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Giampietro Berti

L'abbandono dell'anarchismo

(tratto da Giampietro Berti, Francesco Saverio Merlino. Dall'anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930), Franco Angeli, 1993)

1. La difficile scoperta della democrazia liberale

Dobbiamo chiederci ora quali siano stati i motivi che portarono Merlino all'abbandono dell'anarchismo, cosa lo spinse a questa svolta che pose fine a vent'anni della sua intensa militanza rivoluzionaria.
Abbiamo già visto che sotto il profilo della riflessione teorica, relativa al campo dell'economia politica, intorno al 1893 egli inclina sempre più a considerare insuperabili alcuni paradigmi classici, come quello del valore.
Sarà questo, come vedremo più avanti, un punto fondamentale della sua critica al marxismo, oltre che del comunismo anarchico. Vi è un ulteriore motivo che spinge Merlino ad abbandonare l'anarchismo, ed è quello, decisivo, del difficile ma anche pieno riconoscimento della democrazia liberale come passaggio obbligato per qualsiasi attività politica progressista e come base irrinunciabile di ogni azione diretta ad ampliare la libertà individuale e collettiva. Egli matura velocemente questa valutazione della democrazia: lo fa tra il 1896 e il 1897, l'anno in cui, cioè, nella famosa polemica con Malatesta, chiude la fase anarchica della sua vita.
Quanto hanno giocato l'evoluzionismo e il relativismo nel portare Merlino fuori dall'anarchismo? E quanto, soprattutto, ha pesato il bilancio fallimentare di vent'anni di tentativi insurrezionali? Sono interrogativi le cui risposte si intrecceranno nel corso del presente capitolo.
Uscito dal carcere, Merlino iniziò a collaborare alla "Rivista di politica e scienze sociali" di Napoleone Colajanni (1) una collaborazione significativa, se si pensa che proprio con Colajanni -come abbiamo già visto- Merlino aveva avuto una prolungata polemica sulla democrazia e sul socialismo. La riflessione merliniana è ora rivolta alla crisi di legittimità dello Stato liberale e ai pericoli di involuzione autoritaria che si fanno sempre più insistenti. Riguardo al problema delle condanne inflitte ai protagonisti sovversivi del 1893-94, Merlino rivendica la piena responsabilità di essersi anch'egli ribellato perché allora era giusto farlo. Sottolinea che il popolo ha il diritto di insorgere, quando il governo non rispetta le leggi costituzionali dello Stato. Anche se non lo afferma, è evidente che con ciò egli condivide il principio fondamentale del radicalismo liberale americano, secondo cui, appunto, è giusto insorgere quando l'autorità politica travalica i suoi limiti (2). Siamo, come si vede, all'implicito riconoscimento dell’autorità dello Stato. Siccome il governo, continua infatti Merlino, con la repressione fu il primo a disprezzare il dettato costituzionale, ora ha il dovere di liberare i detenuti politici. Tuttavia, questo implicito riconoscimento è attraversato dalle solite argomentazioni rivoluzionare, fino all'affermazione di una sorta di "tanto peggio-tanto meglio":

«Io non credo alla giustizia che si amministra nei tribunali, non credo a quella che promettono i governi, non credo a quella che s'invoca con ostentazione, dall'una e dall'altra parte, e talvolta da gente della peggiore risma nei parlamenti. Quindi non mi aspetto che si voglia mai lacerare quella pagina vergognosa, a cui ho accennato, con una pronta e completa giustizia resa a tutti indistintamente i condannati politici di tutte le regioni e di tutte le opinioni. E dopo tutto, pensandovi bene, mi par meglio che sia così».(3)

Questa sfiducia nel metodo parlamentare viene ribadita poco dopo in un'intervista concessa a "Il Pungolo Parlamentare", dove in sostanza rimane fermo alla stia adesione al metodo antilegalitario. Auspica l 'incontro e il superamento delle divisioni tra anarchici e socialisti e per tale motivo spera che i primi non siano esclusi dall'imminente congresso della Seconda Internazionale che si svolgerà a Londra (4).
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Ritorna sul tema della crisi dello Stato liberale qualche settimana più tardi con un ulteriore intervento, col quale rimprovera tutta l'opposizione di sinistra di essere rimasta inerte negli anni del «grande sommovimento popolare», di non aver avuto reali contatti con il popolo.
Ora però - e Merlino qui scambia le sue propensioni personali con la realtà - le cose sono mutate perché i democratici apprezzano maggiormente il socialismo e i socialisti cominciano a capire l'importanza delle libertà politiche della democrazia. Questo avvicinamento deve avvenire per impedire a Di Rudinì, da Merlino considerato peggiore di Crispi, di tentare un colpo di Stato. È necessario lottare perché siano rispettate le libertà dello Statuto; pretendere, come si fa in Inghilterra, che il governo non travalichi dalla sua competenza e quando ciò avvenga insorgere e abbatterlo. Per questo è necessario che i democratici e i socialisti facciano una sorta di lega comune in difesa delle libertà politiche, che promuovano una grande agitazione popolare a presidio della costituzione, sorvolando sulle differenze ideologiche. E per avere piena autorevolezza democratica, essi devono iniziare una battaglia politica per sostenere la regola del «mandato imperativo», secondo cui i rappresentati eletti al parlamento non debbono travalicare gli stretti vincoli imposti dai loro elettori. Se la rappresentanza «è una necessità della convivenza sociale», ciò non toglie che i delegati abbiano «un mandato limitato, condizionato, posto sotto la vigilanza e il sindacato degli interessati». Merlino, insomma, pretende che il metodo parlamentare inveri l'obiettivo della democrazia diretta. Ancora una volta, egli è lontano dal piena accettazione delle regole della democrazia reale; afferma infatti che

«questa è l'utopia del regime costituzionale, e che la giustizia il popolo deve farsela da sé; appunto perciò io domando che s'inizi, da.democratici e da socialisti, un'agitazione popolare per i seguenti scopi»: «rivendicare le libertà conculcate [...], negare al governo di servirsi dell'esercito contro il popolo [...] assicurare la responsabilità dei ministri e dei deputati con azione popolare da sperimentarsi davanti un pubblico giurì». (5)

Giusto un anno dopo egli perviene però ad una valutazione più realistica dell'istituto parlamentare, quando riconosce che soltanto tre sono

«le forme possibili di amministrazione degli interessi generali e indivisibili d'un qualunque consorzio d'uomini: I. Legislazione e amministrazione diretta. Il popolo in massa delibera volta per volta su varie questioni d'interesse generale e provvede per l'esecuzione dè suoi deliberati; 2. Sistema rappresentativo-autoritario. Il popolo delega la sovranità ad un numero di persone da esso scelte e attende quello che a costoro piaccia deliberare e decretare e quello che piaccia fare al governo scelto dà suoi rappresentanti; 3. Sistema rappresentativo-democratico o democrazia pura.
Il popolo non si spoglia della sua sovranità, ma stabilisce le norme generali dell'amministrazione e delega dati uffici a persone capaci, riservandosi di approvare gli atti e garantendosi contro gli abusi di potere». Posto che il primo sistema non è attuabile che in piccole località, per cui volerne la generalizzazione è «poco meno che assurdo»; che il secondo è da rifiutarsi per motivi etici e ideologici, non rimane che accettare il terzo, fondato sul «compromesso» e sul «coadattamento» e far sì che esso funzioni per il meglio (6).

Anche in una sua conferenza, proibita all'ultimo momento dalla polizia, è possibile individuare il trapasso verso l'accettazione riformista del socialismo e il tentativo di incontro con la democrazia politica.
Merlino afferma la.necessità di superare il dottrinarismo ideologico e constata che fra le scuole e i partiti del socialismo «non vi è poi un abisso». Così, ad esempio, «il collettivismo e il socialismo sono generalmente presentati come sistemi per sé stanti ed opposti: invece, chi ben consideri, essi non riflettono ciascuno che un aspetto del socialismo». Pur ribadendo che i socialisti devono rimanere fuori della lotta parlamentare, egli dichiara contemporaneamente che, proprio in virtù di un maggiore possibilismo ideologico, la lotta per una società senza classi deve avere un carattere universale e comprendere nel suo seno non soltanto le rivendicazioni popolari, ma anche quelle della piccola borghesia. Dove però emerge con maggiore evidenza una minore propensione rivoluzionaria è nella rivalutazione, del tutto inedita, di Mazzini, presentato addirittura come un vero pensatore dell'anarchismo per aver sostenuto la necessità di organizzazioni produttive libere e spontanee.
Questa interpretazione, una vera e propria forzatura storica, opera un totale capovolgimento rispetto ai giudizi precedenti, ma mette bene in luce la volontà merliniana di aprire l'idea socialista ad una più larga interpretazione teorica (7). 
In questo periodo collabora anche al periodico socialista torinese "Il Grido del Popolo", che tra il 1896 e il 1897 dà vita ad un importante supplemento culturale ("Per l'idea"), nel quale si possono trovare, oltre alla firma di Merlino, anche quelle prestigiose di Paola Lombroso, Edmondo De Amicis, Gustavo Balsamo Crivelli, Ada Negri, Giovanni Cena, Angiolo Cabrini, Giuseppe Rensi ed Ettore Ciccotti (8).

2. La polemica con Malatesta
Fin qui però, come si vede, Merlino è ancora ben lontano dalla svolta revisionistica, che avviene invece nel corso del 1897 con la drammatica polemica con Malatesta. Si tratta senza dubbio del momento decisivo dell'abbandono dell'anarchismo e non a caso esso passa attraverso il confronto con il suo migliore amico e compa~no, e ormai il maggior esponente del movimento anarchico italiano. E uno scontro lacerante e drammatico, punteggiato anche da alcuni risentimenti personali perché si fronteggiano due inclinazioni opposte: l'intransigenza di Malatesta e la duttilità e la ragionevolezza di Merlino (9). Il contrasto, come vedremo, mette in luce l'irresolubile teorema dell'anarchismo quale espressione codificata di valori precostituiti e immagine normativa di un modello sociale. Viene evidenziata, in altri termini, la sua non esperibilità reale e perciò l'impossibilità di una traduzione pratica dei suoi archetipi universali, incapaci di rispondere ai problemi posti dalla convivenza umana, così come questa si dà nella sua immediata determinatezza storica. Rispetto al problema decisivo della politica, Malatesta o antepone l'etica o rivendica la supremazia della storia.
Ad iniziare la polemica è Merlino che improvvisamente dichiara il valore insostituibile delle libertà democratiche e liberali e ammette apertis verbis di aver cambiato opinione:

«Io credo che noi combattendo ad oltranza, come abbiamo fatto, il parlamentarismo, ci si sia data la zappa sui piedi perché abbiamo contribuito a creare questa orribile indifferenza del pubblico per il sistema parlamentare non solo, ma anche per le libertà costituzionali, sì che il governo ha potuto impunemente violarle, senza che un grido solo di protesta si sia levato dai figli di coloro che dettero la vita per conquistarle. Il parlamentarismo non è la fenice dei sistemi politici: tutt'altro! Ma per pessimo che sia, è sempre migliore dell'assolutismo, al quale noi a grandi passi ci incamminiamo.
Dunque, oggi come oggi, al partito socialista (nel quale comprendo anche gli anarchici non-individualisti) incombe la difesa della libertà. Questa lotta deve essere combattuta su tutti i terreni - compreso quello delle elezioni - ma non su quello esclusivamente».(10)

È questo, come si vede, un riconoscimento fondamentale, che non può essere assolutamente minimizzato dall'ulteriore precisazione secondo cui «i socialisti anarchici non hanno bisogno di candidati propri: essi non aspirano al potere e non sanno che farsene [...] il voto è un episodio della lotta per il socialismo e non il più importante; la vera lotta deve essere fatta nel paese e col paese sul terreno economico e sul politico».
Rimane infatti decisivo il riconoscimento di una valutazione politica del meno peggio, secondo cui

«fra un candidato crispino o rudiniano o zanardelliano, disposto a votare stati d'assedio, leggi eccezionali, eleggibilità di candidati politici – e magari massacri di moltitudini affamate - e un socialista o repubblicano sincero, sarebbe follia preferire il primo» (11)

Insomma, Merlino è ormai abissalmente lontano dalla convinzione espressa dieci anni prima in Socialismo o monopolismo?, secondo cui «il suffragio universale è la grande mistificazione del secolo» (12)
Va detto qui che, con questa professione di fede nel liberalismo costituzionale, egli non ricalca la. via battuta quasi vent'anni prima da Costa; mentre infatti nel romagnolo l'accettazione del metodo legalitario era finalizzata alla strategia della conquista graduale del potere politico - per cui vi era, come dire?, una riserva "machiavellica" nel suo riformismo, per Merlino tale accettazione si risolve nella scoperta delle garanzie liberali come bene in sé, al di là di ogni valutazione strategica ulteriore.L'immediata risposta di Malatesta testimonia quanto siano importanti le dichiarazioni del suo antico compagno di lotta. Malatesta mette subito le mani avanti affermando che le opinioni di Merlino non possono certo coinvolgere il «partito cui egli ha finora appartenuto e col quale spero vorrà continuare a combattere». Netto e decisivo è il suo giudizio sulle proposte parlamentari:

«per quanto mi dispiaccia separarmi in una questione tanto importante da un uomo del valore di Merlino ed al quale mi legano tanti vincoli d'affetto, sento il dovere di dichiarare che, a parer mio, la tattica [da lui] preconizzata è nefasta, e menerebbe fatalmente alla rinunzia di tutto intero il programma socialista anarchico»

Dopo aver ribadito che gli anarchici sono «come sempre, avversari decisi del parlamentarismo e della tattica parlamentare», Malatesta non ha difficoltà a riconoscere «l'importanza delle libertà politiche». Precisa però, con un tipico ragionamento catastrofistico-rivoluzionario, che se il parlamentarismo «val meglio del dispotismo», è solo «quando esso rappresenta una concessione fatta dal desposta per paura del peggio.
Tra il parlamentarismo accettato e vantato, e il dispotismo subito per forza con l'animo intento alla riscossa, meglio mille volte il dispotismo!» (13).
Qui si vede come Malatesta anteponga l'esigenza morale a quella politica, la supremazia della lotta rispetto al problema immediato e reale della convivenza: permane in lui, insomma, il lascito irrisolto del mazzinianesimo.
Prioritario è infatti a suo giudizio «l'animo intento alla riscossa» piuttosto che la libertà storicamente configuratasi nella forma determinata dell'istituto democratico; come prioritaria rimane pure la valutazione del soggetto storico (il popolo) rispetto all'istituto politico:

«le libertà politiche non si ottengono se non quando il popolo si mostra deciso a volerle; né, ottenute, durano ed hanno valore se non quando i governi sentono che il popolo non ne sopporterebbe la soppressione».

La libertà della democrazia non è dunque una conquista universale, ma solo uno strumento, un mezzo strappato dalle classi inferiori alle classi superiori: non sono importanti gli istituti della politica ipostatizzati in determinate forme giuridiche, ma il movimento storico rappresentato dal soggetto popolare. Malatesta, insomma, non crede alla autonoma bontà del regime liberale in quanto tale. Osserva che Merlino è in contraddizione, quando afferma che i socialisti, anarchici non hanno bisogno di presentare candidati propri poiché essi «non aspirano al potere e non sanno che farsene». Si domanda infatti del tutto logicamente: «è questa una posizione sostenibile? Se nel parlamento si può far del bene, perché gli altri e non noi, che crediamo aver più ragione degli altri? [...] Stia sicuro di questo il Merlino: se oggi noi dicessimo alla gente di andare a votare, domani diremmo di votare per noi. E saremmo logici». (14)
Replica subito Merlino ammettendo in modo esplicito che i motivi da lui indicati in favore della partecipazione alle elezioni traggono origine dal venir meno della fede in una rivoluzione imminente:

«vorrei anch'io aver conservato le idee semplici e tutte d'un pezzo di dieci anni fa [e] aspettare il gran giorno della grande rivoluzione che deve cambiare la faccia della terra»; ma, osserva amaramente, essa «ha il torto, secondo me grav1ss1mo, di farsi un pò troppo aspettare». Non si può invece più attendere: «Sono convinto che il partito anarchico abbia sbagliato strada [...] la tattica astensionista ha portato questi due risultati 1) ci ha separati dalla parte attiva e militante del popolo; 2) ci ha indeboliti di fronte al governo».

Con il criterio dell'eterna equazione del tutto o nulla, che finisce fatalmente per produrre nulla, l'astensionismo si risolve sempre in inazione. Occorre invece mandare al parlamento «quanto più oppositori sinceri ed energici del governo». Soprattutto, constata di non trovarsi d'accordo con Malatesta, quando questi sostiene che la tattica parlamentare, lungi dal favorire la coscienza popolare, tende ad allontanare le masse dalla cura diretta dei propri interessi. Questo, afferma Merlino, «è dottrinarismo schietto». L'agitazione elettorale socialista ha strappato in Italia «le moltitudini dalla loro indifferenza ereditaria per le pubbliche faccende»; ragionamento, questo, che arriva però alla banalizzazione del problema, con l'equiparazione dell'istituto parlamentare ad un mezzo qualunque: «il parlamentarismo ha i suoi inconvenienti: ma che cosa non ne ha?» (15). In effetti non si tratta di una qualsiasi via, ma dell'ammissione di un metodo che, se accettato, finisce per stravolgere anche i fini originari. Merlino infatti è in errore sia rispetto agli anarchici, sia rispetto ai democratici, quando dichiara che «il parlamentarismo non è un principio, è un mezzo: sbagliano quelli che ne fanno una panacea, ma sbagliano anche quelli che lo guardano con sacro orrore, come se fosse la peste bubbonica».
Rispetto ai democratici sbaglia perché, certo, il parlamento è un mezzo, ma è precisamente quel mezzo che nella concezione democratica non può che essere anche fine, dato che la democrazia non possiede altre forme di soluzione del problema fondamentale della sovranità.
Sbaglia rispetto agli anarchici, in quanto pretende di ridurre a semplice strumento quello che per loro è l'istituto stesso dell'alienazione politica, della perdita del potere decisionale: il conferimento della delega; essa è inaccettabile per chi, in linea di principio, antepone il concetto di democrazia diretta (per cui la delega vale solo come extrema ratio).
L’equiparazione della delega a semplice mezzo è ripetuta quando Merlino sostiene che, comunque, è impossibile liberarsi della delega, come lo stesso Malatesta aveva riconosciuto qualche anno prima: «un minimo di governo o di amministrazione ci sarà anche nella società meglio organizzata: solo dobbiamo studiare i modi di renderlo innocuo». Ribadisce infine il criterio politico fondato sulla discriminante del meno peggio, che fa tutt'uno con la valutazione positiva della certezza e dell'impersonalità della legge quale passo ulteriore rispetto all'arbitrio dell'assolutismo:

«riconosco gl'inconvenienti del sistema parlamentare e desidero eliminarli, ma non già tornare al dispotismo [...] riconosco l'ingiustizia delle leggi, ma non vorrei tornare al tempo in cui la volontà del principe era legge». (16)

Merlino rincara la dose un mese dopo con un successivo, lungo intervento per chiarire il suo pensiero e per rispondere alle numerose critiche e osservazioni apparse sulla stampa anarchica e socialista. Sembra qui che egli non sappia decidersi a fare quel passo risolutivo che lo porterebbe fuori dall'anarchismo. Afferma infatti che

«quello che è contrario ai principi nostri è il partecipare al governo come ministri, come impiegati, come poliziotti, come giudici, magari come legislatori ... Sì, anche come legislatori, perché io sostengo che il deputato socialista o operaio o rivoluzionario dev'essere non un legislatore, bensì un agitatore».

Ricorda inoltre la scarsa partecipazione popolare agli «affari pubblici» e la sua indifferenza rispetto alla cura dei propri interessi; «ora a questo male non si rimedia astenendosi dalle urne, ma inducendo il popolo anzitutto ad esercitare quella poca autorità che ha»: Precisa nuovamente che la lotta dovrebbe svolgersi sia nel parlamento, sia fuori, e sostiene la necessità di votare i candidati disposti ad esercitare una vera opposizione. Non è un male che il popolo si ponga finalmente sul terreno della lotta politica perché questo è un indubbio segno del suo interesse e del suo risveglio. Con ciò Merlino dà il de profundis a tutta la critica anarchica al marxismo, il quale aveva sempre sostenuto la necessità di questa strategia. Crede tuttavia di non aver accettato completamente la logica riformista perché specifica che lo scopo non è tanto andare in parlamento per legiferare positivamente, quanto per dimostrare l 'ingiustizia delle leggi. Questa protesta parlamentare potrebbe avere una immediata attuazione con l'elezione dell'anarchico Luigi Galleani, condannato al domfoilio coatto; con il che Merlino rimette in auge la vecchia proposta delle candidature-protesta. Dove Merlino colpisce nel segno è quando sostiene che solo il mito romantico può spingere Malatesta ad affermare che le idee socialiste progrediscono «a causa delle persecuzioni». È vero invece il contrario. Infatti:

«Supponiamo che il governo [...] sopprima il parlamento, tolga la libertà di stampa e riduca l'Italia allo stato politico della Russia [...] la causa per il socialismo ci guadagnerebbe? o la lotta per il costituzionalismo assorbirebbe e impedirebbe per molti anni la lotta per il socialismo, come appunto avviene in Russia?». Se si deve fare un confronto tra la purezza rivoluzionaria, indifferente ai piccoli passi, e la democrazia, con le sue imperfezioni e corruzioni, è sempre preferibile quest'ultima perché - ed è questa un'ammissione di grandissima importanza - «danni di questo genere si verificano in ogni opera nostra: sono il tributo che si deve pagare all'imperfezione dell'umana natura». Nemmeno gli anarchici ne sono esenti, anzi. Comunque i compromessi sono inevitabili; a dir meglio, insuperabili (17).
In tutti i casi la lotta elettorale, anche se provoca corruzione, è pur sempre uno stimolo per il popolo, specialmente per i contadini, e un modo per far aggregare in un solo fascio i partiti d'opposizione; quanto ai compromessi, inevitabili, bisogna farli in sede di elezioni, non certo sui principi. L'astensione, invece, porta solamente all'inazione, alla paralisi, al disinteresse. Occorre promuovere una verifica sulle cose concrete, reali perché «le idee non valgono per se stesse, ma per l'azione che esercitano sulla sorte degli uomini. Una verità che non si può attuare, non può essere perfettamente vera»; infine non si deve pensare di possedere, da sé soli, «tutta intera la verità». «Il sistema elettorale può non convenire alla società futura; frattanto la lotta elettorale ci offre mezzi e opportunità di propaganda e di agitazione». Agli anarchici che giustificano la violenza affermando che non vi sono altri mezzi per combattere la società presente, occorre ricordare che anche la lotta elettorale è un mezzo offerto dall'esistente: «è vero o non è vero che l'uso dei mezzi legali ci è imposto nei tempi ordinari, come quello della violenza nelle occasioni straordinarie? Io dico di sì» (18).

A questo lungo intervento di Merlino, Malatesta replica puntualizzando la posizione anarchica. Riguardo alle candidature di protesta, come quella di Galleani, che, se votato, riacquisterebbe la libertà, afferma, con un'osservazione più psicologica che politica, che per quanto sia doloroso il farlo, bisogna rifiutarsi di votare perché, una volta imboccata la via del compromesso, la pratica prevarrebbe sulle originarie intenzioni e ne deriverebbero più danni che vantaggi, come nel caso precedente di Cipriani che era stato, sì, liberato, però in Romagna «si insinuò il parlamentarismo [che] ruppe la compagine anarchica in quella regione» (19). Fa giustamente osservare che l'anarchismo, per principio, è contro il parlamentarismo, che non si tratta quindi di un fatto tecnico, ma della contrapposizione tra l'idea della delega e quella della democrazia diretta. Merlino, nota ancora con acutezza Malatesta, non sa decidersi, mentre dovrebbe invece spiegare questa sua «anarchia parlamentare»; alla fine, ed è una profezia perfettamente centrata, egli «si deciderà col buttare a mare ogni reminiscenza anarchica e diventare un semplice parlamentarista». Lo accusa di fondare tutta la sua argomentazione «in un equivoco», nel senso che egli contrappone la lotta elettorale all'inerzia e all'indifferenza; ed è chiaro che, a questo punto, si può anche dimostrare

«che è una buona cosa andare a messa ed aspettare ogni bene dalla divina provvidenza, poiché l'uomo che crede nell'efficacia della preghiera è sempre superiore all'idiota che nulla desidera, nulla spera e nulla teme. Ne segue da ciò che noi dovremmo metterci a predicare alla gente di andare in chiesa e sperare in Dio?»

A queste centrate osservazioni, Malatesta fa però seguire altre affermazioni che denotano l'irrimediabile fideismo che lo anima. Sottovaluta infatti, del tutto a sproposito, le libertà liberali e democratiche quando arriva a dichiarare:

«se il governo riducesse l'Italia alla stato politico della Russia, noi non dovremmo riprincipiare la lotta per il costituzionalismo, perché sappiamo già quanto valgono le costituzioni e troveremmo modo di lottare per i nostri ideali anche senza quelle larve di libertà che servono piuttosto ad illudere le masse che a favorire il progresso».

Ritorna poi, con un tipico ragionamento rivoluzionario, sulla supremazia del soggetto storico, il popolo, rispetto alla forma neutra della democrazia: solo chiedendo il massimo si potrà ottenere il minimo:

«se nel paese v'è coscienza e forza di resistenza, se vi sono partiti extracostituzionali che minacciano lo Stato, allora il governo rispetta lo Statuto, allarga il suffragio, concede libertà [...] se invece il governo vede che i partiti popolari fondano le loro speranze sull'azione parlamentare e che la cosa che più gli dà noia sono i deputati socialisti, allora respinge il suffragio, viola lo Statuto». Merlino «rinnega tutto ciò che egli stesso aveva detto; e, senza accampare una sola ragione nuova che non fosse stata già le mille volte detta dai legalitari e da lui stesso confutata, vorrebbe che noi lo seguissimo». (20)

Ma il punto centrale che Malatesta vuole precisare è specialmente quello del rapporto maggioranze-minoranze. Merlino, sostiene ancora Malatesta, ha ricordato questo rapporto come una realtà insuperabile, ma non bisogna confondere «il voto politico, che serve a nominarsi dei padroni, con il voto quando è mezzo per esprimere in modo spiccio la propria opinione». Insomma, certamente per decidere in alcune cose occorre votare, ma ciò non vuol dire delegare il proprio potere.

«Così, per esempio, se si trattasse di fare una ferrovia, vi sarebbero certamente mille opinioni diverse [che] andrebbero cambiando di giorno in giorno: ma se la ferrovia si vuol fare bisogna pure scegliere [...] né si potrebbe ogni giorno modificare il tracciato, traslocare le stazioni e cambiare le macchine. E poiché di scegliere si tratta è meglio che siano contenti i più che i meno, salvo naturalmente a dare ai meno tutta la libertà e tutti i mezzi possibili per propagare e sperimentare le loro idee e cercare di diventare maggioranza. Dunque in tutte quelle cose che non ammettono parecchie soluzioni contemporanee, o nelle quali le differenze di opinione non sono di tale importanza che valga la pena di dividersi ed agire ogni frazione a modo suo, o in cui il dovere di solidarietà impone l'unione, è ragionevole, giusto e necessario che la minoranza ceda alla maggioranza».

È questa, come si vede, un'ammissione decisiva che Malatesta stesso non riuscirà più a controbattere: la netta e inequivocabile constatazione dell'impossibilità di superare il criterio democratico della superiorità morale e politica della maggioranza ( «è ragionevole, giusto e necessario»), il fatto che, in circostanze di aut-aut, non sia possibile far funzionare il pluralismo anarchico («in tutte quelle cose che non ammettono parecchie soluzioni contemporanee»).  A nulla infatti vale l'ulteriore precisazione, tutta fondata sul concetto etico di questo rapporto, come se l'accentuazione di tale carattere morale e culturale potesse modificare il fatto, incontrovertibile, che non esistono altre forme politiche della sovranità più vicine all'anarchismo se non quella democratica. Puntualizza infatti:

«Ma questo cedere della minoranza deve essere effetto della libera volontà, determinata dalla coscienza della necessità; non deve essere un principio, una legge, che si applica per conseguenza in tutti i casi, anche quando la necessità realmente non c'è». Conclude con rammarico: «Merlino [...] ci lascia. Tanto peggio. Noi continueremo lo stesso senza di lui». (21)

A queste precisazioni malatestiane Merlino risponde dichiarando che se l'astensionismo è dogma di fede anarchica, egli si dichiara non anarchico; ma, aggiunge, non può essere questo un motivo di divisione. Se non che, nel tentativo di conciliare quello che non è più possibile conciliare, Merlino finisce con l'approfondire ancor più la differenza. Giustamente nota come Malatesta banalizzi in un certo senso il problema, quando precisa che il cedere della minoranza dovrebbe avvenire solo in condizioni di libertà. In realtà egli non vuole riconoscere l'oggettiva
insuperabilità di alcune situazioni per cui si deve cedere comunque, 

«e sono tali propriamente tutte le questioni sull'organizzazione generale della società e tutti i grandi interessi pubblici». «Il dissenso tra Malatesta e me è in questo, che io non credo di poter profetare che nella società futura la minoranza sempre e in tutti i casi si arrenderà volentieri al parere della maggioranza [...] E se questa volontà non c'è, se questa coscienza della necessità della minoranza non c'è, se anzi la minoranza è convinta di fare il suo dovere resistendo? Evidentemente la maggioranza, non volendo subire la volontà della minoranza farà la legge, darà alla propria deliberazione un valore esecutivo [...] ed ecco – inevitabile - una coazione». Quindi «o si crede nell'armonia provvidenziale che regnerebbe nella società futura [...] o non si ha più il diritto di dire che ogni rappresentanza, ogni atto con cui il popolo confida ad altri la cura dei suoi interessi, sia contrario ai nostri principi. A questo dilemma mi pare difficile sfuggire» (22).

Nell'ulteriore e immediata replica di Malatesta, questi riconosce che Merlino ha affermato molte «cose giustissime», ma ha anche perso il senso generale della contrapposizione «tra autoritarismo e anarchismo»; infatti tutto il suo argomentare «potrebbe servire benissimo per sostenere la necessità di un governo, e quindi l'impossibilità dell'anarchia». È vero, ammette Malatesta, esistono situazioni in cui le minoranze devono cedere alle maggioranze, ma, sostiene, né bisogna coltivare la sacralità di questa contrapposizione - perché non sempre le maggioranze hanno ragione, come, del resto, non sempre l'hanno le minoranze -né si deve cadere nel fatalismo della coazione. Bisogna quindi ribadire con forza la volontarietà dell'atto con cui la minoranza cede alla maggioranza. Ancora una volta Malatesta -prigioniero di un presupposto antropologico radicalmente ottimistico- non riesce a contrapporre un modello politico alternativo alle obiezioni di Merlino; egli insiste, ovviamente, sul carattere morale della diversità tra anarchismo e democrazia, che si risolve nella diversa concezione etica della società: i membri di una società libera, riconosciuta la bontà e l'impossibilità di fare diversamente, spontaneamente cedono alla volontà dei più.
Insomma «ogni società autoritaria si mantiene per coazione, la società anarchica [...] sul libero accordo». È, come si vede, portare l'anarchismo alla sua ultima verità ma anche alla sua ultima argomentazione, quella etica, appunto. Di fronte alle realistiche obiezioni di Merlino, Malatesta non può far altro che contrapporre la diversità morale tra libertà e autorità, mentre nulla sa dire sulla realizzabilità e praticità del regime anarchico. La conclusione è quindi inevitabilmente tautologica:

«Ma se la minoranza non vuol cedere? dice Merlino. E se la maggioranza vuol abusare della sua forza? domandiamo noi. È chiaro che nell'un caso come· nell'altro non v'è anarchia possibile».

Malatesta prosegue con un esempio: se, una volta abolita ogni forma di coazione, esistesse ancora una realtà criminale e la popolazione preferisse ritornare a farsi proteggere dalla polizia, allora evidentemente non si sarebbe ancora giunti all'anarchia (il che è come dire che, fino a quando rimangono residui non anarchici, non si è nella società anarchica; mentre una società anarchica è tale proprio perché si è liberata di tali residui). Non è però questo un motivo per scendere a patti e a compromessi; è vero che gli anarchici da soli «non possono fare tutta la storia dell'umanità», ma questo non costituisce un buon motivo per non rimanere se stessi e continuare a lottare per l'attuazione integrale dei propri ideali. Con ciò Malatesta evidenzia pure l'impossibilità da parte dell'anarchismo di superare lo stadio della subalternità storico-politica: piuttosto che farsi protagonista primario assumendo i rischi di un confronto realistico sulle cose immediate, è preferibile restare intatti nella propria coerenza, anche se il destino, aggiungiamo noi, è quello di rimanere eternamente nel limbo della minoranza più estrema (23).

L'ennesima risposta di Merlino è tutta centrata ancora una volta sul rapporto maggioranza-minoranza come esito ineludibile della necessità di una qualche forma di coazione. Riprendendo l'esempio di Malatesta, Merlino conclude che qualora esistessero individui violenti ciò impedirebbe la realizzazione della società anarchica; e poiché questo è un dato di fatto impossibile da superare, la conclusione risulta purtroppo la seguente: «l'Anarchia è una gran bella cosa, ma non si attuerà mai». A questa alternativa del tutto o nulla, Merlino contrappone la sua proposta riformista, che nelle intenzioni è una sorta di anarchia possibile, mentre di fatto è la ricerca di una via diversa:

«Io invece prendo l'Anarchia in senso meno assoluto. Non metto l'aut aut che mettete voi. L'idea anarchica per me si comincerà ad attuare molto prima che gli uomini raggiungano lo stato di perfezione, per cui, compenetrati dei vantaggi dell'associazione, essi cedono volontariamente gli uni agli altri [...] Io credo che tra il sistema attuale e quello che presuppone la cessazione del delitto ci sia posto per forme intermedie [...] preparare queste forme, e farle prevalere alla forma autoritaria attuale o altre simili è appunto il compito dei socialisti anarchici» (24).

Merlino però, in questo suo tentativo di far scaturire l'anarchia possibile da presupposti non etici e quindi soltanto politici, non specifica di quali forme si tratti; soprattutto non fa discendere dalla cultura anarchica una versione riformista dell'anarchismo, dimostrando con ciò che egli non ha scelta e che alla fine dovrà decidersi. L'attuazione di questa anarchia possibile dovrebbe infatti comportare la ricerca di un'altra soluzione, la cui attuazione implicherebbe a sua volta lo snaturamento dell'istanza originaria.
Risponde nuovamente Malatesta ribadendo il concetto tautologico che l'anarchia o c'è o non c'è. Riconosce che «gli uomini sono troppo imperfetti, troppo abituati a rivaleggiarsi ed odiarsi tra loro, troppo abbrutiti dalle sofferenze, troppo corrotti dall'autorità perché un cambiamento del sistema possa, dall’oggi al domani, trasformarli tutti in esseri idealmente buoni ed intelligenti»; tuttavia questo non significa rimandare alle calende greche il tentativo di attuare una società libera dal dominio. Si può lottare subito e ottenere quello che è possibile ottenere, anche perché è già abbastanza diffusa nella società una cultura solidaristica. Insomma, non è abbandonando i propri principi che si accorcia il cammino che divide la società autoritaria dalla società libertaria. Respinge l'immagine che Merlino vuole attribuirgli, quella del tutto o nulla: si può infatti essere intransigenti e nello stesso aperti ai piccoli miglioramenti:

«Il bene e il male sono cose relative; ed un partito per quanto reazionario può rappresentare il progresso di fronte ad uno più reazionario ancora. Noi ci rallegriamo sempre quando vediamo un clericale che diventa liberale, un monarchico che diventa repubblicano, un indifferente che diventa qualche cosa; ma da ciò non deriva che dobbiamo farci monarchici, liberali o repubblicani noi, che crediamo di stare più avanti».

Però a questa logica constatazione, che in sé non implica alcuna posizione rivoluzionaria, fa seguire ancora una volta la preminenza del sentire etico e rispetto alla valutazione politica del regime liberale:

«Per noi non è il candidato che importa, perché tanto non crediamo all 'utilità di avere dei "buoni deputati"; quel che importa è la manifestazione dello stato d'animo del pubblico; e fra i tanti curiosi stati d'animo in cui può trovarsi un elettore, il migliore è quello che gli fa comprendere la inutilità ed i danni della deputazione al parlamento» (25).

Ragionando come Merlino, si accetterebbe alla fine il principio autoritario che trasforma l'inevitabile divisione del lavoro sociale nella struttura di dominio della società. Certo, della divisione del lavoro non si può fare a meno, ma bisogna ricordare che il carattere essenziale del socialismo e dell'anarchismo consiste «nel volere che certe funzioni debbano appartenere indistintamente a tutti i membri della società, malgrado i vantaggi tecnici che vi potrebbero essere nell'affidarle ad una classe sociale. Si divida pure il lavoro fino a che si può [ ... ] ma sian salvi innanzi tutto l'integrale sviluppo e l'eguale libertà di tutti gli individui. Tra le funzioni che, secondo noi, non si possono affidare senza gravi inconvenienti ad una classe speciale d'individui vi sono quelle in cui potrebbe esserci bisogno di adoperare la forza fisica contro un essere umano».
Alla fine il problema, per Malatesta, è ancora una volta l'opposizione tra il principio di autorità e il principio di libertà.

«L'umanità cammina secondo la risultante delle mille forze che in vari sensi la sollecitano. Noi non siamo che una di queste forze. La questione da discutersi è se, possibilizzando il nostro programma, noi otterremmo un risultato più vantaggioso, vale a dire più pronto e più vicino al nostro ideale, che combattendo per l'attuazione del programma pieno ed intero. Noi crediamo di no» (26).

Sembra a questo punto che la polemica sia finita - con uno strascico ultimo su "Critica sociale" (27) - quando Merlino pubblica un saggio sulla parigina "Revue Socialiste", nel quale sostiene l'identità tra anarchia e democrazia: 

«Né governo centralizzato né amministrazione diretta. L'organizzazione politica della società socialista deve consistere nel riconoscimento dei diritti e libertà intangibili dell'individuo [...] e nell'organizzazione degli interessi collettivi per delegazione ad amministratori capaci, revocabili e responsabili, che agiscano sotto il sindacato diretto del popolo [...] L'essenza della democrazia sta nella ricerca delle forme di amministrazione che lascino il meno possibile l'arbitrio agli amministratori. In questo senso non vi è differenza sostanziale tra democrazia e anarchia. Governo del popolo - niente oligarchia - significa in sostanza non governo. Il governo di tutti in generale (democrazia) equivale al governo di nessuno in particolare» (28).

È, come si vede, un abbandono chiaro e netto dell'anarchismo e non, come egli confusamente pretende, una conciliazione con l'idea democratica.
Giustamente Malatesta, che lo ha precedentemente difeso dalla ridicola accusa - alimentata in alcuni ambienti anarchici internazionali – di non essere mai stato un vero anarchico (29) fa osservare che il problema consiste nel principio informatore generale che dovrebbe presiedere alla società futura. Non si tratta, né può trattarsi, di una sintesi eclettica tra il principio di libertà e il principio di autorità: «la differenza sostanziale è questa: autorità o libertà, coazione o consenso, obbligatorietà o volontarietà. È su questa questione fondamentale del supremo principio regolatore dei rapporti inter-umani che bisogna intendersi». Tuttavia Malatesta non va oltre questa fondamentale osservazione. Persiste comunque nell'errore di contrapporre al principio politico dell'autorità quello etico della libertà: l'errore è epistemologico, dal momento che le due entità non sono confrontabili in quanto ontologicamente diverse. Si limita pertanto per l'ennesima volta ad affermare che una società anarchica non può che fondarsi sul libero consenso degli individui (30). Troppo poco, in effetti, per ribattere alle critiche precise di Merlino.
Questi, nel rispondergli, minimizza la differenza tra anarchismo e democrazia e rilancia il suo eclettismo, affermando che la questione centrale non consiste tra verità della dottrina e sua identificazione ideologica, ma tra verità ed errore:

«Tutto ciò che noi abbiamo il diritto e il dovere di desiderare è che quella parte di vero, che c'è nelle nostre dottrine, si faccia strada fra le moltitudini, e primieramente tra quelli che sono più vicini a noi [...]. Se domani i socialisti-democratici accettassero la parte giusta delle nostre idee, noi potremmo anche rassegnarci a morire come partito. Avremmo compiuta la nostra missione. Al postutto, i partiti non sono destinati a durare eternamente, purtroppo hanno una vita breve e precaria, servono ad affermare e divulgare certe idee, e per lo più scompaiono o si trasformano prima che quelle si attuino. Nel nostro caso, piuttosto che avere un partito che tira il socialismo da una parte, e un altro che lo tira dall'altra, facendolo a brani, esagerando entrambi e combattendosi talvolta ingiustamente, io preferirei un partito solo che rimanesse nella verità».

Con questa fede neo-illuministica, Merlino tenta di accorciare le differenze tra socialisti, democratici e anarchici e accusa pertanto Malatesta di cercare a tutti i costi i punti di attrito e di opposizione, invece di vedere quelli di convergenza. È, però, una minimizzazione insostenibile, data l'effettiva differenza esistente tra gli uni e gli altri. Il suo eclettismo lo porta a sfuocare il senso dei principi, perché, mentre vuole anteporre l'importanza della realtà rispetto a quella delle idee universali, perde però, in tale scambio, il senso ultimo del loro autentico valore. Ancora una volta, l'esigenza della concretezza fa premio sulla filosofia:

«la libertà non può mai essere illimitata e in un 'organizzazione è insita sempre una certa coazione; bisogna fare in modo che la coazione sia minima e l'organizzazione sia la più libertaria e decentrata possibile [ ... ] volontarietà, libertà, consenso, sono principii incompleti, che non ci possono dare da sé soli, né ora, né per molti secoli avvenire, tutta l'organizzazione sociale. D'altra parte non è esatto che i socialisti democratici siano fautori di autorità [e) che non riconoscano il gran valore del principio di libertà. Non è dunque vero che voi rappresentiate un principio e i socialisti democratici rappresentino il principio opposto: voi tutta la libertà, essi tutta l'autorità. La questione è di più e di meno, o piuttosto dei modi di applicazione». (31)

A questo punto Malatesta è costretto a constatare l'impossibilità di trovare un punto di conciliazione e, ovviamente, non ammette che si possa sciogliere «il partito anarchico» per fare un unico partito con i socialisti; e ciò non tanto «per distinguerci dagli altri, ma perché realmente, abbiamo idee e metodi diversi». «Il consiglio di Merlino, di entrare nel partito socialista per poter prevenire la tirannia dei socialisti al potere, equivale a quello di divenire per esempio monarchici o repubblicani per evitare che la monarchia o la repubblica [siano] troppo reazionarie». Contesta il realismo merliniano relativo al rapporto fenomenologico tra libertà e autorità, nel senso che Merlino non può negare agli anarchici di rappresentare veramente il principio di libertà.
In conclusione, Merlino ha un modo curioso di conciliare le opinioni:
«Esprime quello che dovremmo pensar noi e quello che dovrebbero pensare i socialisti democratici [in realtà] la differenza tra noi e i democratici resta intera [...] per ora la differenza diminuisce solo fra Merlino e i democratici, a misura che aumenta fra Merlino e noi» (32).
L'osservazione è del tutto esatta. Merlino infatti, di fronte all'effettiva impossibilità di conciliare quello che ormai non è più possibile conciliare, si sente costretto a pubblicare una dichiarazione pressoché ufficiale di abbandono dell'anarchismo. In una lettera indirizzata a "L'Agitazione", lapidariamente scrive:

«Cari amici, poiché mi domandate (e non è la prima volta) se io mi dica anarchico, sento il dovere di dichiarare che io preferisco chiamarmi "socialista libertario"»: è la dichiarazione della svolta e porta la data del 23 agosto I 897 (33).

Dopo questa decisiva ammissione, la polemica sembra definitivamente conclusa, se non che un ulteriore intervento di Merlino a difesa delle libertà costituzionali riaccende la disputa, che però poco si arricchisce rispetto a quanto già detto. Egli nota con preoccupazione che nell'area più reazionaria del paese va facendosi strada l'idea che «senza il parlamento si starebbe meglio»; prevede, di conseguenza, un possibile colpo di Stato. «Clericali, borbonici e altri partigiani di regimi tramontati da una parte - anarchici e altri socialisti dall'altra, aiutano la demolizione, credendo di combattere il governo, e non s'accorgono che lo rafforzano e lo rendono onnipotente». Respinge l'accusa di voler difendere la causa del parlamentarismo in quanto tale perché riconosce che il sistema parlamentare ha le sue deficienze; ma, ribadisce con senso politico, si può dire «tutto il male possibile: ma non si può negare che esso val meglio del governo assoluto». È quindi un errore essere per principio contro il regime parlamentare e chiedere, come chiedono gli anarchici, che esso sia «abolito puramente e semplicemente, è addirittura una follia, e significa fare il gioco della reazione». Quella di Merlino è ormai la piena accettazione politica della discriminante riformista del meno peggio; afferma infatti che il problema non è di abolire l'istituto parlamentare, ma di migliorarlo:

«Il parlamento è ad ogni modo, e per cattivo che sia, un freno al governo. I maggiori arbitrii il governo li commette a porte chiuse». «Insomma bisogna correggere i vizi del sistema, non privarsi de' suoi vantaggi». «Il sistema parlamentare è cattivo perché è poco parlamentare». «Io sono stato anti-parlamentare quando la "gente per bene" andava in visibilio per il sistema parlamentare. Oggi che essa mostra di volerlo abbandonare, per tornare indietro, io mi sento portato a difenderlo» (34).

Insorge allora nuovamente Malatesta capovolgendo il relativismo merliniano del meno peggio. Con il criterio di Merlino, egli afferma, si arriva alla fine a questa conclusione:

«Della monarchia si ha ragione di dire tutto il male possibile: ma questo è certo che essa val meglio del governo dei preti. Con questa logica si può andare lontano; poiché non v'è istituzione reazionaria, nociva, assurda, che non trovi chi la combatte allo scopo di sostituirvene un'altra peggiore». «I reazionari profittano della corruzione e dell'impotenza parlamentare per risollevare la bandiera del clericalismo e dell'assolutismo: è vero. Ma vorrebbe Merlino che ci mettessimo a tentare quest'opera [...] di salvare il parlamento dal disprezzo e dall'odio popolare?».

La precisazione malatestiana coglie nel segno, in quanto Merlino non riesce a elaborare in chiave teorica la propensione a una definizione politica dell'istanza etica della libertà. Tuttavia, se si applica a questa diatriba lo schema dicotomico weberiano dell "etica della responsabilità" e dell"'etica della convinzione", non vi è dubbio che Merlino rappresenta il primo caso e Malatesta il secondo. Malatesta non è affatto disposto a rinunciare alla sua idea fondata sul presupposto etico, sia perché convinto che solo un estremo atteggiamento rivoluzionario possa frenare la tentazione autoritaria, sia perché altrettanto sicuro delle possibilità politico-rivoluzionarie delle masse. Ed è, quest'ultima, una convinzione del tutto campata in aria, fidente solo nel populismo antistituzionale, non certo basata su una disincantata analisi della situazione socio-politica e della maturità storica e ideologica delle classi subalterne. Pur riconoscendo infatti che il regime parlamentare è senz'altro preferibile a quello assolutistico, tanto da poter usufruire di tutte quelle libertà che gli permettono di esercitare il suo rivoluzionarismo, finisce per concludere:

«non per questo possiamo ritenerci impegnati a difendere quelle istituzioni ed a cessare di fare tutto il possibile per screditarle ed abbatterle» (35).
Con ciò Malatesta, suo malgrado, coincide perfettamente con la pratica marxista, che più tardi avrà la sua espressione più logica e compiuta nel leninismo: servirsi delle libertà borghesi per distruggerle. Non vi è quindi più nessuna possibilità d'intesa: in Merlino prevale il punto di vista della responsabilità storica del momento, che a sua volta deriva, anche se non detto, dalla sfiducia in una reale possibilità delle capacità rivoluzionarie delle masse e della immediata realizzabilità del socialismo; in Malatesta resta centrale la convinzione opposta, secondo la quale non vi è niente per cui valga la pena di lottare, se non per l'attuazione piena dell'idea anarchica e che comunque solo e soltanto a questa bisogna alla fine far riferimento: tutto il resto non conta.
Proprio sul tasto della responsabilità storica e del realismo politico si incentra la risposta di Merlino, che accomuna Malatesta ai reazionari: a suo giudizio, l'uno e gli altri obiettivamente convergenti nell'abbattere l'unica libertà esistente: quella liberal-costituzionale. Gli effetti del discredito del parlamento non saranno così sicuramente benefici come pretendono alcuni:

«il repubblicano intransigente dice: può darsi che la gente diventi repubblicana. L'anarchico-astensionista dice: può darsi che diventino tutti anarchici. Ed entrambi si fregano le mani dalla contentezza. E se la gente diventasse partigiana del governo assoluto? O se divenisse ogni giorno più indifferente alla propria libertà?». Assumendo il ragionamento degli estremisti repubblicani, Merlino sarcasticamente fa osservare: «il popolo è disgustato del sistema parlamentare. Facciamo la repubblica. Bravo, e come farla se il popolo non si cura neppure di quella poca libertà che potrebbe avere in manca il pane: distribuite delle brioches».

Nello stesso modo si comporta Malatesta, che propugna l'abolizione del governo parlamentare perché confortato dall'indifferenza popolare contro il parlamento.

«Abolire il parlamento, abolire il governo, e poi? E poi ognuno farà quel che vuole e si vivrà nel migliore dei mondi possibili [...] Questo lo dite voi: ma il popolo crede che il governo di uno solo val meglio del governo di pochi, e non concepisce affatto (di questo potete star sicuri) uno stato di cose senza governo di sorta. Il popolo non è convinto che il sistema parlamentare sia la meno cattiva delle forme possibili di governo» (36).

Nel rispondergli Malatesta ribadisce concetti già precedentemente illustrati:

«Merlino dice che il popolo non è convinto che bisogna abolire il governo. E chi pretende il contrario? Se il popolo ne fosse convinto, l'anarchia sarebbe un fatto. Ma noi che ne siamo convinti, abbiamo interesse e dovere di cercare di convincerne anche gli altri. Il popolo non è convinto, per esempio, che il cattolicismo è un ammasso di superstizioni [...] il popolo non è convinto che si può fare a meno dei padroni [...] ma non per questo Merlino ci consiglierebbe di metterci a predicare, anziché la distruzione, la riforma del cattolicismo e del capitalismo».

Ritorna, con fiducia incondizionata, sulla volontà rivoluzionaria delle masse e sulla positività della svolta storica comunque aperta dalla rivoluzione: «io voglio combattere perché il popolo si metta in condizione di fare quello che vuole: ed ho fiducia che esso, pur facendo mille spropositi e dovendo spesso ritornare sui suoi passi [...] preferirà sempre quelle soluzioni che l'esperienza gli mostrerà più facili e più vantaggiose».
Ci si trova, come si vede, alla fine di ogni argomentare razionale; la discussione si sposta ormai sui valori essenziali, a loro volta sorretti dalle convinzioni ultime. Per Malatesta, rimane insuperabile la convizione antropologica ottimistica, in Merlino prevaleva quella realistica. Malatesta chiude il suo intervento domandando: «vorrei sapere se, nell'opinione di Merlino, quel tal governo o parlamento che egli crede necessario alla vita sociale, dovrà avere a sua disposizione una forza armata» (37). E Merlino così risponde: «se la gente sarà abbastanza ragionevole, non sarà necessario usar la forza, se no, ci si ricorrerà». E domanda a sua volta a Malatesta: se gli individui «useranno la forza l'uno contro l'altro?», chi provvederà all'ordine sociale? È evidente che occorrerà una forza pubblica, con tutte le limitazioni e garanzie possibili, ma, alla fine, non c'è altra soluzione. Questa divisione del lavoro sociale e politico vale per ogni aspetto della vita associata: Malatesta vuole «il diritto di tutti ad entrare nelle singole associazioni ed usare de' mezzi di produzione», vuole il coinvolgimento generale, la partecipazione «di tutti su tutto», come se questo fosse veramente possibile. In realtà è un assurdo: questo, se veramente attuato, renderebbe «impossibile alle associazioni di funzionare un'ora sola» (38).
L'ulteriore risposta di Malatesta è effettivamente fideistica e sintetizza la forma mentis dell'argomentare utopico che, anteponendo sempre il dover essere all’essere, si sottrae al confronto immediato con il presente, in quanto critica questo non in rapporto alle sue possibilità reali, ma rispetto ad un ipotetico futuro, cioè con il criterio di uno stato di cose totalmente diverso. In altri termini, non privilegia la trasformazione delle possibilità insite nella realtà data, ma le virtualità di un modello teorico così come comanda il dover essere:

«Noi vogliamo che tutti i cittadini abbiano il diritto uguale di essere armati e di correre alle armi quando se ne presenti la necessità, senza che nessuno possa costringerli a marciare o a non marciare. Vogliamo che la difesa sociale, interesse di tutti, sia affidata a tutti, senza che nessuno faccia il mestiere di difensore dell'ordine pubblico e viva di esso. Ma, dice Merlino, se io sono attaccato da uno più forte di me, come farò a difendermi? Accorrerà la gente ad aiutarmi? E accorrendo, come farà a giudicare da che parte sta la ragione? E siccome probabilmente si produrranno opinioni diverse, si avrà dunque per ogni disputa una guerra civile? E i carabinieri, rispondo io, sono sempre presenti per difendere chi è attaccato? Ed è sicuro che essi non si mettano mai dalla parte di chi ha torto? E il giudizio dei magistrati offre forse più garanzie di giustizia di quello della folla? E la tirannia è forse preferibile alla guerra civile? Merlino ragiona come fanno conservatori. Egli mette innanzi tutti gl’inconvenienti, tutti i conflitti possibili nella vita sociale, e se ne serve per dire impossibili ad assurdi gl'ideali nostri, - dimenticando però di dirci come a quegli inconvenienti ed a quei conflitti si ripara nel sistema suo. Merlino teme la guerra civile; ma che cosa è un regime autoritario se non uno stato di guerra, in cui una delle parti è stata vinta e si trova soggetta?».

(continua)
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