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Pietro Adamo
Nicola Chiaromonte e la tradizione libertaria
Tratto da Cosa rimane, atti del convegno dedicato a Nicola Chiaromonte (Forlì, 25 maggio 2002), quaderni dell'altra tradizione, 3, Una Città, 2006
Nel marzo del
1999 sono tra gli organizzatori di una serie di conferenze tenute alla
Libreria Tikkun di Milano intitolata "Gli eretici della sinistra”. Il
primo incontro prevede la discussione su Albert Camus, Camillo Berneri e
Nicola Chiaromonte. L’incontro si fa subito vivace. Il moderatore (per
la cronaca Attilio Mangano) presenta infatti i tre pensatori in una
sorta di scala discendente di "eresia”: Camillo Berneri l’anarchico,
Albert Camus il libertario, Nicola Chiaromonte il liberale. Sia il
sottoscritto sia Giovanni Scirocco (relatore su Chiaromonte) ci
opponiamo con una certa veemenza a siffatta caratterizzazione ed
entrambi insistiamo -con aperto divertimento del pubblico- sul diritto
di Chiaromonte a essere inserito, a pieno titolo, nel canone libertario.
L’aneddoto sembra significativo. Illustra la posizione che
Chiaromonte occupa in certo immaginario storico-politico-culturale
italiano. Prevale cioè la posizione pubblica del Chiaromonte degli anni
’50, direttore di "Tempo presente”, convinto sostenitore dell’Occidente,
acerrimo nemico del comunismo, indagatore indefesso dei vizi
intellettuali e culturali del radicalismo all’italiana e più in generale
dell’ethos rivoluzionarieggiante ed escatologico della sinistra tout
court.
Una posizione certo laica, ma che risulta facilmente accomunabile a
quella dei conservatori che si oppongono a ogni seria ipotesi di
mutamento sociale. Il fatto è che le grandi battaglie di Chiaromonte,
immediatamente prima, durante e dopo "Tempo presente”, lo situano di
fatto a fianco dell’intellighenzia liberale d’Occidente, anche se molto
spesso, a guardare in forma ravvicinata gli argomenti usati dal nostro,
se ne colgono con facilità i distinguo e le sfumature che lo
differenziano da un Raymond Aron o da un Karl Popper.
E’ un’immagine in sostanza avvalorata anche da buona parte degli
scritti pubblicati postumi, che prediligono il Chiaromonte impegnato
nella polemica a tutto campo contro l’ideologia del progresso e del
millenarismo rivoluzionario. E’ questa prevalenza a giustificare, almeno
in parte, lo scetticismo rispetto a una sua collocazione in ambito
libertario. D’altro canto, il confronto con la letteratura riguardante
Chiaromonte in lingua inglese risulta quanto meno sorprendente. Già nel
1949 Mary McCarthy lo incapsula in un’altra categoria rispetto alla
vulgata italiana: il suo Monteverdi (che impersona Chiaromonte nel
romanzo L’oasi) "era un anarchico”. E la definizione gli resta
attaccata, in alcuni casi con una chiarezza e una determinazione che può
suonare sin troppo marcata: "the italian anarchist Nicola Chiaromonte”,
scrive con sicumera High Wilford nel suo The New York Intellectuals.
Ora, gli americani si sono occupati di Chiaromonte essenzialmente in
relazione alla sua partecipazione all’esperimento di "Politics”, la
rivista fondata da Dwight Macdonald nel 1944, che per un lustro ha
raccolto intorno a sé una varia intellighenzia americana ed europea,
antimarxista, ben conscia del senso del termine totalitarismo (è in
questo ambiente che Hannah Arendt ha concepito e scritto Le origini del
totalitarismo), pronta a elaborare una via verso la società libera
fondata sulla tradizione libertaria. Gli autori di "Politics”
incoraggiano a ripensare la "sinistra” sulla base della riscoperta di
Proudhon, Tolstoj, Herzen, corretti magari da Tocqueville: dal coacervo
di proposte e analisi comparse sulla rivista -opera dello stesso
Macdonald, di Paul Goodman, di Andrea Caffi, di Albert Camus e
ovviamente di Chiaromonte- emerge una particolare variante della
tradizione libertaria, che potremmo definire gradualista, separatista e
"antipolitica”. Una prospettiva in sostanza non molto lontana da quella
elaborata dagli stessi Caffi e Chiaromonte un decennio prima, all’epoca
della loro militanza in Giustizia e Libertà.
E’ opportuno a questo punto comprendere come il termine "anarchismo”
indichi una galassia di credenze, opinioni, idee ed argomentazioni che
troppo spesso vengono riassunte e ridotte sotto l’etichetta di un
rivoluzionarismo comunistico, millenaristico e costruttivistico. Il
percorso dell’anarchismo e più in generale dell’ethos libertario è molto
più variegato di quanto non si pensi e si svolge lungo un arco
intellettual-politico sospeso tra due poli generali di attrazione: da
una parte quello che condivide l’immaginario rivoluzionario e
gnostico-millenaristico della tradizione radicale di sinistra, grosso
modo quella giacobina nata con la Rivoluzione francese, che, in
sostanza, si propone di sostituire l’esistente con un altro mondo,
spesso immaginato in modo del tutto astratto, sovrapponendolo con la
violenza alla rete concreta delle relazioni tra gli uomini nel qui e
nell’ora; dall’altra parte una teoria gradualista che, in una pluralità
di modi e di strumenti (anche in questa tendenza minoritaria abbiamo
assistito a una proliferazione di "scuole”), propugna una sorta di
separazione della parte sana della società dalla parte malata della
stessa e la costituzione di una controsocietà che funzioni
contemporaneamente da modello ideale e da cellula in espansione sul
corpo della società "antica”, che ne sappia cioè eliminare le parti in
putrefazione e conservare quelle ancora feconde. Si tratta di due modi
diversi di intendere non solo il rapporto con l’esistente, ma anche il
rapporto con la politica. Per i primi questa è il mezzo principale
attraverso il quale attuare la rivoluzione rigeneratrice; per i secondi,
invece, è proprio il rifiuto della politica di massa e l’insistenza sul
lifestyle, sulla resistenza passiva, sulla "separazione” a rendersi
mezzo per attuare un cambiamento epocale nelle credenze e nei modi di
pensare ancor prima che nelle istituzioni e nell’economia. E se è vero
che la funzione storica dell’anarchismo nelle convulsioni dell’età
contemporanea ha trovato i suoi punti di forza nell’ideologia
gnostico-escatologica della rivoluzione per via insurrezionale, è
altrettanto vero che, per quanto riguarda l’interpretazione, l’analisi e
la critica degli elementi di illiberalità, di autoritarismo e di
repressione ancora presenti nelle società industriali e
tardo-industriali, molto più fecondi si sono rivelati i gradualisti, i
secessionisti e gli "antipolitici”.
Restando alla superficie del percorso di Chiaromonte, si potrebbe
forse pensare che, come molti altri pensatori della sua generazione, il
nostro abbia superato il suo radicalismo giovanile con una calma
accettazione dell’Occidente con tutti i suoi vizi e difetti. Ma le cose
stanno in altro modo. Chiaromonte resta in sostanza fedele alla via
gradualista e antipolitica accennata negli anni ’30 e pienamente
abbozzata nell’esperienza di "Politics”: ne sono testimonianza
soprattutto gli articoli non antologizzati degli ultimi anni di "Tempo
presente”, a partire dal 1965 circa, quando, a confronto con le nuove
suggestioni che emergono a sinistra, il direttore della rivista presenta
una serie di letture, di ipotesi, di tesi, di opzioni, che rimandano
con una certa chiarezza alla "via” libertaria elaborata decenni prima,
ora contrapposta ai rituali dei sessantottini. E’ in questo senso che
scopriamo un curioso paradosso: lontano dai gruppi libertari
organizzati, dai loro linguaggi, dalle loro pratiche e anche dalla loro
storia, tetragono nei confronti di ogni tentazione rivoluzionaria
insurrezionalista, critico nei confronti dell’ethos costruttivista
radicale, Chiaromonte risulta contemporaneamente il pensatore anarchico
italiano più importante e originale della seconda metà del Novecento
-una volta che del termine anarchia si accetti un’interpretazione ampia e
intellettualmente sofisticata che tenga conto delle differenze tra le
due grandi tendenze sopra descritte- e il meno noto e conosciuto come
tale.
Il percorso di Chiaromonte è scandito in quattro momenti: il suo
periodo di militanza giellista, all’inizio degli anni ’30; la sua
collaborazione, negli anni ’40, durante il suo soggiorno in America, con
"Politics”; la sua attività politico-intellettuale negli anni ’50 e
primi ’60; gli ultimi anni, quelli del confronto critico con il
Sessantotto.
Agli inizi degli anni’30, negli ambienti di GL, Chiaromonte è tra i
primi a proporre una lettura complessiva e articolata del fenomeno
totalitario, riassunta nel lungo saggio La morte si chiama Fascismo,
comparso nel gennaio 1935 nei "Quaderni di Giustizia e Libertà”. Qui le
radici del totalitarismo sono identificate nella concezione della
politica che vede nello Stato il suo punto di riferimento
imprescindibile, con la conseguente critica, prima dello Stato liberale
ottocentesco, poi dello Stato tout court, nonché con il rifiuto della
politica che passa attraverso i partiti di massa tradizionali. L’analisi
tocca tutti i punti caldi della questione totalitarismo -il militarismo
statuale, l’avvento della cultura di massa, il ruolo della violenza
come "levatrice” del progresso storico, e così via- ma di fatto si
inserisce in un dibattito che in quel momento infervora gli animi
all’interno di GL e nel quale si possono identificare due fazioni
abbastanza precise. Da un lato i più tradizionalisti, cioè i sostenitori
di una soluzione liberal-democratica della crisi italiana, secondo i
quali il punto caratterizzante del giellismo -l’applicazione del
principio dell’autonomia a tutte le sfere dell’attività umana- va letto
come la base per una soluzione istituzionale
federalistico-regionalistica del problema della nuova Italia (il
rappresentante più noto di questa tendenza è Emilio Lussu). Dall’altro
lato troviamo il gruppo dei torinesi, che, rimandando a Gobetti e
all’esperienza dei consigli, pensano che il principio dell’autonomia
debba innervare tutta la vita sociale, con la costruzione di uno Stato
"dal basso”, che parta da consigli di fabbrica e consigli comunali e si
articoli con un’organizzazione che resti comunque dipendente dalla
"base”. In sostanza, una democrazia dei consigli che però, proprio per
l’afflato autonomistico, presenta marcati risvolti libertari. Carlo e
Riccardo Levi, Leone Ginzburg e poi lo stesso Carlo Rosselli rivalutano
così esplicitamente la tradizione anarchica: "Dobbiamo creare uno Stato
con i mezzi dell’anarchia”, dichiarano audacemente Carlo Levi e Ginzburg
in un loro intervento a quattro mani, mentre Rosselli, alla fine del
1935, concorda con l’anarchico Berneri sulla necessità di costruire una
società libera sulla base di un’impostazione federalistico-libertaria
dal basso.
Nel confronto Chiaromonte si schiera abbastanza chiaramente con i
torinesi, per lo meno per quanto riguarda la lettura del principio
dell’autonomia. Nel suo Per un movimento internazionale e libertario,
pubblicato nell’agosto del ’33 nei "Quaderni”, dichiara infatti che
Giustizia e Libertà deve trasformarsi in un movimento "più che
antifascista, antitirannico, antistatale”. Ovvero, "un movimento di cui
risultasse chiaro che non è legato a nessun pregiudizio di democratismo
generico, ma sviluppasse e concretasse in orientamenti politici d’ordine
generale i germi vitali insiti nel felicissimo concetto d’autonomia che
rimane il cardine delle rivendicazioni di GL”. Tuttavia, l’analisi si
salda sin da queste prime elaborazioni a una prepotente sfiducia nella
politica di massa e a una sottile critica dell’indirizzo ecumenico e
"omnicomprensivo” che Rosselli tenta di imprimere a GL per farne il
perno decisivo dell’attività rivoluzionaria antifascista.
L’interpretazione del totalitarismo come punto d’arrivo di una tendenza
politica moderna improntata dal connubio tra Stato e massa (condivisa
con Caffi) lo spinge a diffidare di quelle iniziative che non sembrano
sapersi sottrarre a questo paradigma complessivo, comprese quelle della
sinistra rivoluzionaria (che Rosselli vorrebbe inglobare e controllare).
"Nulla sarebbe più necessario quanto la formazione di un centro studi”,
scrive (senza dubbio scandalizzando gli attivisti antifascisti in GL,
nettamente maggioranza), aggiungendo di giudicare necessario "che il
problema dell’antifascismo sia portato dal terreno di una lotta
particolare sul piano della cultura occidentale e dei suoi problemi”.
Nella Franca spiegazione indirizzata a Rosselli nel dicembre del 1935
-in sostanza, l’addio a GL- distinguerà polemicamente tra agire e
agitarsi, rimarcando come l’ecumenico minestrone giellista, pronto a
frullare insieme Garibaldi, Mazzini e Marx, aggiungendovi magari
Malatesta, funzionale solo alla polemica spicciola tra i partitini in
esilio e abbastanza ridicolmente volto a valorizzare sentimentalmente
"facili formule sovversive” e "vecchie memorie del Risorgimento”, sia
fatalmente impreparato a far fronte ai "problemi dello Stato, del
neocapitalismo, dell’Europa e del posto dell’Italia nell’Europa”.
Negli ambienti di "Politics” Chiaromonte troverà così un ambiente
propenso a combinare l’attività di "centro-studi” e quella di propulsore
politico-intellettuale di un cambiamento che rifugga dalla logica
"totalitaria” della rivoluzione. I suggerimenti e le iniziative di
Chiaromonte, principale consigliere e ispiratore di Macdonald, si
innestano di fatto sulla tradizione libertaria americana, che, al
contrario di quella predominante in Europa, sin dal suo incipit ha
valorizzato la dinamica gradualista e secessionista. Con una regolarità
forse sconcertante, e che deve in verità molto alla natura stessa
dell’esperimento americano, sin dalla fine del ’700 (e forse ancora
prima) gli intellettuali americani scoprono (più o meno ogni generazione
e mezzo) nella loro tradizione i fondamenti per pensare una soluzione
libertaria della vita associata: i più arrabbiati antifederalisti
jeffersoniani (1780-1800), gli abolizionisti convinti della "malignità”
di ogni governo (1820-1840), gli sperimentatori bohémien e comunitari di
metà ’800 (dai quali John Stuart Mill prende a prestito la formula
"sovranità dell’individuo” resa famosa nel Saggio sulla libertà), i
critici del nuovo Leviatano emerso dalla Guerra civile (1870-1890), i
radicali deweyani pacifisti, persino gli agguerriti liberisti ultrà
nemici del New Deal, antesignani dei contemporanei anarco-capitalisti.
La rivista di Macdonald costituisce un capitolo di questa strana storia
di scoperte e riscoperte, spesso condotte in modo indipendente l’una
dall’altra.
Nel caso di "Politics” la vicenda si arricchisce però per il decisivo
apporto degli intellettuali stranieri, spesso, come lo stesso
Macdonald, profughi da una forma o l’altra di comunismo o socialismo.
Nel più recente libro sul "gruppo”, Gregory Sumner ascrive grande
rilevanza al ruolo giocato dai libertari europei, ovvero da Chiaromonte,
Caffi e Camus, i quali hanno avuto una funzione molto importante nello
scandire, sulla rivista, i momenti importanti nella maturazione di una
"terza via” libertaria e gradualista. E tuttavia, coloro che l’hanno
meglio colta, dal punto di vista della delineazione della prospettiva
sia sul piano culturale sia sul piano delle indicazioni pratiche, sono
stati, e certo non casualmente, i due anarchici riconosciuti del gruppo,
Paul Goodman e lo stesso Macdonald (quest’ultimo con una professione di
fede dichiarata nel decennio successivo). Nonostante gli europei
abbiano fornito alcuni tasselli essenziali nella logica secessionista
-la critica feroce dello Stato moderno, l’analisi altrettanto feroce
della propensione totalitaria del socialismo "scientifico”, la
valorizzazione dell’utopia, la costruzione di una genealogia libertaria,
il suggerimento (caffiano) dell’azione per "piccoli gruppi”- sono
Goodman e Macdonald a indicare come tali "piccoli gruppi” potrebbero
costituirsi, quali debbano essere le forme dell’interrelazione tra di
loro e con il resto della società, come debba svilupparsi la loro azione
(anti)politica sia al livello comunitario (da loro prediletto) sia al
più ampio livello statuale-istituzionale. I termini usati da Caffi,
Camus, Macdonald, Goodman e lo stesso Chiaromonte per descrivere questi
gruppi e la loro attività -"piccoli gruppi”, "gruppi d’amici”,
"famiglie”, "fratrie”, eccetera- riassumono al meglio la prospettiva
gradualista e secessionista che ispira gli intellettuali di "Politics”.
Gli scritti (sotto forma di "lettere”) che Chiaromonte invia
all’amico Macdonald tra il 1947 e il 1949, quando l’italiano si ritrova
in giro per l’Europa, insistono ancora, e costantemente, su tale punto:
sarà possibile mutare le cose solo e soltanto se si riuscirà a
costituire nutriti gruppi di "fratrie” (nei decenni successivi userà
anche il termine "gruppi coerenti”) disposti a rinunciare al modo
tradizionale in cui viene esercitata l’azione politica e ad avviarsi per
strade nuove, autonome rispetto al paradigma dello Stato moderno.
Tuttavia, è proprio in questo frangente che Chiaromonte si ritrova in un
certo senso costretto a rinunciare all’"utopia”. Il ritorno in Europa è
drammatico. La speranza di poter ricostruire, sulle ceneri di un’Europa
distrutta, un’esperienza libertaria simile a quella che ispira
"Politics” si rivela priva di fondamento: né in Italia né in Francia (e
la delusione di Camus è cocente quanto quella dell’italiano) ci sono le
condizioni per costituire significativi gruppi autonomi disposti ad
adottare una logica gradualista, separatista e "antipolitica”.
E’ in questa delusione che troviamo le radici del Chiaromonte degli
anni ’50, del fustigatore della mentalità comunista e del difensore
dell’Occidente, che ancora oggi sono le categorie in cui viene di solito
inquadrato. Tuttavia, le principali direttive del pensiero
chiaromontiano nel quindicennio 1950-1965 ci permettono ancora di
cogliere, per lo meno in filigrana, la continuità della sua lettura
libertaria della modernità. La sua critica pervicace della società di
massa e la sua feroce disamina del comunismo risultano in questo periodo
strettamente legate: in un certo senso la prima è la vera condizione
storica per l’esistenza del secondo. L’immaginario della sinistra
rivoluzionaria -non solo quella marxista-comunista, ma anche quella
socialista e, per inferenza (vista la sua non-presenza politica), quella
anarco-comunista- è da Chiaromonte scomposto nei suoi elementi
costitutivi: fede nel progresso, mito rivoluzionario, palingenesi
misticheggiante. Tuttavia, si sbaglierebbe a pensare che il co-direttore
di "Tempo presente” sia un acritico sostenitore dell’Occidente nella
sua lotta contro la sinistra rivoluzionaria. Al contrario, nel momento
stesso in cui afferma la necessità di difenderle dal totalitarismo,
Chiaromonte rivendica il diritto di criticare fino in fondo i vizi delle
stesse società (cosiddette) "libere”. I suoi interventi in "Tempo
presente” la dicono lunga sulle modalità della sua adesione ai vari
organismi anticomunisti organizzati in Usa, Francia o Italia. La sua
critica della "democrazia macchinale”, insieme alla sua chiara presa di
posizione sul tema dei rapporti Est-Ovest, ci permette di intravedere il
Nostro ancora alle prese con il tentativo di concettualizzare una
"terza via” praticabile. Non, però, quella "terza via” paracomunista,
organicista e corporativistica che sembra caratterizzare nel periodo
buona parte dei terzaforzisti italiani, che sperano di conciliare senza
tanti problemi un’organizzazione collettivistica della vita economica
con la conservazione delle libertà politiche. La "terza via”
chiaromontiana va in altra direzione: se sarebbe esagerato identificare
la sua scelta per l’Occidente con una scelta decisa e senza condizioni
in favore del mercato, è certo sicuro che la sua polemica anticomunista è
radicata nel rifiuto convinto e inappellabile di ogni tipo di
organizzazione statuale delle attività umane.
Tuttavia, a partire dal 1965, quando il tema della Nuova sinistra
comincia a diventare d’attualità, sia per le agitazioni dei giovani
americani e dei pacifisti inglesi, sia per i tentativi di rinnovamento
in Italia (con i radicali e il Psiup), sia, soprattutto, per l’emergere
della questione giovanile, Chiaromonte torna nuovamente sui suoi passi,
riproponendo, di contro alle ipotesi rivoluzionarie che caratterizzano
sempre più i giovani politicizzati dell’epoca, il recupero della
versione gradualista e secessionista della tradizione libertaria. In un
articolo dedicato alla "Ribellione degli studenti”, Chiaromonte scrive:
"Il rimedio, in verità, se c’è è altrove. E a molto lunga scadenza.
Consiste nella secessione risoluta da una società (o meglio: da uno
stato di cose, giacché "società” implica comunanza e ragione, che sono
precisamente quello che manca, oggi, nella vita collettiva) […]. Da
questa società -da questo stato di cose- bisogna separarsi, compiere
atto pieno di eresia. E separarsi tranquillamente, senza urla né
tumulti, anzi in silenzio e in segreto; non da soli, ma in gruppi, in
‘società’ autentiche le quali si creino una vita il più possibile
indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia
utopistica, nella quale ognuno apprenda anzitutto a governare se stesso e
a condursi giustamente verso gli altri, e ognuno eserciti il proprio
mestiere secondo le norme del mestiere stesso, le quali costituiscono di
per sé il più semplice e rigoroso dei principi morali, e sempre per
natura escludono la frode, la prevaricazione, la ciarlataneria e la fame
di dominio e di possesso. Ciò non significherebbe assentarsi né dalla
vita dei propri simili, né dalla politica in senso serio”.
In questo caso "politica in senso serio” sta per arte della
convivenza tra gli esseri umani. In molti dei saggi scritti nel periodo,
ma anche negli appunti scritti solo nei suoi taccuini, ritroviamo
riconfermata e valorizzata la prospettiva della secessione pacifica. Per
esempio, in un appunto risalente al 1968-69: "Importa essere eretici,
oggi, separati dalla massa, chiusi in cerchie ben definite e tenute
insieme da idee e interessi comuni. Il rapporto di queste cerchie o
gruppi con la società ‘in genere’ e lo Stato dev’essere di distanza, di
partecipazione minima, di scepsi e critica ma non di rivolta. Perché lo
scopo di tali ‘fratrie’ è di ricostituire società giuste, anzi di
ricostruire dalle fondamenta una società, sic et simpliciter. Tali
‘fratrie’ hanno quindi, per cominciare, il compito di stimolare la
società a passare dalla politica intesa come realizzazione di un
assoluto Bene alla morale come misura e limite dell’azione politica,
nonché come distanza da mantenere continuamente fra l’idea di
comportarsi con giustizia verso gli altri e l’azione politica come mezzo
per la realizzazione di una giustizia obiettiva impossibile”.
E’ quindi l’esperienza della gioventù rivoluzionaria a riportare
Chiaromonte alla discussione della tradizione libertaria. Il motivo è
evidente. Nella sua chiave interpretativa, gli eventi e le agitazioni di
quegli anni non solo non mostrano alcun afflato rivoluzionario "vero”
(cioè antitirannico e antistatale, come aveva scritto trentacinque anni
prima), ma sono invece, ancora una volta, la manifestazione della
volontà di dominio, della fede nella violenza "progressiva” che accomuna
destra e sinistra. Nel suo intervento sulla Nuova sinistra, pubblicato
nel numero di settembre-ottobre 1967 di "Tempo presente”, raduna sotto
una singola etichetta la fascinazione dei giovani per personaggi come
Guevara, Castro e Mao e le dichiarazioni programmatiche di alcuni dei
loro leader (in particolare Daniel Cohn-Bendit): "Il culto della potenza
e della violenza che si diffonde, sotto specie di ‘nuova sinistra’. E
con questo, il cerchio dell’involuzione della sinistra europea,
cominciato nel 1914, si chiude”. Per Chiaromonte, che si scontra a volte
in modo verbalmente violento con leader studenteschi piuttosto noti, i
venti del ’68 dimostrano una volta di più, e inconfutabilmente, la
sterilità della scelta rivoluzionaria violenta. Proprio di fronte alla
riemersione in grande stile di tale ipotesi, ecco riacquistare senso il
sottolineare l’altra possibilità, una "terza via” davvero "terza” tra
contendenti che sono di fatto accomunati dal paradigma della fede nella
potenza levatrice della violenza. Nel numero del maggio 1967 di "Tempo
presente” la prospettiva "terza” viene presentata nel modo più esplicito
possibile: "Di fronte alla violenza del potere organizzato, oggi, la
prima cosa è dire ‘no’, e ritrovarsi con i pochi (inevitabilmente pochi)
pronti a dire ‘no’ e a resistere; la seconda è cercare i modi della
resistenza nella direzione del rifiuto d’obbedienza, della resistenza
passiva, del sabotaggio silenzioso, e non sul terreno della violenza,
sul quale si è certi di essere sconfitti; la terza, infine, è di non
cercare il successo rapido e vistoso, ma sapersi ritirare nell’ombra e
preparare lentamente il momento in cui, come diceva Proudhon, ‘le pietre
si solleveranno da sole’”.
Il confronto con i sessantottini riporta quindi a galla
l’impostazione secessionista, antipolitica e gradualistica di
Chiaromonte, che lo colloca con una certa chiarezza -sia pure in modo
paradossale, data la concettualizzazione del suo pensiero che sembra
oggi prevalente- nella tradizione libertaria. Del resto, è proprio
questo paradosso che rende Chiaromonte eccentrico -in senso etimologico-
in tale tradizione: in altri termini, eccentrico e quindi profondamente
originale. In Italia la sua è una prospettiva assolutamente inusuale,
sia in riferimento al prevalente anarchismo nostrano, immerso totalmente
nell’ethos della rivoluzione "levatrice” della storia, sia in
riferimento alle differenti tradizioni liberali, quasi tutte unite,
comunque, sotto la bandiera dello Stato (minimo o massimo che sia). Ed è
forse questo il vero motivo per cui, tra i tanti recuperi che la nostra
affannata sinistra istituzionale ha tentato negli ultimi tre lustri,
non mi sembra sia mai comparso il suo nome. Forse il Chiaromonte
libertario, antipolitico e secessionista, è ancora troppo eretico per
palati che solo da poco hanno maturato il gusto pieno della libertà.
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Il socialismo senza MarxMerlino, 1974Una corsa attraverso la cooperazione di consumo ingleseCassau, 1914Le Società cooperative di produzioneRabbeno, 1915La cooperazione ha introdotto un nuovo principio nell'economia?Gide, 1915La fusione delle cooperative in Francia..., 1915Cooperazione e socialismoMilhaud, 1914Le profezie di FourierGide, 1914I magazzini all'ingrosso della cooperazione di consumo inglese..., 1915Concorrenza e cooperazioneGide, 1914William Morris ed i suoi ideali sociali..., 1914 Vai all'elenco completo
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