narelle del suo padrone), ma ciò facendo manda in cancrena il sistema rituale dello sposalizio e il sistema legale del matrimonio. Questa idea di sovvertire un sistema di segni usandolo come se fosse senza conio non solo mi sembra molto «fertile», ma al mio spirito di parodista offre paradisi di voluttà e di goduria di fronte ai quali le gioie lacaniane di Shoshana Felman sono· come un gelatino Motta il sabato sera. Vediamo: quando Francesco Berni sposta gli accoppiamenti coatti fra nomi e aggettivi nel suo «Chiome d'argento fine irte ed attorte», per cui 'neri' non sono più i capelli ma i denti, 'perle', non sono più i denti ma gli occhi acquosi, e cosi via (o nella tarda derivazione secentesca di John Donne che, spostando i legami fra parti anatomiche e qualifiche, crea l'anagramma di un bel volto femminile, nella poesia intitolata, per l'appunto, The Anagram), il poeta sembra andare al di là della soglia parodica. Berni e Donne corrompono il sistema di segni su cui si basa la lirica amorosa. Altro esempio. Nel Giulio Cesare di Shakespeare Marcantonio ripete più volte: «... perché Bruto è un uomo d'onore». Quindi, se io scrivo «Nel Giulio Cesaredi Shakespeare Marcantonio afferma ripetutamente che Bruto è un uomo d'onore», io mi limito a citare il più celebre caso d'antifrasi (dire il contrario di·quello che s'intende dire) nella letteratura occidentale. Ma se io scrivo invece «Nel Marcantonio di Giulio Cesare, Bruto afferma ripetutamente che Shakespeare è un uomo d'onore», io metto in crisi il sistema di segni su cui si è basato il discorso della cultura da Platone in poi (basterebbero duecento cattedratici che decidessero di scrivere in tal guisa per mandare in cancrena il mondo universitario). Un ultimo esempio: se io trasformo «T'amo, o pio bove» in «T'amo, o pia vacca», io faccio una mediocre parodia di un brutto verso, insistendo sull'edulcorato sentimentalismo della lirica e denunciando il linguaggio dei sentimenti nell'idillio campestre con uno stravolgimento sardonico e intenzionalmente ambiguo circa il referente Romanzaivenire :: N el suo articolo su Moravia ( Alfabeta, n. 35, marzo 1982), Antonio Porta ha indicato, tra l'altro, alcuni elementi di riflessione sulla scrittura narrativa. Scrive Porta: «per creativa si intende una scrillura che cerca solo nel momento del suo darsi la propria direzione, i sentieri da percorrere... », e individua nella scrittura na"ativa un modello per eccellenza di tale creatività e autonomia; in particolare identifica nel carattere auto-riflessivo (non <finalizzato»), cioè nel sistema interno di autolegillimazione della scrillura narrativa, il suo carattereprincipale ed esemplare. Dopo l' Ulisse, si dovrebbe sapere quanto sia falsa e fatua l'idea di scrivere un romanzo che non sia anche un romanzo sull'arte di scrivere un romani:o; entrare 11ellaprima pagina bianca di un libro con lasvagata (mai deliberata) ingenuità di chi racconta senza sapere perché e in quale direzione e contro quali forze o idee si racconta. La felice ingenuità del narratore ottocentesco, cioè la compatibilità immediata (non problematica), di racconto e scrittura, fabula e forma, è divenuta inapplicabile, oggi, o se applicata, genera pagine mediocri, personaggi mediocri, mari di noia. L'idea di racconto in sé, cioè di narratività pura, diretta, caduta con le grandi esperienze di narratività problematica - o autoriflessiva - permane tuttavia nel romanzo di consumo (che su certi piani, di artigianalità e abilità pud essere squisito, ma non è letteratura), e cerca d'altra parte una riformulazione teorica, invero piuttosto rozza, i11 alcuni postmodernisti come Hassa11 ,, David Lodge: piacere del narrar<'. immediatezza, nostalgia si mescolano. in questi pickwickiani, a cattive lettur<' di Barthes e Robbe-Grillet, determinando una specie di opacità: ciò che u11 tempo era minore, ma era decifrabile come minore, entra ora nell'indiffere11ziato, insieme a ciò che un tempo era grande. li mito narrativo puro, prejoyciano. nelle sue diramazio11i attuali, gioca questo ruolo di indifferenziazione, di unanimità banalizzante, di forte riduzione culturale. Altro caso è quello di Lyotard, che i11 Au juste, propone il modello di u11a narrazione eteronoma e anonima, cioè senza soggetto, in cui l'autore, comu11que, non è la funzione principale ,frl racconto («Tout narrateur se prése111,· comme ayanl été un narrataire: non pa, comme aulonome, mais au contrairr comme hétéronome»), anzi anch'egli,, narrato in ciò che sta narrando. Altro caso ancora quello di Deleu~,· (Conversazioni), che intende la seri/ti(· ra come variazione e divenire, oltre /11 rappresentazione («Tutto ciò che diventa è u11apura li11ea,che cessa ,i, rappresentare alcu11ché») e inaugure1 una teoria de/l'intensità narrativa co,m balbettamento, mi11oritàall'i11ternod, un sistema li11guistico: « Essere co111,· uno straniero 11ellapropria li11gua scrive - aprire una li11eadi fuga [.. I Dobbiamo essere bili11guia11che i11 u11a lingua sola, dobbiamo avere u11ali11g"11 minore all'interno della nostraf11g1111. dobbiamo fare della nostra /in a "" uso minore». ~ _., Nella figura dell'amieroe ro1fta11z<'- sordo e cieco (da Chrétien de Troyes a Beckett), nei suoi movimenti a zig zag febbrili o tranquilli nel mondo, Deleuze indica, per via metaforica, la deterritorializzazione implicita in ogni scritturanarrativa, il suo stato caratteristicodi deriva, ma anche di intensità. Star fuori del soggetto (che ordina e governa /apropria narrazione: e cosa ci sarà poi di geniale in un «meccanismo» narrativo, oggi? o nel ricorso ad autorità quali Dashie/1Hammett e Chandler? o nel sostenere che ogni romanzo è poliziesco?), fare un'esperienza radicale della scrittura, non organizzare la propria scrittura intorno a un'esperienza o evento individuale; arrischiare un'esperienza intellettuale del linguaggio, intraprendere un cammino: nel nostro tempo, che come quello di Heidegger. è il tempo della povertà,scrivere, al livello più alto, significa essere-senza-protezione (senza strutture, senza polizieschi ...), inseguire nell'abisso (Abgrund).nella caduta l'essenza stessa del linguaggio. «Arrischianti» definisce Heidegger (in Sentieri interrotti) gli scrittori, i veri scrittori (come, per lui, Holderlin e Rilke), perché nei loro libri l'essenza stessa del linguaggio è costantemente inseguira e messa in questione: «Il soffio per cui gli arrischianti sono più arrischianti, non vuol dire soltanto e in primo luogo la tenue, perché fuggevole, misura di una differenza, ma significa immediatamente la parola e l'essenza del linguaggio». ~ sco, da sempre anti-eroe cioè errant<'. E:31b0ecag1nob1anco Giorgio Ficara Anche se nel suo carattere apparentemente perifrastico, la scrittura è percezione inreriore del linguaggio, movimento, modificazione, non ritratto, o siuzhét, o genere; anzi, è scrittura senza genere. Una narratività che rifondi ogni cosa e se stessa mentre diviene: in questa direzione muovono le ricerchepiù sottili della letteratura contemporanea, da Peter Handke a Queneau a Leiris a Klossowski, con la loro voce solitaria e perfetta, con il consenso che può generare solo uno stile che non parte da nessun consenso. Questa direzio11eignorano gli altri infiniti romanzieri, ignari di ogni linguaggio e stile, che si soffermano, ad esempio, su lietestorielle californiane o su meno liete storielle romane, etc., con rara ostentazione. La lingua ita/ia11a,che secondo l'opinione di Angelo Guglie/mi (Il piacere della lettreratura), sta diventando «uno strumento finalmente in grado di misurarsi con quelle emozioni pericolose e pensieri di vertigine cui il resto della letteratura europea già da tempo si dedicava», è in realtà, a questo fine, ancora poco usata; è divisa fra una specie di narrativo cronico (degli Arpino, etc.) e a/cu11isperimentalismi di ritorno (senza però l'alacrità teorica di un tempo, anzi con le idee molto confuse): nel mezzo, con invenzioni a volte originali e un lavoro autentico nella scrittura, ci so110alcu11i(solo alcuni) degli scrittori i11dicatidallo stesso Guglie/mi. Certo, ogni autentica esperienza di scrittura narrativa 110npuò ignorare l'abisso e il mistero del linguaggio, il fatto che cose e parole a volte nascano insieme, da una stessa urgenza, o da una stessa fatale stanchezza. «Choses mots choses mots et des alexandrins - scriveva Queneau nella Peti te Cosmogonie Portative - ce petit prend le son comme la chose vieni I modest est son travail, fluide est sa pensée I si pensée il y a». Queneau, che prende il suono come viene e dice di 110npensare, di avere un pensiero fluido, scorrente, un pensiero-paro/a, è un esempio di divertimento metafisico della scrittura, di composizione del testo a partire da virgole che avanzano, paragrafi che si arroventano, alfabeti che svengono improvvisamente, etc.: in questo mondo (in questa Mente o Pagina) 11aturalmente abitano il Duca d'Auge e Cidrolin, Pierrot e Des Cigales e tutti gli altri... Og11iesperienza narrativa di alto livello, oggi, non può ignorare questa tensione e insieme mobilità del pensiero; og11inizio di racconto, o romanzo, o frammento, non può non essere attraversato da un'inte11sitàdi percezione i11tellettualedel linguaggio; non può non accentrare11el/aprima parola scritta sulla pagi11ala forza (e la problematicità) di altreparole già scritte (almeno nel senso eliotiano della conti11uitàletteraria, dell'«i11co11scioprogresso di una lingua ne/l'acquistare consapevolezza delle proprie possibilità entro i della parola 'vacca'. Ma se invece di dire «T'amo, o pìa vacca», io dico «T'amo, o pio bove» da una posizione di totale mala fede (come se il linguaggio carducciano non avesse appunto più conio), allora sl che incomincio a mandare in cancrena il sistema culturale che sottende a quel verso. E qui, godendo, mi fermo, perché già troppo sto sfruttando il linguaggio del desiderio e il desiderio del linguaggio, e non vorrei che Shoshana Felman diventasse invidiosa. propri limiti»). Nietzsche diceva, è vero, che chiunque incominci a scrivere (agire nella scrittura) è sempre, del tutto, antistorico, cioè non riconosce altro se non la propria azione dello scrivere: «colui che agisce è sempre senza coscienza, dimentica la maggior parte delle wse per farne una sola, è i11giustoverso cid che è dietro di lui, e conosce un sofo diritto, il diritto di ciò che deve ora divenire» (Utilità e danno della storia). L'attimo iniziale della scrittura ha, forse, un po' di questa ingiustizia, ma anche la forza e l'immaginazione di • vedere tutto in un punto solo, di far la prova del non-tempo (come accadeva al principe Miskin), stare senza vertigine o paura sulla soglia dell'attimo. «Perla prima volta, improvvisamente, il desiderio di vivere in eterno -scrive Handke - e anche la presunzione di poterlo sopportare (nell'istante in cui la pioggerella si tramutò in un acquazzone e tutta la gente, in piazza, prese d',m tratto a muoversi)»; ogni singolo frammento della scrittura, creandosi, «ritrova» e «cede», sale con la ,più grande fatica e si apre rischiando tutto, produce forma dal suo interno. Ogni cosa è messa in questione (e ricostruita} in un frammento, in una frase. Non potendo riscrivere Fieldi11g·o Lesage (la cui maggiore grazia è appunto di possedere uno stile), se non : come Borges ha riscritto Cervantes, e perdutasi d'altronde ogni utilità e fascinazione del «meccanismo» narrativo, Handke concentra nella parola il suo ascolto e la sua iensione. La scrittura del «tempo della povutà» ha a volte questa improvvisa rie- 1 chezza, queste improvvise concentra- :ioni di senso; a «direzione», «formtztività», «prescrizione» - fondamenti dì ogni narrazione occidentale («Comi! dovrò veramente essere? per qual via rivolgermi si da percorrere, nel miglior ' 111odoi,l camm-ino della vita?», leggia1110nella Repubblica platonica - sì è ,·ostituital'assenza di ogni direzione, un gran declivio di sentieri interroui, in cui 111ttaviaè possibile percorrere un cammino. E non è forse vero che «l'ecrivain l'St-il aujourd'hui le substitut résiduel c/u Mendiant, du Moine, ·du Bonze: i111productif e cependant alimenté?» ..- ! Barthes, Le plaisir du texte): la narra- :ione, non più progresso da un luogo all'altro, ma errore attraverso una proliferazione di luoghi, ha questa caralleristica insieme di povertà e intensità; cedendo a più direzio11iimpressegli àa fuori, ogni narratore autentico - del 11ostrotempo - fi11isceper te11taretutto mme esecutore (secondo una profezia cliJames), scopre la mancanza del limi- "' e del confine, e sa di trovarsi «là dove agiscelagravitazio11edelle forze pure». Questa forma della narrazione, fol- ~orata dal contatto con il mistero del -:i linguaggio, arrischiante perché rivolta 11//'aperto, è anche una narrazione che />revede e diviene, oltre l'intenzione ,,essa dell'autore; è generosa e som111essamentegloriosa. (Di lei, ovviamente, si curano pochissimo gli ham111ettianim, a questo è un altro discor10.)
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