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Società e gerarchia

Andrea Caffi, 1941-1945.

Le moi est häissable è un principio di comportamento consigliato in quello specifico ambiente che io chiamo (alla russa) "società". Tuttavia, vincendo la presunzione d'immodestia, mi permetterò di ricorrere a esperienze personali che mi hanno aiutato a capire la natura e i limiti della particolare solidarietà su cui si fonda una comunità sociale, distinta dalla disciplina o gerarchia, le cui ragioni si possono trovare nel "sistema economico", sempre completato da un sistema giuridico e politico.
La "scuola riformata" di Pietroburgo, dove durante nove anni ho goduto di un'infanzia straordinariamente felice, riuniva i figli di famiglie assai distanti l'una dall'altra per rango sociale, nazionalità, confessione, professione, livello di ricchezza (o di povertà). Fra i genitori figuravano proprietari nobili, industriali, bottegai, artigiani, artisti, burocrati, ufficiali dell'esercito imperiale, marinai; fra i compagni di classe ho avuto francesi, svizzeri, inglesi, svedesi, uno spagnolo, buon numero di tedeschi, polacchi, ebrei; oltre ai russi, naturalmente; ma Lunin, che io credevo russo autentico, anzi "popolano" — tale era la madre — l'ho ritrovato in un villaggio del Ticino presso Mendrisio, figlio di quel rustico sindaco, il quale, arricchito come scalpellino, aveva riconosciuto il rampollo che ormai parlava il dialetto locale e mi fece gli onori di una festa parrocchiale, ma con infinito affetto e vivacità rievocò le singolarità della nostra alma mater.
Nella nostra classe, sedevano l'uno accanto all'altro dei baroni baltici spiccatamente feudali e il figlio dell'editore che per primo s'arrischiò a pubblicare un quotidiano democratico (più tardi diretto da Miliukov); uno dei baroni dovevo poi ritrovarlo fra Charkov e Mosca, convinto e solerte funzionario della Ceka; il maggiore dei Bach — così si chiamava la famiglia arditamente democratica — è stato fucilato come sospetto di complotto con i "bianchi". Accanto alla numerosa progenie dei due quasi mi-liardari che detenevano il monopolio del caucciù in Russia c'era Z. (infinitamente più aristocratico nei modi) di cui seppi solo più tardi, quando stringemmo amicizia, che dalla sesta classe in poi dava lezioni per aiutare la madre vedova e la sorella. C'era persine un autentico proletario, B., che conobbi anche lui solo dopo la fine degli studi: essendo io in funzione di propagandista, lo trovai a capo di un nucleo di operai e impiegati di un'azienda di trasporti fluviali ove egli stesso teneva un umilissimo impiego; mi raccontò che aveva avuto una borsa di studio, era un rivoluzionario molto fervido, insistette perché a un Circolo di suoi compagni, ai quali egli aveva già cercato di parlare di filosofia, io spiegassi che cosa pensavano Descartes, Spinoza e Leibniz; e io rabbrividisco all'idea della mia presuntuosa ignoranza di studente del secondo anno di liceo, ma l'atmosfera di quel piccolo gruppo era calda e simpatica in modo indimenticabile.
Orbene, nelle mie peregrinazioni ho incontrato allievi della "scuola riformata" che avevano terminato gli studi dieci anni prima di me, e altri che li compirono dieci anni dopo, ma sempre bastò un primo riconoscimento (spesso anzi per un segno qualsiasi alla presentazione stessa già ci scoprivamo ex-"riformati") perché subito una specie di confidenza e di linguaggio particolare si stabilisse fra noi e ogni diversità di opinioni, di genere d'esistenza eccetera apparisse meno essenziale (ma soprattutto meno preziosa per l'animo) di un certo fondo comune di mentalità, la traccia indelebile di qualcosa per cui non trovo nome migliore che "umanesimo".
Ai tempi della mia giovinezza, era d'uso comune in Russia contrapporre al "governo" da un lato la "società" vessata, sovversiva, sempre impaziente di manifestare la sua critica in parole e anche in atti, dall'altro il "popolo", molto più oppresso, ma passivo, amorfo, e spesso più ostile alla "società" che al governo, e ciò perché lo scandalizzava il nonconformismo della società. Tale terminologia era già generalmente accettata, e senz'altro intesa, ai tempi di Pushkin, e cioè fra il 1820 e il 1830; ma se ne possono trovare cenni abbastanza espliciti verso il 1780, al tempo delle Logge massoniche organizzate da Novikov.
I russi non hanno certo inventato loro questa tripartizione. Nelle Lettres persanes e nelle Pensées di Montesquieu, nella corrispondenza di Voltaire, di D'Alembert e di Diderot è facile trovare come motivo continuo e cosciente un modo identico di separare il ceto al quale appartengono essi stessi, i philosophes (più tutte le honnêtes gens) sia da coloro che governano (compresi i plutocrati, fermiers généraux eccetera) sia dalla massa del popolo. D'altra parte, non si negherà che il romanzo moderno — in Francia, in Inghilterra, in Russia — ha rispecchiato fedelmente le aspirazioni tipiche della parte più attiva della popolazione civile, e cioè il modo in cui l'uomo cosciente della sua dignità valuta le varie attività sociali e il posto che egli vorrebbe assumere nel sistema di dette attività. L'eroe di romanzo col quale il lettore simpatizza vuole vivere "realmente", e ciò significa quasi sempre vivere secondo verità e giustizia.
Ora, deve pure avere qualche significato il fatto che, per Tom Jones come per Pickwick, David Copperfield, Martin Chuzzlewitt, per Pierre Bezukhov come per Julien Sorel, per Fabrizio Del Dongo come per Frédéric Moreau, le norme del diritto, i costumi, le finalità politiche e economiche, i dogmi stabiliti e tutte le gerarchie appaiono o come assurdità o come cose inessenziali.
Sarebbe errato parlare di indifferenza per le esigenze materiali o di gratuità dei gesti. È in gioco la realtà realissima dell'esperienza esistenziale e, alla prova dei fatti, risulta che il buon successo delle industrie, l'equilibrio delle fortune, la posizione sociale e tutto l'armamentario giuridico - economico -politico - ecclesiastico - ideologico sono meno "reali" di un labirinto d'emozioni d'amore, il primo ballo di Natascia, l'incontro con Platone Karataiev, la fine della giovinezza, eccetera. Quando si arriva a quello che le persone ragionevoli considerano il " sodo" — quando Nicola Rostov si dedica all'amministrazione delle sue terre e Natascia s'affanna fra le cure domestiche — il romanzo è finito, cala il sipario. D'altra parte, gli eroi di romanzo (e soprattutto quelli dei romanzi che ama leggere la gente del popolo) non si confondono mai con il popolo produttore, conformista, rispettoso dei limiti eccetera. Quale scolaretto è stato tanto idiota da lasciarsi convincere dalle storie che gli racconta il libro di lettura su Pierino bravo, disciplinato, diligente, rispettoso eccetera?
Ho avuto forse torto nell'adottare senz'altro il termine russo "società" per indicare il particolare "ambiente" di cui parlo. D'ora in poi, per evitare malintesi, designerò come "società" (fra virgolette) quel mondo di Montesquieu, Voltaire, Tolstoi eccetera, e come Società (con la maiuscola) la nozione di collettività di cui trattano Proudhon, Simmel, Gurvitch.
I notabili delle tumultuose assemblee del 1787-1788 rappresentavano in modo assai infedele le classi privilegiate (aristocrazia, nobiltà ricca, alto clero); i deputati alla Costituente e alla Legislativa non erano semplici portavoce della borghesia "reale", e cioè timorata, calcolatrice, attaccata alle tradizioni; la Convenzione ha rappresentato un popolo "ideale" piuttosto che i contadini, artigiani, prole-tari francesi quali essi erano realmente nella vita quotidiana del 1792-'93. Se si dicesse invece che in questi consessi si udiva, alta o fioca, la voce della "società" francese non sarebbe tanto falso.
Far passare (marxisticamente) la Narodna Volja, e cioè i gruppi terroristi del 1878-83, per una "avanguardia della borghesia" russa, o vedere nella sinistra delle quattro Dume — dal 1906 al 1917 — la difesa e illustrazione di aspirazioni borghesi, è poco convincente. Ma riconoscere in Geliabov come in Plekhanov, in Miliukov come in Kerenski, dei tipici esponenti della "società" russa, con una tradizione ininterrotta fin dai decabristi del 1825, non è assurdo.
Temistocle, Efialte, Pericle hanno, secondo l'opinione accettata, fatto trionfare le rivendicazioni
del minuto popolo ateniese contro gli oligarchi. Ma essi stessi non appartenevano al popolo, non condividevano né le sofferenze materiali né le superstizioni e le cieche passioni di detto popolo; ne esprimevano piuttosto i sentimenti più nobili, in quanto tale popolo era capace, almeno a momenti, di vivere sul piano della "società".
Il governo della Polonia dal 1600 circa fino al 1795 era una misera cosa; l'esercizio del liberum veto (somma giustizia?) nelle macchinose e tumultuose Diete si riduceva a un basso gioco di corruzioni tariffate; l'economia polacca era un orrido caos, con proprietari nobili coperti di debiti e servi della gleba molto più poveri e maltrattati, di solito, delle popolazioni rurali dei paesi tedeschi, e forse persino dei contadini russi. Disordine e squallore dappertutto. Eppure, questa szlachta (1) rotta a tutte le abiezioni dell'accattonaggio, indisciplinata, insensata, quando si riuniva per conviti, canti e balli nei castelli ospitali, o partiva in ardite spedizioni contro i turchi, o anche per assurde guerre civili, ovvero discuteva sulle imprescindibili esigenze della libertà, dell'onore, della fraternità cristiana, aveva qualcosa di affascinante, per cui non si può fare a meno di preferire l'anarchia polacca alla "giustizia" e "sicurezza" dei governi della Prussia, dell'Austria e della Russia.
Da questo ambiente così inferiore per economia pratica, sicurezza, certezza di limiti stabiliti, e insomma per tutto ciò che costituisce una Società bene organizzata, sono usciti miriadi di combattenti che su tutte le barricate d'Europa sono morti eroicamente per un "ideale", e anche magnifici poeti e
autentici santi (quali furono non pochi polacchi nelle crudeli vicende dell'esilio e della Siberia), brillanti cercatori d'avventure come Beniovski.
Che un tale fiorire di energie umane sia da rigettare fra gli epifenomeni trascurabili della storia e che esso non abbia proprio nulla a che fare con l'aspirazione degli uomini verso la giustizia, mi parrebbe un po' duro da inghiottire.
Lascio la parola a Voltaire. Il capitoletto XVI della Vision de Babouc, ou le monde comme il va è intitolato La Société. Vi si legge: "Babouc vide una casa dove regnavano tutti i piaceri. Teona regnava su di loro, e sapeva parlare a ognuno nel suo linguaggio. La naturalezza del suo spirito metteva a suo agio quello degli altri, ed era altrettanto amabile che benefica. Babouc, sebbene scita e inviato di un genio [giustiziere], si accorse che se fosse restato più oltre a Persepoli avrebbe dimenticato Ituriel per Teona. Egli si affezionava a quella città il cui popolo era civile, gentile e benefico benché leggero, maldicente e pieno di vanità. Egli temeva che Persepoli fosse condannata..."
Da Voltaire passiamo a un pedante dei tempi nostri, il professor Jacques Chevalier (Mélanges Hauriou, 1929, pagine 131-32): "Tutte le idee degne di questo nome... sono per noi dei misteri, nel senso che non si rivelano che incompletamente e per fasi successive, attraverso concetti, specie di schemi tratti da una realtà che ci sfugge sempre per qualche verso. Dove non sussiste mistero non c'è più idea, ma solo concetto. Mistero e ideale sono dunque strettamente collegati. L'idea di giustizia è un mistero perché è un ideale ed è un ideale perché è un mistero. Essa non si esaurisce nei nostri concetti giuridici. I tre precetti delle Institutiones di Giustiniano (Alterum non laedere - Suum unicuique tribuere - Honeste vivere) anche se presi insieme non esprimono il fondo dell'idea. Conviene inoltre notare che il secondo di tali precetti si riferisce a un ordine sociale fondato sulla proprietà individuale e che gli altri due, per assumere il loro senso pieno, devono esser riferiti a un ordine ideale che la stabilità (necessaria al bene comune) non è affatto sufficiente a definire né a fondare".
A proposito di stabilità, nel vecchio libro di Bagehot Physics and Politics si trovano delle osservazioni curiose sui "secoli d'oppressione" che sono stati necessari per consolidare — e cioè "stabilizzare": status, Stato — i gruppi umani. Si veda d'altra parte, nel Bravo mondo nuovo di Aldous Huxley, quali aspetti può logicamente prendere la preoccupazione della stabilità; si veda anche a quale tragicommedia si riducesse l'ossessione della "sicurezza" in Francia sotto Poincaré-Tardieu-Delbos, dal 1918 al 1938, e a quali risultati infine conducesse l'idea della "stabilità" della nazione francese al riparo della linea Maginot.
Occorre tuttavia anche notare che i rapporti d'eguaglianza e di civiltà (politesse) che la "società" implica sono di continuo alterati per l'intrusione di motivi d'ambizione, di rango, di conflitti e distinzioni interessate che costituiscono il gioco, o "dinamismo", del sistema sociale.
Le critiche acerbe mosse da Marx nella Misère de la philosophie al Système des contradictions économiques ou Philosophie de la misère di Proudhon non sono infondate, sebbene sia indubbio (almeno per me) che l'iracondo e sprezzante Herr Doktor non si sia dato la pena di capire il vero pensiero dell'artigiano autodidatta di Besançon. La scienza dell'economia politica (così come Adam Smith, Malthus, Ricardo l'avevano sistemata) non era il punto forte nei ragionamenti — peraltro così interessanti e talvolta geniali — di Proudhon. Le nozioni di questi sul capitalismo come si era sviluppato in Inghilterra e sugli effetti della rivoluzione industriale non sembrano né abbastanza informate né scientificamente rigorose. Marx trionfa facilmente ogni volta che considera le ineluttabili conseguenze del progresso tecnico e oppone il meccanismo della produzione e degli scambi ai giudizi psicologici e "moraleggianti" sui diritti e doveri dei produttori, mercanti, speculatori eccetera.
Insomma, sarebbe vano cercare nell'opera di Proudhon una visione concreta delle norme che regolano la gestione di una rete ferroviaria, d'un trust dell'acciaio o del petrolio e simili, fenomeni che invece il Capitale non ignorerà. Nella debolezza di Proudhon in quanto economista, vedrei volentieri la prova che la "scienza" dei fisiocrati e della scuola liberista-utilitaria inglese era una falsa scienza, appoggiata su astrazioni più o meno sofistiche.
Rimane tuttavia (una volta ammessa la conoscenza imperfetta dei congegni del sistema economico moderno da parte di Proudhon) un forte dubbio, e cioè se sia lecito identificare la Società secondo Proudhon (ossia il popolo spontaneamente o naturalmente organizzato secondo norme di giustizia senza coercizione esteriore) con l'insieme di aggregati, equilibri, divisioni del lavoro, conflitti e armonie d'interessi prodotti dall'attività agricola, industriale, commerciale e bancaria quale realmente esisteva nel 1850 o quale realmente è esistita in tutti i tempi.
Gioverebbe ricordarsi che, in parte, Proudhon attingeva l'idea della Società opposta allo Stato dalla filosofia tedesca: dalla bürgerliche Gesellschaft di Hegel, ma soprattutto, a quanto pare, da Kraus (la cui influenza ulteriore sulle ideologie sociali degli spagnoli federalisti e anarchici è pure sintomatica). Ora, per "società civile", i filosofi germanici in questione intendevano qualcosa di più che le "attività economiche": qualcosa di meno preciso anche, se si vuole, ma comunque diverso. Essi ambivano a circoscrivere in un concetto unico tutti gli aspetti della vita privata: il lavoro, ma anche gli ozi e le feste; l'esistenza materiale, ma anche quella morale e religiosa; le abitudini imposte da necessità quotidiane, ma anche le tradizioni, i costumi, i pregiudizi non motivati dal tornaconto, anzi spesso in contrasto con questo.
Comunque, Georges Gurvitch, nella sua teoria del "diritto sociale", in buona parte ispirata da Proudhon, ha evitato ogni identificazione del "sociale" con l’"economico" ammettendo, quali sostrati inorganizzati della vita collettiva e del diritto spontaneamente attuato, la nazione, le sètte religiose, le associazioni libere d'ogni genere, e persine la "società delle nazioni".
Non sarebbe un paradosso cervellotico supporre che Proudhon, con il suo piano "mutualista" e federalista, cercasse di introdurre la giustizia nell'ingranaggio economico, proprio perché la vita economica moderna era un mondo che si era massimamente allontanato dalle norme del vero e giusto convivere sociale. Egli riusciva a dimostrare che le attività economiche si prestano meravigliosamente a essere ordinate secondo princìpi di giustizia, a condizione però che la ragione umana (la "filosofia" divenuta coscienza popolare) scacci le assurdità, le perversità, le falsità accumulate dalla speculazione egoistica, dalla prepotenza di caste parassitarie, nonché dalla stupidaggine, servilità, pigrizia e superstizione di masse condannate alla schiavitù da millenni e quasi contente d'essere schiave, o incapaci pur nelle rivolte di comportarsi altrimenti che come iloti ubriachi.
In contrasto con gli utopisti, Proudhon faceva appello non a una escogitazione la quale di colpo avrebbe rimesso tutte le cose a posto, ma a un atto liberatore della conoscenza umana, del buon senso che pur sussiste diffuso, anche se offuscato dalla miseria, nel popolo. Tale sforzo doveva anzitutto restaurare la dignità in ciascun animo, rimettere in onore dei costumi (mores) veramente "morali", rendere generale un sano discernimento del vero e del falso, del naturale e dell'artefatto, del "diritto intrinseco" e della legislazione arbitraria, quindi oppressiva. Il nuovo ordine si sarebbe allora gradualmente, ma in modo irresistibile, imposto nel funzionamento del credito, degli scambi, della produzione (prevalentemente artigiana).
"L'illusione, la chimera sono le condizioni delle grandi cose create dal popolo. Solo quando l'umanità tutta quanta sarà istruita e sarà arrivata a un certo grado di filosofia positiva, solo allora le cose umane saranno guidate secondo ragione" ha scritto Renan. In sostanza, è così che la pensa anche Proudhon quando in La guerre et la paix mette in rilievo con tanto vigore il carattere mistico della Forza che finora ha determinato i destini della Società, e quando in La Justice insiste sulla necessità di elaborare e formulare con chiarezza una philosophie du peuple. La riverenza e ammirazione con cui Proudhon cita Voltaire (mentre odia Rousseau e giudica molto superficialmente Platone) corrisponde a quel "certo grado di filosofia positiva" che avrebbe voluto vedere diffuso fra il popolo anche l'autore di L'avenir de la science. Più tardi, Renan non avrà più fiducia in un connubio della ragione con il popolo e condannerà Calibano alla schiavitù perpetua sotto una élite più o meno machiavellica; mentre Flaubert non spererà neppure nelle capacità "governative" di una tale minoranza e, abbandonando i comuni interessi della società ad alti e bassi pignoufs, raccomanderà ai buoni (ma per "buoni" Flaubert intende in sostanza i letterati e gli artisti) l'esistenza procul negotiis.
Caratteristica comune di Proudhon, di Renan e di Flaubert, spettatori angosciati di una medesima realtà sociale (Stato, economia, conformismi morali, gusti della folla), è tuttavia l'ostilità verso le "istituzioni religiose" (la Révolution opposta all’Église in Proudhon; la philosophie opposta alle chimères in Renan; e, in Flaubert, lo spirito di Voltaire opposto alla sentimentalità di Rousseau, accusato appunto di aver reintrodotto le ipocrisie e le tirannie dogmatiche nella Società, la quale avrebbe potuto emanciparsi nel 1789). Ciò sembra provenire dal giusto intuito che la religione è alla base di tutte le forme fisse di rapporti sociali che opprimono la spontaneità dell'essere umano.
Dice Goethe: "Nelle cose del tutto ordinarie molto dipende dalla scelta e dalla volontà, ma ciò che ci accade di più bello viene chissà da dove."
Sfortunatamente, anche nelle imprese più volgari e quotidiane la "scelta" che si offre alla "volontà" degli uomini in una società organizzata è molto limitata. Il coraggio e l'ispirazione che dovrebbero manifestarsi nel preferire un'alternativa a un'altra o nel perseguimento di un'impresa liberamente concepita sono atrofizzati o falsati da un fascio di pregiudizi inculcati fin dall'infanzia, dalla tirannia morale e materiale del prossimo, dei governanti, delle istituzioni. L'esistenza meschina cui è condannata l'immensa maggioranza delle persone in un dato sistema economico produce e consolida un'armatura di "repressioni" sordide.
Il lavoro dei campi o dell'officina, l'apprendimento di un mestiere, il successo in una carriera, il matrimonio e l'educazione dei figli comportano occasioni molto varie di esercitare la volontà, il coraggio, l'ispirazione. L'obbedienza può essere uno sforzo positivo della volontà; il sapersi adattare alle circostanze un modo d'essere ispirato da una natura armoniosa; la pazienza, infine, una specie di coraggio. Ma lo stesso può dirsi dei comportamenti opposti. Per formarsi un'idea della Società nel suo insieme, e della "giustizia" che vi si può trovare (sia in atto che in potenza), bisognerebbe poter misurare con una certa approssimazione i coefficienti di sopportazione ottusa e d'iniziativa gioiosa, d'ambizione e di noncuranza, di sensibilità immediata e di superstizione pesante, d'inerzia e d'inquietudine intellettuale che possono combinarsi nella condizione umana di un agricoltore francese, di un contadino polacco, di uno schiavo indocinese che lavora in una piantagione di caucciù; paragonare un rematore eucmenide sulla barca d'Ulisse con quello che veniva incatenato su una galera romana (o francese del XVII secolo), il gabbiere di un veliero con lo stivatore di un transatlantico, l'argiraspide dell'esercito di Alessandro col fante di Verdun; vedere se le riflessioni che Jules Romains presta all'operaio tornitore Maillecottin, proletario cosciente di Parigi, avrebbero un senso qualsiasi per l'operaio di Ford: percorrere la gamma della felicità interiore dal Vicario di Wakefield alle coppie ibseniane, e anche quella delle dissipazioni dalle caricature moraleggianti di Hogarth fino al "rovescio" della borghesia cattolica descritta da Mauriac. E si dovrebbero forse anche prendere in considerazione i modi della creazione artistica dalle follie di un Debussy, di un Cézanne, di un James Joyce fino al "meraviglioso equilibrio" dei signori dell’Institut de France, da Massenet a Henri Bordeaux, se non addirittura da un Simon Dach (il cui panegirista ci dice che fra il 1630 e il 1655 non ci fu, in tutta la provincia di Königsberg, festa nuziale o funerale dove non si ricorresse alla sua musa) fino al maturare di una poesia di Keats o di Mallarmé.
A questo punto si può tentare di formulare alcune conclusioni sull'argomento.
Ogni istituzione sociale ha come unica ragion d'essere quella di assicurare la felicità dell'uomo cosciente della propria individualità.
La felicità dell'essere umano, per precarie che ne siano le possibilità trattandosi di un organismo perituro e di un'intelligenza la cui sete di conoscenza non può per definizione esser mai soddisfatta, consiste nello sviluppo quanto più completo possibile di tutte le facoltà del corpo e dello spirito e nel raggiungimento di una coerenza sostenuta e giustificata dalla ragione negli atti e nei pensieri che formano il corso di una vita. Tale sviluppo e tale coerenza non sono possibili che attraverso l'integrazione della persona in una comunità.
La libertà della persona è limitata dagli impegni che si suppongono liberamente contratti per il fatto stesso di aderire a una comunità.
Tali impegni comportano da un canto una condotta nella quale sentimenti e passioni siano nella misura del possibile sottoposti al controllo della ragione, dall'altro che si accetti piena responsabilità per il benessere di tutte le persone con le quali si è liberamente associato e per il mantenimento della giustizia nei rapporti sociali. Ogni membro di una comunità sociale libera del tipo che sto qui immaginando è personalmente responsabile di ogni negligenza o mancanza di solidarietà che si verifichi nella comunità. La solidarietà dei membri è d'altra parte fondata e mantenuta sulla reciprocità spontanea dei rapporti di aiuto reciproco, di reciproca educazione e di messa in comune delle esperienze acquisite.
La realizzazione di una tale comunità s'identifica con la realizzazione delle norme della giustizia: è quindi un ideale che richiede di essere continuamente nutrito dalla pratica. La giustizia implica l'eguaglianza assoluta delle persone unite in società. L'eguaglianza è indispensabile perché i rapporti fra individui rimangano spontanei e perché ogni persona possa avere piena coscienza della propria libertà, responsabilità e dignità, senza di cui la nozione stessa di felicità umana perderebbe significato.
La giustizia non può assicurare la felicità dell'uomo che se è applicata in maniera assoluta. Ciò implica in primo luogo che i rapporti di comunità fra eguali devono estendersi a tutti gli uomini, senza mai ammettere alcuna idea di superiorità o inferiorità né fra persone né fra gruppi. In secondo luogo, ciò esige che quando la debolezza di un individuo, a causa della sua età, della sua infermità o della sua ignoranza, rende necessaria una tutela protettiva o educatrice da parte della comunità, tale sorveglianza e assistenza dovranno esercitarsi in modo da rispettare l'autonomia sovrana della persona, evitando ogni sopraffazione o violenza contro il suo essere intimo. La giustizia implica infine che la persona non è soggetta al giudizio dei suoi simili. Nessuna nozione di bene o di male, anche se consacrata dal consenso unanime degli altri, può essere imposta a una coscienza umana senza il suo consenso. Nel caso di legittima difesa o di forza maggiore, in cui la comunità si vede costretta a eliminare o ridurre all'impotenza uno dei suoi membri, si tratta di una misura pratica senza alcun valore morale, la quale deve quindi essere accompagnata da ogni sorta di precauzioni e garanzie.

(1)Piccola nobiltà terriera.

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