Alfabeta - anno IV - n. 38/39 - lug.-ago. 1982

Mensile di informazione culturale Edizioni Cooperativa Intrapresa Via Caposilc. 2 Luglio-Agosto 1982 Numero 38/39 - Anno 4 Lire 3.000 38/39. 20137 Milano Spedizione in abbonamento postale gruppo 111/70 Printed in Italy Clasici: klovkiicontroBachtinR:ablai Cervant .,. Doto v kii/Agamben, Cas--,Vat,imoB: niamin, gg1/ alomé/DonGiovanni/ • L on ti~CortiF, ormnt Porta, Volponi . · eneziaBiennale ann • I ,~ I .t1•♦1 ~~~~<>- ◊- I ,.,o.~ o"" ~'" :,..01 ~~ :o<'· I ....,.::aw· ~t, . .i;if,~•'i-, I ~~~1 ~o~<' .... ~-J- «'"? ~~ IJ .~. ;;:,~ •··o~- I - c.,fl v,<~~Ji! ,i,' .;j~ ,,-,,'1i3 o ~,o~~ 4 • ~~ t-~o I -------------- G. Agamben, C. Cases, G. Vattlmo: Benlamln, -.si * P. Bertettoi Da Cann• 82 F. Leonettl: Il ddo a mortalltà ncalo-le * C. fo. ae1e11t•l C. Ghell: Sonlsl cli 5allu nel chl..tn A. Panlcall: Storia clel •~rio* M. Corti: Pal'igl e MIiano * A. Alllsanl: Tealil ~1 R■llone * Cfr. Testo: V. ildowkQ: Rallelals, Cervantes, Doatoe~ secondo Buchtln (a cura cli M. DISahro) G. Dorfl•: Alliaveno la 40- lllen-8e * G. Ahnansl: Do.i Giovanni * A. Allorm • M. Gl..a: Salòa6 G. Flcara: Rwnzl a venire * A. Covi: Keynes * A. Sm1tosu•10: La conl■■dw A. Porta: La gola * G. Glwatl: I meal della «verità~ * G-1. 111110118111: Una •~J11NUIS1IIN101N1n•o■-l111•• Poesia• F. Leo.-..ttl *Lettere* GlonNile del GlonNil: Due 9-ne •l•c•• Bibliotecag1nob1anl~i11CitJlnl cli A. Mùlas: Dlstnalone nel Ulaano 197~!19• 2 •

Il piacere di leggere BorgesOcampo BioyCasares Antologiadella letteraturafantastica Dalleleggendedell'anticoOrientea Kafka:un illustretriodi scrittoririvisita i miti, lemetaforeI, labirintidi ungenere dalfascinoarcanoe irresistibile. Lire 22.000 JohnHuston Cinquemoglie sessanta film Lememoriedi unodeimaggiorriegisti dellaleggendariHaollywood. Lire 22.000 LillianHellrhan Unadonnasegreta Unafiguraenigmaticanellavita dell'autricedi «Giulia•e «Piccolveolpi•. Lire 6.000 JamesAgee Unamortein famiglia Il capolavordoi unoscrittorecheha lasciatoil segnonellaletteraturae nel cinema mericani. Lire 14.000 ManueVl azqueMz ontalban UndelmoperPepe Carvalho NellaBarcellondaeinostrigiorni,un detectiveallepreseconunInspiegabile omicidio. Lire 10.000 JuanRulfo Il gallod'oro In unMessicopoveroe assolatola storia di un«galleroe• di una«cantadora•. Lire 7.500 • HenryJames L'ahracasa Il memorabilreitrattodi un'«eroina cattiva•. Lire7.800 PaulScheerbart Lesabéndlo Unanuovascopertadellanarrativa mitteleuropea. Lire7.500 JulesVerne Il castellodeiCarpazi L'unicoromanzo«gotico,delfamoso romanzierferancese. Lire 6.000 StepheCn rarie Maggie Unodegliesitipiùalti dellaletteratura americana. Lire 6.000 Editori Riuniti Pubblichiamo le quattordici immagini che nell'ordine esattamente riproposto compongono la sequenza fotografica intera del campo di Te/ El Zaatar, ai margini di Beirut, concentramento e fossa di migliaia di profughi palestinesi, n sterminati nel /976 dall'odio dei cristiani maroniti e dei siriani. Opposte bande che avevano aspettato, per compiere, con maggiore precisione e violenza la loro vendetta fratricida, che Israele scatenasse un'altra delle sue battaglie, rappresaglie o ammonizioni di fuoco intorno a sé: eproprio contro i paesi e le città del Libano colpevoli di accogliere le popolazioni fuggiasche dalla Palestina. Una sola di queste foto può dire la vastità del luogo guastato da quel massacro per sempre sulla terra, la profondità del delitto che continua contro tutti gli uomini. L'insieme della sequenza descrive l'implacabile scena, segnata e lastratacome soglia de~'apocalisse, che si è aperta, ad aspettare, in fondo. Più di molte analisi e teorie storicopolitiche e di tante informazioni e colonne di commenti intorno a quelle battagliee a tutta la guerra d'Israele, riesce a dire la sequenza-teatro di Te/ El Zaatar. Verso quella soluzione finale Israele continua ad andare avanti contro ogni altro intorno a sé, contro ogni vivente che ritiene nemico, con tutta la Sommario Glorpo Apmben, Cesare Cases, Gianni Vattlmo Benjamin, oggi pagina 3 Paolo Bertetto Da Cannes 82 pagina 5 Anna Panlcall Storia del sipario (Il sipario restiruito, a cura di Valerio Morpurgo; I giochi e gli uomini, di Roger Caillois; Il teatro e la città, di Ludovico Zorzi) pagina 8 Antonio Attlsanl Teatri di fissione (Il gatto del Chesire; Lo spettacolo continua, n. 11, 1982; Performing Arts Journal, nn. 14,/5,16) pagina 10 crr. pagine 12-13 Testo Viktor $klovskij Rabelais, Cervantes, Dostoevskij, secondo Bachtin a cura di Maria di Salvo pagine 15-19 Gilio Doifles Attraverso la 40" Biennale pagina 20 Guido Almansi Don Giovanni (A Bibliography of the Don Juan Theme, di A.E. Singer; Le myte de Don Juan, di Jean Rousset; Le scandal du corps parlant, di Shoshana Fe/man; La diabolie, di Claude Reichler; Micromégas, nn. 15-16; La casa dei giochi, di Fausta Garavini) pagina 22 Comaal<Uioneal colaboratori di «Alf'abeta,. Le collaborazionidevono presentare i seguenti requisiti: a) che ogni articolo non sia più di una pagina del giomaJe, ci~ al massimo di 7 canelle di 2000 battute, con un'accettabilità fino a 9-10 canelle (dovendo altrimenti procedere a tagli e rinvii prolungati); b) che il riferimento diretto sui libri indicati in potenza della sua stella e di quella del Pentagono Usa. Le distruzioni e gli assassinii che sta compiendo in queste settimane in Libano sono cosi spietati e inarrestabili che arrivano comunque ali'attenzione di tutti. Intere popolazioni civili vengono schiacciate e trapassate dalla persecuzione contro i palestinesi: i terroristi, ogni cittadino di Palestina vivo e in quanto tale pericoloso nemico. Nessuno può essere nato nella terra d'Israele che 11011 appartenga al suo popolo eletto da Dio e ricondotto in essa dopo duemila anni. Le foto indicano il fondo davanti a cui si trova non tanto l'esercito o il governo, ma tutto intero, quale oggi è, lo stato di Israele. Il suo animo collettivo, lo spirito di un nazionalismo esasperato, di una teocrazia dogmatica e intransigente, la cui denuncia non ha nulla a che fare con l'antisemitismo. E nella fobica brutalità delle proprie azioni, Israele sembra l'ultimo a preoccuparsi de/l'antisemitismo. _Ledeprecazioni umanitarie e anche politiche della opinione e della diplomazia della maggioranza delle nazioni non sono risolutive. Non valgono certo a interrompere il genocidio, perché non arrivano a stigmatizzare lo spirito di totale perfezione che anima e arma questa aggressione, caricandola di tutti Anna Allocca, Manuela Glasi Salomé (Complete Works di Oscar Wilde; Trattato di storia delle religioni, di Mircea Eliade; Le strutrure antropologiche dell'immaginario, di Gi/bert Durand) pagina 24 Toni Covi Keynes (Keynes, monetaristi e sraffiani - Teoria economica. Macroeconomia, di Augusto Graziani; Studi di economia keynesiana, a cura di A. Graziani, C. lmbriani, B. Jossa; L'equilibrio, di Giorgio Lunghini; Sceltepolitiche e teorie economiche in Italia /945-1978, a cura di G. Lunghini; Inediti sulla crisi, di J.M. Keynes) pagina 25 Amedeo Santosuosso La confessione (Report, della Royal Commission on Crimino/ Procedure; Po/ice lnterrogation (I e 2), di BarrieJrving and Linden Hilgendorf; Confessions in crown coun trials, di John Baldwin and Michael McConvi//e; Confessions and the socia/ psychology of coercion, di Edwin D. Driver; The criminal procecution in Eng/and, di Patrick Devin) pagina 27 Giornale del Giornali Due guerre «locali• pagina 30 Finestre Francesco Leonetti Il ciclo a mortalità nazionale pagina 7 Carlo Formenti, Cecilia Ghelli Sorrisi di gatto nei chiostri pagina 9 Maria Corti Parigi e Milano pagina 11 Giorgio Ficara Romanzi a venire pagina 23 Gabriella Giurati I mezzi della «verità• pagina 27 Gianni-Emilio Simonetti Una metafora gastronomica pagina 29 Antonio Porta La gola pagina 29 Poesie Francesco Leonetti pagina 21 apenura (con tutti i dati bibliografici, prezzo e pagine compresi) giunga a una sostanziale valutazione orientativa insieme agli apponi teorici e criteri dell'autore dell'anicolo sul tema; c) che, insieme alla piena leggibilità di tipo espositivo piuttosto che saggistico, sia dato dove~ utile e possibile un cenno di spiegazione o di richiamo ai problemi e agli accenamenti anteriori sull'argomento o sul campo. La maggiore ampie:u.adell'anicolo o il suo carattere non recensivo sono sempre proposti direti taggi e le brame di una guerra santa. Tocca a ciascuno e a tutti sulla terra, per la materiale verità che ciascuno e tutti vi campiamo lastessa vita dei palestinesi, aiutare Israele apensare: indurlo a togliersi da quel vuoto, fermarlo sulla strada che brucia nella propria identità con Dio; ricondurlo aguardare le verità del mondo: anche davanti a-se stesso, nella memoria e nella coscienza delle sue vicende e qualità, valide e preziose per tutti. Dovremmo subito riconoscere e fargli riconoscere in ogni modo, al di là delle alchimie diplomatiche e dei percorsi imposti dalla logica degli schieramenti e delle relazioni internazionali, i popoli e le genti che gli sono intorno e anche quelli nati nella sua terra, con una loro identità di nazione e il loro diritto di patria. Spiegargli come della sua guerra, «divina e monda», approfittino altri per molto meno devoti e appassionati motivi; come i suoi stessi organi oranti e armati siano la lingua e la mano dei progetti e degli esperimenti di altri; prove e collaudi di esplosivi, armi, aerei, attrezzati per la conquista del mondo da parte di un dio diverso e tutto secolare, ridotto esso stesso a quelle micidiali esplosioni. Lettere pagina 28 Immagini Antonia Mulas Supplemento Cacopedia a cura di Umberto Eco Paolo Volponi alfabeta mensile di informazione culturale della cooperativa Alfabeto Comitato di direzione: Nanni Balestrini, Omar Calabrese, Maria Corti, Gino Di Maggio, Umberto Eco, Francesco Leonetti, Antonio Porta, Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi, Mario Spinella, Paolo Volponi Redazione: Carlo Formenti, Vincenzo Bonazza, Maurizio Ferraris, Bruno Trombetti (grafico) Art director Gianni Sassi Edizioni Intrapresa Cooperativa di promozione culturale a r.l. Redazione e amministrazione Via Caposile 2, 20 I 37 Milano Telefono (02) 592684 Coordinatore editoria/e: Giovanni Alibrandi Composizione: GDB fotocomposizione, via Tagliamento 4, Milano, Tel. 53'.12546 Stampa: Rotografica s.r.l. via Massimo Gorki, S. Giuliano Milanese Distribuzione: Messaggerie P~riodici Abbo11ame111a0nnuo L. 25.000 estero L. 30.000 (posta ordinaria) L. 40.000 (posta aerea) Inviare l'importo a: Intrapresa Cooperativa di promozione culturale a r.1. via Caposile 2, 20137 Milano telefono (02)5'.12684, Numeri arretrati Lire 5 .000 Conto Corrente Postale 15431208 Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 342 del 12.'.l.l'.181 Direttore responsabile Leo Paolazzi Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati tamente dalla direzione del giornale, pcrch~ derivano da scelte di lavoro e non da motivi preferenziali o personali. Tutti gli anicoli inviati alla redazione sono esaminati, ma la rivista si compone prevalentemente di collaborazioni su commissione. Il Comitato direttivo N.B. Gli anicoli devono essere inviati in triplice copia. L'autore deve indicare: indirizzo. numero di telefono e codice fiscale. ~ .... > 0 z RonaldD. Laing Nascita dell'esperienza -0.'-"'"s Nascita .-res,eneua I rapporti che legano il disturbo psichico all'esperienz.a della nascita, analizz.ati con la chiarezz.a e il rigore propri delJ'autore de l'io diviso_ Un altro illuminante capitolo dell'avventura intellettuale del fondatore dell'antipsichiatria (i) Oscar Studio Mondadori Ulzillll UIICOPLI MIiano LGu~ Compendio di sociologia (a aira di V. Poca,) pp. 280 L 13500 WA Bonger Criminalità e condizioni economiche (a cura di G.V. Pisapia) pp. 286 L 15000 AA.W. Città, salute mentale, osichiatria. lJn dibattito aula legge 1111 (a cura di A. Mastinu) pp. 150 L 7000 AA. w. Ricerca in labora- 1.1.1 torio e intervento t; nella società e Orientamenti. proepeltlve A. della psicologia In ltalla Q (a cura di M. Cesa-Bianclll) a: pp. 595 L 24000 A. M.W. Recinti, macchine ed altri disegni Spalo • tarrltorlo delle la11tuzlonl Introduzione di Raffaello Cacchi, 61 Hlustrazioni pp. 254 L 12000 Antolne S. Baily Geografia del benessere a cura di M. Clara Zetbi pp. '237 L. 13500 Cesare Mannucci Antisemitismo e Ideologia cristiana sugli ebrei pp. rag L a500 Via A. Bonghl 4, 20141 Mi11n> 181.02/8466502

Il testo ,li Agamben è un estrai/odella relazione svolta dall'Autore al convegno « Walter Beniamin. Tempo storia linguaggio». tenutosi a Modena i giorni 22-24 aprile /982. Gli scritti di Vattimo e Cases sono invece stati stesi appositamellle per Alfabeta su richiesta ,/ella nostra redazione. I L Giorgio Apmben: La tnspuenza deOa lingua L a condizione storica dell'uomo è inseparabile dalla sua condizione di essere parlante ed è iscritta nella modalità stessa del suo accesso al linguaggio, che è originalmente segnata da una scissione. Ma in che modo Benjamin intende questa coesione di lingua e storia, di categorie linguistiche e categorie storiche? In uno scritto del 1916 (// significato dd linguaggio nel Trauer:spiel e nella tragedia), essa è espressa in una folgorante abbreviatura: «La storia,. qui leggiamo «nasce insieme al significato nel linguaggio umano,. (ll,1, 139). In questo scritto, tuttavia, la coesione di lingua e storia non è totale: coincide anzi con una frattura del piano del linguaggio, cioè col decadere della parola (Wort) dalla sua epura vita sentimentale,. (reines Gefùhlsleben ), in cui essa è epuro suono del sentimento,., nella sfera del significato (Bedeutung) (Il, 1, 138): «nel mezzo di questo cammino (verso il puro suono) la natura si vede tradita dal linguaggio, e questa immensa inibizione del sentimento diventa lutto,. (ibid.) Storia e significato si producono, dunque, insieme, ma essi sopravvengono a una condizione per cosi dire preistorica del linguaggio, in cui non vi è ancora la dimensione del significato, ma solo la pura vita sentimentale della parola. Nel saggio Sulla lingua in generale e la lingua degli uomini (1916), la scomposizione del linguaggio in due piani è chiaramente articolata in un mitologema fondato sull'esegesi biblica. Qui. come nel pensiero medievale, il piano originale del linguaggio è quello dei nomi, esemplificato, però, secondo il racconto della Genesi, nella nominazione adamitica. Ciò che Benjamin definisce qui epura lingua,. (reine Sprache) o lingua dei nomi (Namenssprache ), non è. però, in alcun modo ciò che noi, (secondo una concezione sempre più diffusa) siamo abituati a considerare come un linguaggio: cioè la parola significante, come mezzo di una comunicazione che trasmette un messaggio da un soggetto a un altro. Una tale concezione del linguaggio è, anzi, espressamente rifiutata da Benjamin come «concezione borghese della lingua,., la cui «inconsistenza e vacuità» egli intende, appunto, mostrare (11,1,144). Di fronte a questa, la pura lingua dei nomi sta come esempio di una concezione della lingua che «non conosce alcun mezzo, alcun oggetto e alcun destinatario della comunicazione» (ibid.). Il nome, come «più intima essenza del linguaggio stesso,. è ciò «anraverso cui non si comunica più nulla e in cui la lingua comunica ·se stessa assolutamente. Nel nome, l'essenza spirituale che si comunica è la lingua» (ibid.). Per questo, Benjamin può definire ancora il nome come eia lingua della lingua (dove il genitivo non esprime la relazione del mezzo, ma quella del medium)» (ibid.). Lo statuto di questa lingua adamitica è, dunque, quello di una parola che non comunica niente. all'infuori di se stessa, e in cui, pertanto, essenza spirituale e essenza lingui- • ooin. nma o,a Beniamino,ggi Giorgio Agamben, Cesare Cases, Gianni Vauimo Una tale lingua, infatti, non ha un contenuto, non comunica degli oggetti attraverso dei significati, ma è, invece, perfettamente trasparente a se stessa: «Un contenuto della lingua non esiste; come comunicazione, la lingua comunica un essere spirituale, cioè una comunicabilità pura e semplice» (II, I, 145). Per questo non può esistere, nella pura lingua, quel problema dell'indicibile (come «contrasto fra il proferito e il proferibile da una parte e l'indicibile e l'improferito dall'altra,. - II, 1,146 -) che caratterizza il linguaggio umano. Qui la filosofia del linguaggio ha il suo punto di contatto con la religione nel concetto di rivelazione, che non conosce l'indicibile. Il peccato originale, che scaccia l'uomo dal paradiso, è, innanzitutto, la caduta del linguaggio da questa lingua dei nomi insignificante e perfettamente trasparente nella parola significante come mezzo di una comunicazione esteriore: «La parola deve comunicare qualcosa (al di fuori di sé)1t, scriveBenjamin, «questo è il peccato originale dello spirito linguistico... In quanto l'uomo esce dalla pura lingua dei nomi, egli fa della lingua un mezzo (di una conoscenza ad esso inadeguata) e quindi anche, almeno in parte, un mero segno; e ciò ha più tardi come conseguenza la pluralità delle lingue,. (II, I, 153). E ' questa condizione decaduta del linguaggio, sancita dalla confusione babelica delle lingue, che il saggio del 1921 sul Compito del traduttore ci presenta nella prospettiva di una sua redenzione messianica. Qui la molteplicità delle lingue storiche è colta nella sua tensione verso quella pura lingua che il saggio del 19I6 presentava come la loro origine paradisiaca e che appare. ora. come l'inteso unico che ogni lingua, a suo modo, vuole dire. «Ogni parentela sovrastorica delle lingue» scrive Benjamin «consiste in ciò che in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una unica e medesima cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni che si integrano a vicenda: la pura lingua,. (IV,1,13). Questo inteso unico rimane nascosto nelle singole lingue in attesa di affiorare dall'armonia di tutte le lingue in quella che Benjamin definisce eia fine messianica della loro storia». Come la storia tende al suo compimento messianico, cosi il movimento linguistico nel suo complesso tende verso «uno stadio ultimo, definitivo e decisivo di ogni struttura linguistica» (IV,l, 14). Compito del filosofo, come del traduttore, è, infatti, la «descrizione» e il «presentimento,. di quest'unica lingua vera, che cerca di «esporsi• e «costituirsi» nel divenire delle lingue. E, alla fine del saggio, questa pura lingua è descritta nella figura decisiva di una «parola senza espressione,., che si è liberata dal peso e dall'estraneità del senso: «Liberarla da questo senso, fare del simboleggiante il simboleggiato stesso, riottenere al movimento linguistico forgiata la pura lingua, è l'unica e possente capacità della traduzione. In questa pura lingua, che non vuol dire più nulla (nichts mehr meint) e non esprime più nulla (nicht mehr ausdruckt), ma come parola senza espressione e creatrice è l'inteso di tutte le lingue, ogn, comunicazione, ogni senso e ogni intenzione raggiungono una sfera in cui sono destinati ad estinguersi,. (IV,l,19). Come dobbiamo intendere questa «parola inespressiva,., questa pura lingua in cui ogni comunicazione e ogni senso si estinguono? Come pos- .siamo pensare - perché questo e nulla di meno che questo è il compito che si apre a questo punto al pensiéro - una parola che non vuol più dire, che non si destina più al tramandamento storico di un significato? E in che senso questa parola - che avrebbe necessariamente spento la confusione babelica dei linguaggi - potrebbe fornirci il modello di quella lingua universale dell'umanità redenta, che «è immediatamente compresa da tutti gli uomini come la lingua degli uccelli è compresa dai nati di domenica»? Come può, cioè, l'uomo puramente parlare, comprendere la parola senza le mediazione del significato? Tutte le lingue storiche, scrive Benjamin, vogliono dire la pura lingua. Essa è l'inteso (das Gemeinte ), ciò che è voluto dire in ogni lingua; d'altra parte essa stessa non vuol più dire nulla, in essa cessano ogni senso e ogni intenzione. Potremmo dire, cioè, che tutte le lingue vogliono dire la parola che non vuole dire. Cerchiamo di pensare fino in fondo il paradosso di questa formulazione dell'inteso. Benjamin scrive che «in ciascuna lingua presa come tutto è intesa una sola e medesima cosa, che non è tuttavia accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni che si integrano a vicenda» -(IV,1,13). Ciò che resta indicibile e non detto in ogni lingua è, dunque, proprio ciò che essa intende e vuole dire: la pura lingua, la parola inespressiva. Ed è questo permanere non detto dell'inteso che sostiene e fonda la tensione significante delle lingue nel loro divenire storico. Il piano della lingua dei nomi-la cui distinzione dal discorso abbiamo visto inaugurare la coesione di storia e lingua - è l'inteso che le lingue si tramandano senza riuscire mai a portarlo come tale alla parola: esso è. cioè. (in questo modo possiamo ora interpretare il mito biblico della perdita del linguaggio edenico) ciò che destina le lingue molteplici al loro movimento storico. Esse significano, hanno un senso, perché vogliono dire; ma ciò che vogliono dire - la pura lingua - resta in esse non detto. e osi dialettico è il rapporto fra le '.°olteplici_lingue sto_richee il loro inteso umco: per dirlo, esse dovrebbero cessare di volerlo dire, cioè di tramandarsi in significato: ma questo è precisamente ciò che esse non possono fare - a meno di non abolire se stesse-perché è accessibile solo alla totalità delle intenzioni linguistiche, cioè al loro compimento messianico. Per questo Benjamin scrive che «altra soluzione che temporale e provvisoria (all'estraneità delle lingue), una soluzione istantanea e definitiva di questa estraneità resta vietata agli uomini o non è, comunque, perseguibile in modo immediato• (IV,1,14). Ciò non significache ci troviamo qui di fronte a una dialettica infinita. Mediamente (come Benjamin scrive per la religione, «che matura nelle lingue il seme nascosto di una lingua più alta» - ibid.) questo co.mpito è possibile e reale. La lingua universale e senza espressione si «costituisce» e si «espone» nel divenire storico delle lingue. La sua costituzione spegne, però, definitivamente ogni intenzione linguistica e elimina l'indicibile che la destinava al tramandamel)tO storico e alla significazione. In quanto la pura lingua è l'unica che non vuole dire,ma dice, essa è anche l'unica in cui si compie quella «cristallina eliminazione dell'indicibile dal linguaggio,. che Benjamin evoca in una lettera a Buber del luglio I 916 (Br. 127). Essa è veramente eia lingua della lingua»,oehesalva l'intenzione di tutte le lingue e nella cui trasparenza la lingua dice, finalmente, se stessa. (...) In questa perfetta trasparenza della lingua, in cui è venuta meno ogni distinzione fra il piano dei nomi e quello delle parole significanti, fra il voluto dire e il detto, sembra veramente che le lingue - e, con esse, ogni cultura umana, siano giunte alla loro fine messianica. Ma a finire, qui, sono soltanto una determinata concezione della lingua e una determinata concezione della cultura: quelle a cui siamo abituati che fondavano ogni divenire e ogni tramandamento storico sulla immedicabile scissione fra cosa da trasmettere e atto della trasmissione, fra nomi e parole, e garantivano, a questo prezzo, l'infinità e la continuità del processo storico (e linguistico). Contro questa concezione Benjamin si è espresso senza reticenze quando ha scritto che il passato deve essere salvato non tanto dall'oblio o dispregio in cui esso è tenuto, quanto «da un determinato modo della sua tradizione», e che «il modo in cui esso è stimato come un'eredità, è più nefasto di quanto potrebbe esserlo la sua scomparsa». O, ancora, che «la storia della cultura aècresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell'umanità. Ma non le dà le forze di scuoterseli di dosso e quindi di prenderli in mano•. Qui, invece, l'umanità ha preso veramente in mano i suoi «tesori»: la sua lingua e la sua storia, la sua lingua-storia, vorremmo dire. La scissione del piano del linguaggio, che fondava l'inestricabile intreccio di lingua e storia e, nello stesso tempo, garantiva la loro asintotica impossibilità di coincidere, viene meno e lascia ora il posto a una perfetta identità di lingua e storia, di prassi e parola. Per questo la storia universale non conosce più un passato da trasmettere,

ma è il mondo di una «integrale attualità». La lingua qui scompare come categoria autonoma, non è possibile farsene alcuna immagine distinta né imprigionarla in alcuna scrittura: gli uomini non scrivono più la loro lingua, ma la celebrano come una festa senza riti, s'intendono fra loro «come i nati di domenica intendono la lingua degli uccelli». Pensare che cosa sarebbe una comunità umana e una lingua che non rimandassero più ad alcun fondamento indicibile e non si destinassero più a un tramandamento infinito, e in cui le parole non si distinguessero più da ogni altra prassi umana, è certamente un compito arduo. Ma questo e nulla di meno che questo è quanto resta da pensare a un pensiero che voglia veramente essere all'altezza del proprio problema. Forse ciò che abbiamo qui di fronte è qualcosa di cosi semplice, che ci manca il coraggio di pensarlo - quel coraggio, diceva Wittgenstein, che soltanto può pagare il pensiero. Quel coraggio che, alla fine della scienza della logica, spinse Hegel a formulare l'idea assoluta come «la parola originaria, che è un proferimento, ma tale che, come proferimento è immediatamente di nuovo dileguato, mentre è» (...). 2. Gianni VaNimo: Equivoci 11 recente convegno di Modena può davvero rappresentare una tappa importante negli studi benjaminiani; anche e soprattutto nel senso di metter sotto gli occhi di tutti un'esigenza ormai irrimandabile: quella di scanonizzare Benjamin, di toglierlo dall'aura in cui, proprio con l'ausilio dei mezzi di comunicazione di massa, i suoi discepoli e commentatori lo stanno collocando, attribuendogli ogni sorta di sagge posizioni di sintesi tra i pericolosi estremismi del pensiero novecentesco. Di questo processo di canonizzazione è certo un elemento determinante anche il problema degli scritti postumi. Nelle attuali condizioni dell'industria cultural.e, per uno scrittore il Nachlass è tutto. Sul Nachlass si «apre il dibattito», si fanno tesi di laurea, ricerche di archivio possibilmente finanziate da enti pubblici, ghiotte trouvail/es di foglietti dimenticati in vecchie valigie, edizioni critiche a ripetizione; ogni nuova carta pubblicata cambia tutta la prospettiva e stimola nuove discussioni. (In questa «cultura del caso», persino la fortuna di Nietzsche è ricominciata, nigli anni sessanta, a partire dal caso creato dalla edizione degli scritti postumi, prima con Schlechta e poi con Colli-Montinari ...). Quando poi, la stessa opera edita è sufficientemente criptica da permettere ogni genere di acrobazie interpretative, la fortuna dell'autore è fatta ... Scanonizzare non vuol dire avanzare l'ipotesi che l'opera di Benjamin sia tutta un bluff; ma solo tentare di ristabilire proporzioni, distanze, differenze teoriche, tutte cose che possono solo giovare alla comprensione più completa e rispettosa dell'autore. Per esempio: la tesi (se è una tesi, e se possiamo permetterci di schematizzarla molto, qui) della lingua pura dei nomi, la lingua originaria pre-babelica, nella quale, in virtù della potenza ontologico-evocativa dei nomi, si darebbe la verità di là da ogni travisamento, e prima di ogni manipolazione alienante, questa tesi che c'è nel saggio giovanile sulla lingua e riecheggia nella premessa gnoseologica del Dramma barocco, è davvero cosl teoricamente produttiva come i commentatori sembrano credere? Essa viene spesso più o meno esplicitamente accostata - e accreditata. mediarite tale accostamento - a Heidegger e alla sua critica del linguaggio ridotto - nell'epoca della metafisica - a strumento della manipolazione tecnologica dell'ente. Ma proprio questo accostamento dovrebbe in realtà richiamare l'attenzione sull'enorme dif- B 1t1nzt':JJeet'è!yi1a chulJi le due posizioni: l'ontologia ermeneutica heideggeriana e la sua filosofia del linguaggio dà luogo a conseguenze teoriche rilevantissime (né più né meno che la dissoluzione della nozione di essere tramandata dalla metafisica), e può entrare in un dialogo produttivo con la riflessione sul linguaggio di impostazione analitica e di derivazione wittgensteiniana; insomma, tutto un articolato sviluppo di elaborazioni teoriche dense di implicazioni. Si può dire lo stesso, o qualcosa di simile, del pathos benjaminiano per la lingua originaria? Il problema degli equivoci accostamenti di Benjamin e Heidegger è forse solo la spia degli equivoci nei quali si avviluppa la sua collocazione, in funzione solutiva, entro la filosofia contemporanea; rispetto ai cui problemi il pensiero di Benjamin sembra avere un significato tutto sommato limitato, almeno se si ammette che esso ha due tratti fondamentali che lo legano proprio al mondo concettuale rispetto a cui la filosofia di oggi - e anche quella alle cui tematiche Benjamin viene considerato, erroneamente, affine (come è il caso di Heidegger) - ha inteso prendere le distanze. (Non è questo, occorre ripeterlo, un giudizio di valore fondato sull'assunzione storicistica che bisogna essere al passo con la filosofia odierna; è solo un invito a non dimenticare le differenze, creando confusioni inutili.) Questi due tratti sono: I) il neokantismo, cioè la filosofia delle università tedesche del primo novecento, entro il cui ambito il linguaggio concettuale di Benjamin, sebbene spesso travestito in modi fantasmagorico-mistici, rientra abbastanza chiaramente: così si farebbe bene a leggere anzitutto in riferimento al neokantismo termini come quello di idea e quello, correlato, di costellazione, che troppo spesso gli interpreti caricano di eccessive risonanze esoteriche. È un neokantismo profondamente segnato dalle frequentazioni mistiche e cabalistiche di Benjamin; ma ciò aggiunge solo al tutto un pathos per l'originario che, per restare a Heidegger a cui cosl spesso questo aspetto di Benjamin è avvicinato, non può non apparire che una versione ancora più «compromessa» con la metafisica dell'interesse neokantiano per la fondazione. 2) Il materialismo storico e la diak·ttica materialistica. È su questo, soprattutto, che si appunta l'interesse dei tanti orfani di Marx e di Gramsci, che vedono in Benjamin una possibilità di salvare la dialettica dalla (meritata) liquidazione a cui va incontro nel pensiero contemporaneo. Anche qui, però, bisogn~ rispondere a una semplice domanda: che cosa c'è in Benjamin che permetta una reinterpretazione della nozione di dialettica tale da ridarle forza· teorica? Ci sono in lui elementi risolutivi che non siano stati già ripresi ed elaborati per esempio da Adorno? (Non mi pare che la risposta a questa domanda possa venire da quel suggetivo scritto che sono le Tesi di filosofia della storia, nelle quali il materialismo storico crede di aver preso al proprio servizio la teologia ma alla fine risulta piuttosto esso stesso asservito a quella, con esiti certo stimolanti, ma proprio perché estremamente contraddittori, niente affatto riportabili a un'immagine canonica di Benjamin come aurea linea di mezzo, saggia sintesi, ecc. ecc.). Naturale che queste domande non esauriscono la mostruosa ricchezza degli scritti di Benjamin, quella che spiega e giustifica - di là da ogni gioco della moda - la sua permanente presenza nella nostra cultura. Ma quelle a cui si sente sempre il bisogno di tornare sono piuttosto le sue analisi particolari, le visioni che offre della coscienza moderna e tardo-moderna, il suo Baudelaire, insomma ... Proprio tutte quelle pagine in cui non è pensatore sistematico,canonizzabile, ma saggista e acrobata. 3. Cesare Cases: Imparare dal nemico N iente di più ovvio che a un congresso su Benjamin si tenesse il tempo in non gran cale. In pratica relazioni e interventi duravano quanto si voleva, proprio come se una squadra di operai benjaminiani avesse sparato su tutti gli orologi di Modena e fatto tacere le campane della Ghirlandina. L'unica eccezione - qualcuno evidentemente aveva un orologio sfuggito al massacro- fu fatta per Barbara Kleiner, ammonita il secondo giorno dopo aver parlato per non più di un quarto d'ora. Eppure sostituiva un relatore assente, Giacomo Marranrao. e avrebbe ~yuto il diritto di parlare più a lungo che per un semplice intervento. Ma aveva fatto la parte del guastafeste, dell'omino gobbo della canzone cara a Benjamin (anche se in questo caso l'omino gobbo era una bella signora dritta). Non so che cosa avrebbe detto Marramao, che doveva parlare dei rapporti tra Benjamin e Cari Schmitt. La Kleiner accennò brevemente all'argomento ma ne approfittò per criticare energicamente l'atmosfera del congresso. È verissimo- disse all'incircache Benjamin scrisse una lettera pressoché entusiastica a Schmitt e mostrò molto interesse per Ludwig Klages e C.G. Jung, ma questo rientrava nella sua strategia di «imparare dal nemico» (come diceva Brecht) e non cancellava affatto i confini. Quanto a Heidegger, che a Modena era quasi sempre associato e talora indiscernibile da lui, la Kleiner ricordò che Benjamin non l'aveva mai stimato nè come uomo nè come pensatore. Non era-nemmeno un nemico da cui impar~e. In effetti Benjamin e Brecht furono tra i pochi uomini di sinistra che rifiutarono di sottoscrivere la condanna globale del pensiero e dell'arte di destra (al polo opposto sta LukAcs), il primo certo in misura molto maggiore dell'amico, perché la sua teoria del- !' «agente segreto», escogitata per Baudelaire, gli permetteva di accettare molti scrittori, da Baudelaire stesso a Kafka, che Brecht giudicava scarsamente o per nulla «utilizzabili». Sono note le discussioni a Svendborg in proposito. Il limite poteva essere spostato diversamente, ma a un certo punto era eguale per entrambi, che non a caso ventilarono insieme qualche cosa per «fare a pezzi» Heidegger (lettera a Scholem del 25.4.1930: la data è importante perché mostra che non può ancora trattarsi di animosità politica). Ancora il 20.6. I 938 Benjamin si lamentava con Gretel Adorno della «miseria della produzione ortodossa» comunista citando l'esempio di un numero della moscovita/nrernarionale Lirerarur in cui lui, per una parte del saggio sulle Affinirà elenive, «figurava come seguace di Heidegger». Sarebbe interessante andare a vedere chi era questo audace precursore. La sua voce andò perduta in quelli che Enrico Filippini anche in questa occasione (la Repubblica, n .4.1981) chiama «i tetri anni Cinquanta» e negli anni seguenti, di «perdurante terrore nei confronti dell'irrazionalismo». EJ lecito infischiarsi dell'autocoscienza di Benjarnin e appaiarlo sotto certi aspetti a Heidegger? Direi proprio di sì, specie se ci si ricorda che il secondo, benché di tre anni più vecchio del primo, grazie alla sua robusta complessione sveva (la menzione di altri motivi ci ripiomberebbe nei tetri anni Cinquanta) gli sopravvisse di trentasei anni, continuando a pensare. Dopo tutto le plateali ingiurie di Scbopenhauer contro Hegel non banno impedito per esempio a Horkheimer di amare e utilizzare entrambi. È questo il diritto dei filosofo, di cui fa uso Giorgio Agamben nel suo recente libro-seminario// linguaggio e la mone (Einaudi}, dove peraltro Benjamin è citato salvo errore una volta sola mentre nella relazione modenese dello stesso Agamben gli sono sostanzialmente attribuite le tesi del libro, e cioè l'identificazione della negatività con il principio ontologico alla base della metafisica occidentale e la necessità di «togliere» questa negatività e di instaurare un linguaggio che non ne sia inficiato. L'acume speculativo di Agamben può servirsi di Benjamin e di Heidegger come di Gaunilone e di Hegel. Il filosofo piglia il suo bene dove lo trova, anche se i conti filologicamente non dovessero sempre tornare al centesimo. Ma sarebbe pensabile anche un'indagine filologica delle divergenze e convergenze tra Heidegger e Benjamin, simile a quella recentemente compiuta da Hermann MOrchen per i rapporti (in vita certamente duramente antitetici) tra Heidegger e Adorno. Quello che meraviglia è che, invece di studiare opposizioni e convergenze in modo problematico, ci si trovi in un ambiente da foto di famiglia in cui, quando si parla dell'avversione di Benjamin per Heidegger (come fece onestamente una volta Ferruccio Masini nella discussione), lo si fa nel tono in cui si ricorda la nota antipatia del nonno Aristide per la prozia Carolina, che ci interessa solo come pettegolezzo storico perché in fondo, si sa, erano fratelli e i nipotini vanno tutti d'accordo. È davvero così? Forse sì, ma non so ce ci sia da rallegrarsene. Torniamo ai tetri anni Cinquanta o ai primi Sessanta, quando uscì Angelus 11ovus con l'introduzione di Solmi, che presentava Benjamin in Italia. Per tre quarti penso che essa sia ancora accettabile per i convenuti di Modena. Solmi era stato un po' intimidito dal «perdurante terrore nei confronti dell'irrazionalismo», ma certamente lo guardava in faccia e non esitava a riconoscere, a proposito dell' «unità messianica della storia», che •anche qui, come già nella teoria del linguaggio, certe formulazioni possono far pensare a quelle non del tutto dissimili (anche se tanto più astruse e mistificate) di un Heideggen. Perfino la parentesi è riecheggiata a Modena in un intervento di Fabrizio Desideri, che voleva differenziarsi dall'equiparazione dei due anche nell'ermeneutica linguistica. Ma se Benjamin secondo Solmi era come Heidegger •analogamente in polemica con lo storicismo tradizionale, analogamente inteso a affermare, contro il 'tempo meccanico' dello storicismo, una 'temporalità estatico-orizzontale' emergente dalla storia», tuttavia in lui il nichilismo «non si presenta più, come nell'irrazionalismo 'classico', come u,na polemica contro la storia (in nome del singolo, del nulla o dell'eterno ritorno); ma sembra ritrovare nella storia stessa, nella sua attualità più urgente e immediata, la sua dimensione trascendente e messianica». Il rimprovero che qui Solmi muove a Benjamin è di lasciare a questo punto «oscuramente intrecciate» «prospettiva storica e prospettiva religiosa», sicché «la rivelazione del contenuto storico dell'angoscia, anziché risolversi in una prospettiva puramente umana, sembra trovare conferma ... nel suo oggetto reale». Inversamente la spe- ::

ranza, eia fuoriuscita dal capitalismo, il conseguimento della pace, si configura ... ancora nelle luci e nei colori di una salvezza religiosa•. Non è un caso che qui appaia ripetutamente la parola e prospettiva• cara a Luk:!cs, che viene spesso citato come critico di Benjamin e oppositore del1'calternativa estrema e catastrofica• di costui. Era Lukiics (e non qualche comitato centrale} a dare una tiratina d'orecchi agli entusiasmi di Solmi richiamandolo all'hegelismo (mentre nella mia rapida prefazione all'Opera d'arte di quattro anni più tardi io seguivo il cammino inverso staccandomi dal luk:!csismo). Solmi avrebbe potuto reagire meglioalla tiratina se avesse potuto conoscere saggi come quello su Eduard Fuchs o L'autore come produttore che Adorno e sua moglie avevano espunto dalla loro scelta e che contengono indicazioni più concrete per un manismo non hegeliano e non luk:!csiano. Ma dove c'era una cprospettiva• plausibile? Solmi, che era vicino al gruppo di Ragionamenti e non certo tenero con l'Urss, faceva capire che possibilità di un'evoluzione positiva c'erano, nonostante tutto, nei paesi socialisti, e in nota dava una ramanzina a Ernst Bloch perché con il suo messianismo allontanava dal compito P roduzioni americane, divi, film del terzo e quarto mondo (cinematografico), champagne press conferences e cinema politico, marginali senza avvenire e uno smisurato mercato di compravendita di film di tutti i tipi, dal pomo-soft a One [rom the hearth, ultima prodezza elettronica di Coppola, proiezioni che si accavallano a ritmi impossibili e la solita scortesia dei bureaux dell'organizzazione: Cannes resta sempre il più grande Festival del mondo, anche se gli americani lo considerano soltanto un trampolino per i loro film anomali (difficili o di registi europei o di sicuro insuccesso nel circuito Usa), e se la pletora dei film in programma abbassa complessivamente il livello medio delle proiezioni. Ma, in compenso, c'è tutto: dai nuovi registi per cinefili ai grandi del cinema europeo, dai mostri sacri del cinema differente a Jack Lemmon, da Gabriel Garcia Marquez alle rappresentanze delle cinematografie periferiche. Una volta i filmdifficili e poveri erano la chicca dei festival decentrati. per lzappy fews. Adesso Cannes piglia tutto e per un qualsiasi regista marginale la presentazione a Cannes vale dieci festival minori. Venezia è lontana, non può più competere con Cannes: il suo posto è nel novero dei festival di serie B accanto al Berlin lnternational Film Festival, insidiata persino dal Festival mo11stre di Manila. Cannes invece è un'altra cosa, e anche il cosiddetto cambiamento mitterrandiano non si sente troppo, se non, forse. nella distribuzione dei premi. E qui cominciano, è ovvio, le dolenti note (e, d'altra parte, i premi per cosa sono assegnati, se non per fare discutere?): perché la giuria nell'attribuzione dei premi non solo ha, come quasi sempre, risposto anche a esigenze di politica culturale e di rapporti di potere, ma, insieme, ha riflettuto anche i limiti di gusto cinematografico e di livello culturale di molti dei suoi componenti (a cominciare da Strehler e da Suso Cecchi D'Amico, supporto pressoché costante di tutte le avventure Kitsch di Visconti). Così i film più belli del Festival (Fitzcarraldo, Moonligh1ing, Hammell} si sono dovuti accontentare di premi di consolazione o sono addirittura andati casa a mani ,vuote( hanno avuioa di analizzare una società che non doveva cessere vagheggiata o travestita in immagini utopistiche•, bensì cessere oggettivamente conosciuta nelle sue contraddizioni e nelle sue leggi•. Illusioni, certamente, anche se allora condivise da molti. Tuttavia il tramonto di queste illusioni aggrava e non attenua il problema segnalato da Solmi, che proprio perché condivideva la polemica benjaminiana contro il futuro garantito dalla locomotiva della storia e l'esigenza del suo arresto e anche dell'inversione messianica (almeno come legittima «figura» dell'antitesi all'orrore del presente}, sottolineava la necessità di trovare un nesso tra questi postulati e la prassi rivoluzionaria. O ra non solo l'attuale benjaminismo italiano non cerca questo nesso, ma vive proprio dell'equivoco denunciato da Solmi per cui prospettiva storica e religiosa restano coscuramente intrecciate• e una volta sistemate le categorie del tempo si sistemerebbe anche la storia. Se si prescinde da Agamben, che anche nella più compiaciuta stratosfera speculativa fa vibrare il senso di una morte non letteraria e rimanda all'utopia la coincidenza di parola e prassi, Benjamin sembra avallare la generale euforia che, non si sa come, ha colto gli intellettuali italiani. Se gli anni Cinquanta erano spaventosamente tetri, gli Ottanta sono spaventosamente ilari. A Modena allegramente si distruggeva e si costruiva in quasi tutte le relazioni. In quella più simpatica, di Liliana Rampello, si distruggeva e si costruiva la «traccia•. in un sincretismo che mobilitava tutti i meglio libri, i meglio film e i meglio dischi, e che per questo fu contestata da un giovane. A torto, poiché tale sincretismo sembra rinettere pienamente l'attuale funzione di Benjamin. Sia lecito invece ricordare che il Benjamin storico fu quanto mai incline alla parzialità, all'unilateralità e alle idiosincrasie. Non si tratta solo di Heidegger, nè di discriminanti ideologicopolitiche. Quando usci nell'edizione critica il volume delle recensioni, Marce! Reich-Ranicki scrisse sulla Zeit una violenta stroncatura facendo una lista delle grandi omissioni dell'autore, che aveva completamente ignorato Roth, Musi), Thomas Mann, Broch e cento altri. Reich-Ranicki è un critico un po' filisteo che non capiva che a Benjamin interessavano le tendenze e non le graduatorie di valore. Anche in letteratura, egli aveva l'ingiustizia del combattente, che spesso approda a opzioni poco perspicue o addirittura irrazionali. Lo si potrebbe giustificare con la teoria dell'amico/nemico di Cari Schmitt, invece proprio da quando è caduto nelle mani degli ammiratori di quest'ultimo Benjamin non ha più altro che amici. Ciò non gli ha fatto perdere l'aggressività. A Modena si distruggeva e si costruiva grazie alle «forze dell'ebrezza• che secondo il saggio sul surrealismo bisogna «conquistare per la rivoluzione». Masini vi tenne sopra la sua relazione (che purtroppo non potei ascoltare) ma anche un uomo cosl sobrio come Remo Bodei finl inneggiando allo sforzo di «congiungere le potenze arcaiche del mito e dell'ebbrezza alla ragione», sia pure escludendo che l'ebbrezza sia «invasamento bacchico e scomposto». Niente da obiettare a questo ideale di una conciliazione tra la ragione e una decorosa ebbrezza, che aleggia in tutto il pensiero contemporaneo. Solo che nel presente se ne vedono scarse tracce. A Modena non c'era la rivoluzione, ma per verità neanche l'ebbrezza, salvo quella del compiacimento per la propria dottrina, sottigliezza, capacità di parlare il medesimo linguaggio incomprensibile ai più. Insomma, un congresso come gli altri, con la noia di dover tornare a casa magari solo per DaCannes82 l'onore di premi importanti due film assolutamente minori come La Noi/e di S. Lorenzo e ldenlificazione di una donna. In confronto Missing (di Costa Gavras) e Yo/ (del turco Giiney) sono film di alta professionalità e di sicuro effetto, che attestano una maturità piena di linguaggio all'interno di opzioni precise (e magari discutibili) di poetica. Missing dimostra adeguatamente come si fa un film di genere politico. Riferimenti precisi a eventi importanti della situazione opierna (e non vagolanti ricerche sulla preistoria o su epiPaolo Bertetto sodi minimi della storia del movimento operaio), azione drammatica compatta e serrata, perfetto concatenamento narrativo, poco o nessuno spazio a inutili e schematiche (sempre) discussioni ideologiche, individuazione di una storia personale e particolare all'interno di un grande affresco sociale, costruzione sapiente del pathos e dell'orrore necessario attraverso un'alternanza studiata di componenti diverse. impressione di autenticità dei fatti (sia Zeta che Missing sono basati su storie vere): in più Costa Gavras ci mette la sua propcn~ionc per la struttura del giallo, organizzando il film attorno alla ricerca di una verità che in parte è nascosta in parte è conosciuta o prevista dallo spettatore. Certo Missing farà storcere il naso a tutti i puristi di un cinema politico asfittico e iperrivoluzionario, ma è infinitamente più avanti delle diatribe sull'impossibile ideologico e sui progetti del cinema politico degli Anni 60 e 70 (come è più indietro del grande cinema fantasmagorico o di ricerca): Costa Gavras ha compreso pienamente la complessità dei meccanismi spettacolari e il feed-back prodotto dalla matupochi giorni. Perché non si fa tutto in una volta? Perché alla fine non c'è un bel pullmann che ci porta tutti, relatori e no, dal congresso su Benjamin a quelli su Nietzsche, su Heidegger, su Cari Schmitt, su Klages, su Céline, su Musi!, su Hesse ecc. ecc., fossero o meno amati da Benjamin? Sarebbe un po' faticoso, anche perché di notte bisognerebbe fare i piccoli rimaneggiamenti necessari per adattare le relazioni e gli interventi (sempre sul tempo, la distruzione e la costruzione ecc.), ma almeno si potrebbe dimostrare definitivamente che tutto è lo stesso, come quando col telecomando si passa da un film all'altro scoprendo che sono tutti uguali. La fatica si supererebbe con l'ebbrezza rivoluzionaria, bevendo un'«ombra• di esaltazione intellettuale in ogni città in cui si va migrando, come i veneziani che procedono di bar in bar. I congressi sono le osterie dello spirito, dove ci stordiamo per non vedere quel che succede nel mondo extracongressuale, in cui sarebbe forse meglio non tornare mai. A questo punto anch'io ho le gambe malferme e non ho idee chiare su Benjamin, ma mi pare proprio di ricordare che non fosse questo che voleva. ra civiltà dell'immagine e lavora sulla qualità specifica patetico-estatica (come diceva Ejzenstejn) e fascinativa della comunicazione cinematografica e non sull'asfissia eteronomica dell'ideologico. In confronto ai militari fascisti cileni di Costa Gavras i fascistelli imberbi dei Taviani che arretrano davanti a una bambina sono povere cose di un'altra epoca, cascami di un epigonismo senza più forza. E i film italiani, infatti, nonostante la consueta diga difensiva innalzata in omaggio allo sciovinismo di sempre dai critici dei quotidiani, sono davvero poca cosa. Se i Taviani piacciono un po' anche all'estero è solo perché Il si coglie la loro diversità rispetto al cinema europeo e americano e non, come possiamo fare noi, la loro omogeneità alla subcultura postresistenziale italiana e allo stile sceneggiato televisivo su Don Minzoni. Mentre Herzog arriva a Cannes con un'avventura visionaria in Amazzonia. i Taviani, prudenti e conservatori come sempre, sono appena usciti di casa. La Notte di S. Lorenzo è fatto sempre li, nello stesso triangolo delle passeggiate domenicali, tra S. Miniato e la campagna circostante, giusto nei posti della loro infanzia. E visto che gli sforzi di parlare dell'oggi avevano ottenuto risultati penosi (si pensi a quella parodia involontaria della crisi che era// prato), ritornano alla beneamata storia, che un cantuccio accogliente e facile facile lo assicura sempre. Tanto per essere originali fanno un film sulla guerra. il fascismo e la resistenza, perché sono convinti della loro attualità (?) S i dirà: non è un problema di contenuti, ma di modi di realizzazione. E invece non è cosi semplice. Perché un autore è responsabile in primo luogo dell'immaginario che propone e l'immaginario dei Taviani diventa sempre più asfittico e ripetitivo, dominato dall'aria di chiuso, dalla puzza dell'aria stagnante: solo variazioni continue su argomenti da Calendario del Popolo, misere esercitazioni sulla coscienza (cattiva e non) di sinistra. Mescolanza di ricostruzione storica e di inserti favolistici, di punti di vista 'popolari' c di piattezze naturalistiche, La Noue di S. Lorenzo conferma l'impressione che la falsa ingenuità del popolaresco è uno dei registri

espressivi più finti e intollerabili. . Intollerabile è anche Identificazione di una donna, l'ultimo film di Antoniani: senile e obsoleto, come certo non ci si attendeva, è l'opera di un regista che cerca disperatamente agganci con il mondo contemporaneo e annaspa in un acquaio di approssimazioni e di chiacchiere, sino ad annegare nel poco che sa. 11film sembra percorso da un perverso spirito autodistruttivo e autoparodico, che rivolge la ricerca filmica di Antonioni in surrogati un po' ridicoli e un po' penosi: affiorano in forme macroscopiche tutte le debolezze che nelle sue opere più significative erano già presenti, ma venivano maggiormente controllate e spesso oltrepassate. I dialoghi sono, naturalmente, efferati (l'accoppiata Antonioni-Tonino Guerra colpisce sempre) e le sequenze erotiche (con tanti particolari di piedi, mani e muro) non perdonano. Di fronte alla pochezza di Antonioni e dei Taviani, persino Scola (li mondo nuovo) riesce a non sfigurare con il suo cinema medio e il suo film è certo meno irritante degli altri (e infatti non è stato premiato): sfrutta il credito (immeritato) di cui gode in Francia per mettere insieme finanziamenti francesi per una storia francese per eccellenza'(la fuga di Luigi XVI a Varennes), con un riferimento al cambiamento mitterrandiano e un po' di commedia all'italiana, una dovizia di attori internazionali di vaglio e un'idea (non brutta) di Amidei, una ricostruzione storica ilssai accurata e un'intreccio improbabile ma spettacolare di personaggi ovvi (Casanova) e meno ovvi (Restif de la Bretonne e Thomas Paine). Peccato che il didàscalismo programmatico e una deformazione mentale ideologica (tutta italiana) spingano poi Scola ad appesantire l'azione con lunghi dialoghi informativi, con discussioni che sintetizzano nello spirito del Bignami posizioni politiche e impressioni di costume, e con personaggi che affidano il loro spessore narrativo più alla presunta esemplarità sociologica che all'azione scenica. Non meglio ha fatto Peter Del Monte, il giovane meno giovane rilanciato l'anno scorso a Venezia con Piso Pisello, che tenta di fare (con lnvitation au voyage) un film un po' à la page e mescola insieme il viaggio (tanto per fare il verso a Wenders e al mito del nomadismo) e il rock, l'incesto e la crisi. Poi condisce il tutto con i luoghi comuni più sballati della sua generazione: i furti all'autogrill, la signora che vaga in preda a problemi di identità e si concede al primo venuto, una manciata di ragazzini sui pattini a rotelle, gli sguardi nel vuoto e u·n vecchietto stranito che salta fuori come da una scatola a sorpresa. L'effetto è deplorevole. Eppure Del Monte è stato presentato ufficialmente nella mediocre selezione francese e preferito a Rohmer e a Chabrol. Cosi le esperienze di punta del Fe- . stivai sono emerse, ancora una volta. all'interno delle generazioni che hanno fatto il nuovo cinema europeo degli Anni 60 e 70, e in primis nella grande vague del cinema tedesco, che ha confermato rigore profondo e grandi capacità immaginative anche nel difficil~ passaggio da un cinema marginale e povero a budget, strutture produttive e impegni ben più consistenti. Herzog e Wenders hanno dimostrato che la loro ricerca non è ancorata a modelli di cinema differente, ma può confrontarsi con piena maturità con strutture linguistiche spettacolari molto più complesse. 1n particolare Herzog ha realizzato un'operazione di sintesi spericolata tra l'avventura (in un immaginario fortemente innovativo ed estremamente determinato) e la produzione di una struttura spettaco- • lare perfettamente calibrata e non estranea alla tradizione del grande cinema hollywoodiano. I n una stagione dominata da ricalchi manieristici (spesso di notevole interesse) e ripetizioni involontari~ le», trasforma la realizzazione di un film in un itinerario sperimentale nel pericolo, in un evento mitico che dà la consistenza del linguaggio spettacolare a un delirio soggettivo, a un sogno. Il film non è infatti soltanto la narrazione del sogno e della sfida insensata (ma vittoriosa) del protagonista Brian Sweeney Fitzgerald (Fitzcarraldo ), ma è ancor più un'avventura nell'impossibile dell'Amazzonia, uno scontro violento con l'inospitalità del luogo, le difficoltà dei rapporti con gli indigeni, la scarsa resistenza ai disagi degli attori prescelti (Jason Robards, Mario Adorf e un Mick Jagger evanescente, per quanto si può giudicare da un bel documentario sulla realizzazione di Fitzcarraldo, Burde11 of the Dreams) e la stessa estrema problematicità di alcune sequenze. Herzog, d'altra parte, non è nuovo ad imprese epiche, a esperienze dirette di pericolo. La sua è in fondo un'idea di cinema come confronto con il pericolo, assunzione del rischio, messa in gioco dell'autore: un'ipotesi di ricostituzione di una condizione eroica della creatività, vissuta non più in senso trasgressivo, ma come apertura di una contesa radicale e coraggiosa con il mondo circostante. L'esempio più significativo è il documentario realizzato a rischio della vita nell'imminenza dell'esplosione del vulcano La Soufrière nella Guadalupa. Ma la prova di Fitzcarraldo, «film contro natura», come dice Herzog, non è da meno. Brian Sweeny Fitzcarraldo vuol portare la grande opera lirica e il mitico Caruso fin nei recessi dell'Amazzonia, a lquitos e per realizzare questo obiettivo acquista un territorio di alberi della gomma, impervio e sperduto, al di là di rapide impraticabili e di territori abitati dagli indios Jivaros, cacciatori di teste. Per arrivare sino.al proprio terreno è costretto a sfidare l'impossibile ed a far passare una nave oltre una collina, avvalendosi della collaborazione inattesa ed enigmatica degli stessi minacciosi Jivaros. Lo scavalcamento della collina da parte della nave è il momento di massima tensione del film, non solo per la fatica e l'abilità in termini di ingegneria primitiva che implica, ma anche per il back ground mitico delle componenti che entrano in gioco: da un lato trascinare una nave su una salita impervia è un'impresa contro natu- (di minore interesse) Herzog fa con Fitzcarraldo una •~da all'imotb,-a lCO ra, un assalto al ciclo che viola le regole del gioco e vi introduce un elemento di follia, di immaginazione visionaria e delirante; dall'altro la collaborazione apparentemente immotivata e certo imprevedibile degli indios Jivaros nello sforzo immane e la loro presenza ambigua e minacciosa, di fatto benefica ma potenzialmente mortifera, costituisce un altro elemento di enigmaticità e di epos nell'azione. E proprio la fusione dell'epico e del visionario è quanto costituisce la forza estrema del film ed il suo carattere di novità e di indicazione prospettica per l'immaginario cinematografico. La sequenza della nave che risale nella foresta vergine il rio Pachitea, diffondendo a tutto volume da un vecchio grammofono la musica di Verdi interpretata da Caruso, ha un'intensità e una carica di emozionalità pura di altissimo livello. Non è solo un'esperienza di delirio fantasmagorico, fuori dalle logiche diffuse, ma è anche una sorta di sogno di un controllo delle forze misteriose e potentissime della natura attraverso il semplice ricorso alla bellezza prodotta dall'uomo, a quel residuo apparentemente improduttivo della civilizzazione che è l'emergenza artistica. È un'idea insieme di funzionalità epica e di forza fascinativa dell'estetico, che appare, nell'universo mentale contemporaneo, come un'indicazione dissonante e follemente intensa. Il film di Wenders, al contrario, rappresenta una ricerca su un settore dell'immaginario collettivo prodotto dai media, una sorta di visitazione del mondo della detective story che progetta di andar oltre la semplice ritessitura dei temi o il ricalco manieristico, per diventare un'indagine sulla immaginazione creativa di Dashiell Hammett e sui suoi intrecci con l'esistenza soggettiva. Wenders cerca di lavorare su quel luogo di trasparenza e di opacità totali e simultanee che è lo spazio enigmatico dell'immaginazione, tenta di analizzare i fili lievi e misteriosi che legano la vita all'invenzione letteraria. Dichiara apertamente di aver voluto realizzare una «biografia dell'immaginazione», trovando «un equilibrio tra la storia poliziesca e la storia dello scrittore che comincia a confondere un poco la realtà con la propria fiction». Tuttavia nel film definitivo - che è il risultato di numerose sceneggiature e di innumerevoli scontri WendersCoppola, oltre che di due fasi diverse di tournage in quattro anni di lavoro - sulla radiografia di un'immaginazione prevale la de1ec1ive story, proprio come su Wenders ha prevalso la produzione americana (e infatti Wenders ha affermato che Hammeu non è un suo film ma un film da lui «messo in scena»). L'Hammeu definitivo è allora - nonostante la dichiarazione di piena soddisfazione di Wenders - un film che subito stimola il desiderio di vedere l'altro film che Wenders, probabilmente, aveva in mente. Nel filmrealizzato, infatti, l'orizzonte dell'immaginazione leneraria più che intrecciarsi con la presunta vita reale di Hammett emerge qua e là nel tessuto della detective story in momenti di grande intensità, ma forse troppo frammentari. Le inquadrature dal basso della macchina da scrivere, come, alla fine, lo scorrere sullo schermo delle immagini dei personaggi di The Maltese Fa/- con, o, quasi all'inizio, l'inserimento di alcune sequenze che illustrano visivamente il racconto che Hammett sta scrivendo, prestando ai personaggi inventati le facce dell'innamorata di Hammett (Kim) e di un amico detective (Jimmy Ryan), o ancora il rumore dell'a capo della macchina da scrivere che suggella la scena in cui Crystal Ling uccide Ryan, sono tutti momenti in cui un'altra dimensione, che si vorrebbe più ampia, irrompe all'interno della tessitura di una detective story molto classica. Ma forse, più che la «biografia di un'immaginazione», il filmdi Wenders è un'investigazione sull'universo del film noir e sui suoi intrecci con il mondo dei Professional OP, uno sguardo profondo lanciato sui meccanismi che hanno consentito la genesi del «genere dei film crudi che d'improvviso possono toccare la verità in modo sconvolgente, il genere della condizione umana, il blues del cinema» (Wenders). e osl Hamme/1 è un filmche analizza il passaggio dalla vita di Hammen e degli investigatori privati dell'agenzia Pinkerton al mondo inventato dalla de1ectivestory e lo fa ricostruendo la vita di Hammett proprio attraverso i modelli della de1ective s1ory in un gioco di specchi in cui è l'artificiale, l'inventato. il dopo a influenzare la ricostruzione del vero, dell'esistenziale, del prima. Hamme11 è quindi realizzato come un perfetto simulacro del vecchio film noir, con una scelta raffinatissima di personaggi, luoghi, luci e interpretazioni: dal ricupero di Elisha Cook e di Sylvia Sidney, alla realizzazione tuna in studio con una scenografia in perfetto stile Anni 30, curata da Dean Tavoularis e da Eugene Lee, alla fotografia caranerizzata dall'oscurità - secondo i canoni classici - di Philipp Lathrop e soprattutto di Joe Biroc. Tutto il film è un esempio di artificialità spettacolare dispiegata e disvelata, di iperrealismo esplicito, in cui lo spessore del fittizio, del ricostruito, del simulacro domina incontrastato. Non è un filmsulla verità di Hammett. È un omaggio alle forze della fiction inventate da Hammett. Completamente diverso è invece il film di Skolimowsky, ex-enfam prodige del cinema polacco, che in Moonlighting lavora apertamente sull'inatteso, scegliendo un pa11ern narrativo assolutamente anormale, povero, apparentemente anticinematografico. In questa opzione Skolimowsky sembra ricordarsi della sua esperienza nell'ambito del nuovo cinema degli Anni 60, quando la ricerca dell'essenzialità e della sintesi totale di vita e di cinema aveva portato ad una grammatica visiva rarefatta ed estremamente sobria, seguita da un'istanza antispettacolare. Moonlighting è la storia di quattro operai polacchi che vengono inviati dal loro padrone a Londra per ristrutturare un alloggio. È un film fatto di niente, di sequenze di lavoro, di rapporti freddi tra i personaggi, di continue difficoltà, di totale estraneità alla vita londinese. La voce fuori campo del protagonista Novak (interpretato da Jeremy Irons), che è il responsabile dell'impresa perché è l'unico a conoscere l'inglese, costituisce il filo rosso che attraversa tutto il film, ne scandisce i tempi e dà continuità serrata alle azioni. Nonostante l'estrema povertà della diegesi il film ha una tensione indubbia, affidata sia all'osservazione visiva, insieme straniatae ingenua del protagonista, sia alla sua riflessione verbale sugli avvenimenti minimi che lo riguardano. Nella seconda parte del film, poi, nella t.rama opaca dell'azione si introducono due elementi di maggior spessore drammatico: da un lato il riferimento alla situazione polacca e al colpo di stato di Jaruszelwski-che Novak non comunica agli altri operai per evitare reazioni imprevedibili-; dall'altro il ricorso sempre più sistematico di Novak al furto per supplire alla carenza di denaro del gruppo. Tutta l'ultima parte del film.èun itinerario di inganni e di omissioni, di contrasti non più celati e di difficoltà crescenti; ma è soprattutto un percorso nella «fascinazione della cleptomania», come dice Skolimowsky, nei turbamenti e nelle prodezze di un ladro per forza, che costruisce comportamenti e finzioni con la freddezza geometrica di un programmatore. Le numerose sequenze dedicate alla psicologia e alla pragmatica di un ladro da grande magazzino, ispirate esplicitamente da quel capolavoro di Bresson che è Pickpocket, sono un'indagine sulla finzione e sull'astuzia, sulle emozioni segrete e sulle paure, realizzate senza nessuna alterazione di tono, ma con una tensione sottile e crescente, affidata a gesti minimi e a deviazioni impercettibili. È un'idea di cinema interno, povero, segreto, quasi spettrale, che si oppone al cinema iperspettacolarizzato oggi dominante e indica una linea di ricerca non facile ma certo molto suggestiva. Un cinema difficile che oggi pochissimi sembrano voler tentare (e meno di tutti i produttori). Skolimowsky, infatti, è anche il produttore del proprio film (come Herzog, d'altronde). Forse la possibilità di un cinema di ricerca è sempre più legata al consolidamento di una figura multi-operativa di regista-produttore.

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