è l'Intertestualità. Il concetto è mutuato da J. Kristeva, e comprende nella sua forma più esplicita la citazione, il plagio e infine l'allusione, a seconda della presenza più o meno determinante della variabile esplicitante: Il secondo tipo è la Paratestualità, attraverso cui un testo ne richiama un altro per mezzo del paratesto, ovvero per mezzo del titolo, del sottotitolo, della prefazione, della postfazione, degli avvertimenti, ecc. Il terzo tipo è la Metatestualità, la relazione critica per eccellenza. In questa relazione un testo ne commenta un altro (vi allude), nello stesso senso in cui la Fenomenologia dello spirito di Hegel richiama Il nipote di Rameau di Diderot (Palimpsestes, p. 10). È da rilevare come spesso il secondo e il terzo tipo di transtestualità sono abbinati nel tentativo, mai realizzato completamente, di «saturare il campo». Il concetto serve per spiegare come nello studio di un'opera e di un autore spesso si avverte il bisogno e la voB1bliotecag1obianco Mauro Ferraresi glia di riempire tutto lo spazio semantico possibile sin dall'avvio. In questo caso, i giochi paratestuali cercano di corroborare l'approccio metatestuale. Uno studio su Hegel potrebbe bene intitolarsi Fenomenologia di Hegel, uno su Flaubert La tentazione di San Gustavo, ecc. Valga come esempio il titolo del presente articolo, il quale - attraverso la semplice ripetizione di un indice, sia pure altamente informativo, - si aggancia immediatamente all'isotopia centrale del testo di Genette e diventa simbolo della letteratura nel suo complesso (e quindi anche di questo articolo che ne entra ora a far parte). Infine, ripete pari pari il titolo dell'opera da analizzare, compiendo una operazione metatestuale, paratestuale e intertestuale nello stesso tempo. Il quarto tipo di relazione transtestuale che Genette affronta è in realtà in via di definizione e - proprio come in un palinsesto - riceve il suo statuto da un'opera precedente dello stesso autore, che fa da ipotesto. L'opera di cui si parla è Introduzione ali'architesto. Genette ha definito architesto la base culturale su cui si basava e si basa la produzione letteraria. Tale base viene indagata dall'autore diacronicamente, attraverso l'analisi della formazione e della trasformazione dei generi letterari (principalmente lirico, epico e drammatico) che da Aristotele in poi hanno preparato la strada alla maggior parte della produzione letteraria. È un approccio dotto ed elevato alla materia che, lo si intuisce, serve a Genette come trama per il più recente Palimpsestes. Più in specifico la stessa definizione di architesto - vale a dire la relazione di inclusione che unisce un testo all'universo di discorso a cui appartiene (quale appunto il genere) - confluisce ora in quella più ampia di Ipertestualità che, come in un palinsesto, crea effettivamente due relazioni transtestuali: l'Ipotestualità e l'Ipertestualità. Queste due relazioni sono le nuove Scilla e Cariddi di tutta l'avventura testuale. Come i due mostri mitologici, esse impediscono la tranquilla navigazione testuale ma, paradossalmente, sono le uniche che possono effettivamente darle spazio in quanto, tramite loro, è possibile «fare del nuovo con del vecchio». Grazie a un notevole sforzo di erudizione, Genette riesce a provare che dalle satire, dai travestimenti, dai pastiches, dalle parodie e dalle caricature fuoriesce la vera anima del procedimento letterario. Ogni opera, anche la più seria, altro non è che una di queste pratiche ipertestuali, magari senza il lato ironico e/o burlesco. L'Ulisse di Joyce - per scegliere un esempio fra tanti - non è che una trasposizione, un mimotesto, che scarica nello stilema di Joyce i testi di Omero accrescendoli in significato - ciò che, ovviamente, non toglie nulla alla genialità e alla novità del romanzo. D alla lettura dei libri di Genette nasce una curiosità che l'autore lascia insoddisfatta. Quale può essere la valenza logica che sottende l'ipertestualità? In altre parole, è possibile ricercare il senso logico unitario - se esiste - della letteratura al secondo grado, ovvero dell'ipertestualità? Si tratterebbe di scovare il tipo di inferenza che sta alla base di simili pratiche testuali, e di vederne il funzionamento. Più sopra si è detto che è la «sfumatura» che fa le grandi opere. Diventa necessario capire in che cosa consiste questa sfumatura, e quale genialità essa porta con sé. Probabilmente, «sfumare» un' opera in un'altra significa instaurare una pratica di lettura relazionale che si fonda sull'enciclopedia, cioè su tutto quanto è stato fatto, scritto e pensato sino al momento in cui si concepisce l'opera. È ovvio che in questo modo si corre il rischio (Genette è il primo ad accorgersene) di considerare l'innovazione letteraria come frutto di pratiche «libresche», sia pure finemente articolate, incapaci di rendere conto della creatività che sta alla base dell'opera di genio. Per rovesciare l'obiezione occorre rilevare che opere come, ad esempio, il Doctor Faustus di Thomas Mann non sono meno degne di questo nome che Madame Bovary o Don Chisciotte. Ciò che dà valore a un'opera non è forse altro che il nuovo significato che questa assume; poco importa se il genere è passato o stantìo o semplicemente già dato. In breve, è il gusto dell'entimema che dà sapore a un'opera e che la rende creativa e innovativa, anche se riprende un tema già svolto in tempi passati e ormai solidificato nella memoria collettiva. Cerchiamo di spiegarlo meglio. Roland Barthes ha rilevato due diverse accezioni che, in tempi storici diversi, hanno accompagnato il concetto di entimema ( La retorica antica, pp. 66 sgg.). Durante il Medioevo, e particolarmente dopo Boezio, l'entimema viene inteso come un sillogismo monco, ellittico: non ha la chiarezza delle premesse tipica del sillogismo scientifico. Nella sua enunciazione, una delle due premesse o addirittura la conclusione, possono essere soppresse, grazie alla loro evidenza che sembra incontestabile ai più e che facilmente è «tenuta in mente». Questo tipo di entimema sembra proprio basarsi sull'enciclopedia normalmente a disposizione, e su tale enciclopedia costruisce la sua capacità di persuasione. Un bell'esempio di entimema è dato da una sentenza di Cicerone: «Nulla si può dire di tanto assurdo che non sia stato detto da qualche filosofo». La sentenza manca della premessa maggiore che, se esplicitata, ritradurrebbe il tutto in: «I filosofi hanno detto tutto quanto di più assurdo si può dire; tuttavia è ancora possibile dire assurdità; allora tali assurdità sono già state dette dai filosofi». Prima di Boezio l'entimema non aveva questa dimensione ellittica. Per Aristotele, l'entimema significava soprattutto il sillogismo probabile e verosimile che si basava non su fatti o affermazioni scientifiche ma su premesse date dalla nostra certezza umana: ciò che cade sotto i nostri sensi, oppure ciò che cade sotto il senso comune, o anche ciò che è stabilito dalle leggi, dall'uso comune e così via. Le due diverse accezioni dell'entimema si sono, nel corso del tempo, amalgamate e completate; quello che era patrimonio del senso comune è stato in seguito tolto dalla enunciazione entimematica, determinando la forma ellittica. La stessa cosa sembra accadere per la letteratura al secondo grado o ipertestualità. Il lettore che non riesce a trovare sotto un testo la precedente iscr1Ztone probabilmente non riderà di un pastiche o di una caricatura. La forza dell'entimema sta allora nello scoprire l'innovazione attraverso la contaminazione, lasciando al lettore il piacere di scovare il testo mancante. L'interpretazione costruisce ciò che l'ipertesto non vuole dire ma a cui certamente rimanda. Ma vi è di più. L'entimema era, da Cicerone in poi, un ottimo strumento di persuasione nei discorsi in pubblico, poiché lasciava agli ascoltatori la possibilità di completare il sillogismo, e quindi di partecipare (così come si partecipa alla compilazione di uno schema di parole crociate) al discorso dell'oratore. Allo stesso modo, l'ipertestualità persuade riguardo la propria capacità innovativa - il «dir di più» rispetto all'ipotesto, - e il lettore ringrazia l'ipertesto per avergli così generosamente permesso di partecipare alla sua stesura, assegnandogli lo statuto di «opera nuova». Si può allora affermare, in accordo con Genette, che ogni libro non è altro che una parte più o meno cospicua del Libro infinito che tutti li comprende, e di cui il lettore deve ricercare la trama sottostante; leggerà bene chi leggerà ultimo.

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