Alfabeta - anno IV - n. 38/39 - lug.-ago. 1982

ranza, eia fuoriuscita dal capitalismo, il conseguimento della pace, si configura ... ancora nelle luci e nei colori di una salvezza religiosa•. Non è un caso che qui appaia ripetutamente la parola e prospettiva• cara a Luk:!cs, che viene spesso citato come critico di Benjamin e oppositore del1'calternativa estrema e catastrofica• di costui. Era Lukiics (e non qualche comitato centrale} a dare una tiratina d'orecchi agli entusiasmi di Solmi richiamandolo all'hegelismo (mentre nella mia rapida prefazione all'Opera d'arte di quattro anni più tardi io seguivo il cammino inverso staccandomi dal luk:!csismo). Solmi avrebbe potuto reagire meglioalla tiratina se avesse potuto conoscere saggi come quello su Eduard Fuchs o L'autore come produttore che Adorno e sua moglie avevano espunto dalla loro scelta e che contengono indicazioni più concrete per un manismo non hegeliano e non luk:!csiano. Ma dove c'era una cprospettiva• plausibile? Solmi, che era vicino al gruppo di Ragionamenti e non certo tenero con l'Urss, faceva capire che possibilità di un'evoluzione positiva c'erano, nonostante tutto, nei paesi socialisti, e in nota dava una ramanzina a Ernst Bloch perché con il suo messianismo allontanava dal compito P roduzioni americane, divi, film del terzo e quarto mondo (cinematografico), champagne press conferences e cinema politico, marginali senza avvenire e uno smisurato mercato di compravendita di film di tutti i tipi, dal pomo-soft a One [rom the hearth, ultima prodezza elettronica di Coppola, proiezioni che si accavallano a ritmi impossibili e la solita scortesia dei bureaux dell'organizzazione: Cannes resta sempre il più grande Festival del mondo, anche se gli americani lo considerano soltanto un trampolino per i loro film anomali (difficili o di registi europei o di sicuro insuccesso nel circuito Usa), e se la pletora dei film in programma abbassa complessivamente il livello medio delle proiezioni. Ma, in compenso, c'è tutto: dai nuovi registi per cinefili ai grandi del cinema europeo, dai mostri sacri del cinema differente a Jack Lemmon, da Gabriel Garcia Marquez alle rappresentanze delle cinematografie periferiche. Una volta i filmdifficili e poveri erano la chicca dei festival decentrati. per lzappy fews. Adesso Cannes piglia tutto e per un qualsiasi regista marginale la presentazione a Cannes vale dieci festival minori. Venezia è lontana, non può più competere con Cannes: il suo posto è nel novero dei festival di serie B accanto al Berlin lnternational Film Festival, insidiata persino dal Festival mo11stre di Manila. Cannes invece è un'altra cosa, e anche il cosiddetto cambiamento mitterrandiano non si sente troppo, se non, forse. nella distribuzione dei premi. E qui cominciano, è ovvio, le dolenti note (e, d'altra parte, i premi per cosa sono assegnati, se non per fare discutere?): perché la giuria nell'attribuzione dei premi non solo ha, come quasi sempre, risposto anche a esigenze di politica culturale e di rapporti di potere, ma, insieme, ha riflettuto anche i limiti di gusto cinematografico e di livello culturale di molti dei suoi componenti (a cominciare da Strehler e da Suso Cecchi D'Amico, supporto pressoché costante di tutte le avventure Kitsch di Visconti). Così i film più belli del Festival (Fitzcarraldo, Moonligh1ing, Hammell} si sono dovuti accontentare di premi di consolazione o sono addirittura andati casa a mani ,vuote( hanno avuioa di analizzare una società che non doveva cessere vagheggiata o travestita in immagini utopistiche•, bensì cessere oggettivamente conosciuta nelle sue contraddizioni e nelle sue leggi•. Illusioni, certamente, anche se allora condivise da molti. Tuttavia il tramonto di queste illusioni aggrava e non attenua il problema segnalato da Solmi, che proprio perché condivideva la polemica benjaminiana contro il futuro garantito dalla locomotiva della storia e l'esigenza del suo arresto e anche dell'inversione messianica (almeno come legittima «figura» dell'antitesi all'orrore del presente}, sottolineava la necessità di trovare un nesso tra questi postulati e la prassi rivoluzionaria. O ra non solo l'attuale benjaminismo italiano non cerca questo nesso, ma vive proprio dell'equivoco denunciato da Solmi per cui prospettiva storica e religiosa restano coscuramente intrecciate• e una volta sistemate le categorie del tempo si sistemerebbe anche la storia. Se si prescinde da Agamben, che anche nella più compiaciuta stratosfera speculativa fa vibrare il senso di una morte non letteraria e rimanda all'utopia la coincidenza di parola e prassi, Benjamin sembra avallare la generale euforia che, non si sa come, ha colto gli intellettuali italiani. Se gli anni Cinquanta erano spaventosamente tetri, gli Ottanta sono spaventosamente ilari. A Modena allegramente si distruggeva e si costruiva in quasi tutte le relazioni. In quella più simpatica, di Liliana Rampello, si distruggeva e si costruiva la «traccia•. in un sincretismo che mobilitava tutti i meglio libri, i meglio film e i meglio dischi, e che per questo fu contestata da un giovane. A torto, poiché tale sincretismo sembra rinettere pienamente l'attuale funzione di Benjamin. Sia lecito invece ricordare che il Benjamin storico fu quanto mai incline alla parzialità, all'unilateralità e alle idiosincrasie. Non si tratta solo di Heidegger, nè di discriminanti ideologicopolitiche. Quando usci nell'edizione critica il volume delle recensioni, Marce! Reich-Ranicki scrisse sulla Zeit una violenta stroncatura facendo una lista delle grandi omissioni dell'autore, che aveva completamente ignorato Roth, Musi), Thomas Mann, Broch e cento altri. Reich-Ranicki è un critico un po' filisteo che non capiva che a Benjamin interessavano le tendenze e non le graduatorie di valore. Anche in letteratura, egli aveva l'ingiustizia del combattente, che spesso approda a opzioni poco perspicue o addirittura irrazionali. Lo si potrebbe giustificare con la teoria dell'amico/nemico di Cari Schmitt, invece proprio da quando è caduto nelle mani degli ammiratori di quest'ultimo Benjamin non ha più altro che amici. Ciò non gli ha fatto perdere l'aggressività. A Modena si distruggeva e si costruiva grazie alle «forze dell'ebrezza• che secondo il saggio sul surrealismo bisogna «conquistare per la rivoluzione». Masini vi tenne sopra la sua relazione (che purtroppo non potei ascoltare) ma anche un uomo cosl sobrio come Remo Bodei finl inneggiando allo sforzo di «congiungere le potenze arcaiche del mito e dell'ebbrezza alla ragione», sia pure escludendo che l'ebbrezza sia «invasamento bacchico e scomposto». Niente da obiettare a questo ideale di una conciliazione tra la ragione e una decorosa ebbrezza, che aleggia in tutto il pensiero contemporaneo. Solo che nel presente se ne vedono scarse tracce. A Modena non c'era la rivoluzione, ma per verità neanche l'ebbrezza, salvo quella del compiacimento per la propria dottrina, sottigliezza, capacità di parlare il medesimo linguaggio incomprensibile ai più. Insomma, un congresso come gli altri, con la noia di dover tornare a casa magari solo per DaCannes82 l'onore di premi importanti due film assolutamente minori come La Noi/e di S. Lorenzo e ldenlificazione di una donna. In confronto Missing (di Costa Gavras) e Yo/ (del turco Giiney) sono film di alta professionalità e di sicuro effetto, che attestano una maturità piena di linguaggio all'interno di opzioni precise (e magari discutibili) di poetica. Missing dimostra adeguatamente come si fa un film di genere politico. Riferimenti precisi a eventi importanti della situazione opierna (e non vagolanti ricerche sulla preistoria o su epiPaolo Bertetto sodi minimi della storia del movimento operaio), azione drammatica compatta e serrata, perfetto concatenamento narrativo, poco o nessuno spazio a inutili e schematiche (sempre) discussioni ideologiche, individuazione di una storia personale e particolare all'interno di un grande affresco sociale, costruzione sapiente del pathos e dell'orrore necessario attraverso un'alternanza studiata di componenti diverse. impressione di autenticità dei fatti (sia Zeta che Missing sono basati su storie vere): in più Costa Gavras ci mette la sua propcn~ionc per la struttura del giallo, organizzando il film attorno alla ricerca di una verità che in parte è nascosta in parte è conosciuta o prevista dallo spettatore. Certo Missing farà storcere il naso a tutti i puristi di un cinema politico asfittico e iperrivoluzionario, ma è infinitamente più avanti delle diatribe sull'impossibile ideologico e sui progetti del cinema politico degli Anni 60 e 70 (come è più indietro del grande cinema fantasmagorico o di ricerca): Costa Gavras ha compreso pienamente la complessità dei meccanismi spettacolari e il feed-back prodotto dalla matupochi giorni. Perché non si fa tutto in una volta? Perché alla fine non c'è un bel pullmann che ci porta tutti, relatori e no, dal congresso su Benjamin a quelli su Nietzsche, su Heidegger, su Cari Schmitt, su Klages, su Céline, su Musi!, su Hesse ecc. ecc., fossero o meno amati da Benjamin? Sarebbe un po' faticoso, anche perché di notte bisognerebbe fare i piccoli rimaneggiamenti necessari per adattare le relazioni e gli interventi (sempre sul tempo, la distruzione e la costruzione ecc.), ma almeno si potrebbe dimostrare definitivamente che tutto è lo stesso, come quando col telecomando si passa da un film all'altro scoprendo che sono tutti uguali. La fatica si supererebbe con l'ebbrezza rivoluzionaria, bevendo un'«ombra• di esaltazione intellettuale in ogni città in cui si va migrando, come i veneziani che procedono di bar in bar. I congressi sono le osterie dello spirito, dove ci stordiamo per non vedere quel che succede nel mondo extracongressuale, in cui sarebbe forse meglio non tornare mai. A questo punto anch'io ho le gambe malferme e non ho idee chiare su Benjamin, ma mi pare proprio di ricordare che non fosse questo che voleva. ra civiltà dell'immagine e lavora sulla qualità specifica patetico-estatica (come diceva Ejzenstejn) e fascinativa della comunicazione cinematografica e non sull'asfissia eteronomica dell'ideologico. In confronto ai militari fascisti cileni di Costa Gavras i fascistelli imberbi dei Taviani che arretrano davanti a una bambina sono povere cose di un'altra epoca, cascami di un epigonismo senza più forza. E i film italiani, infatti, nonostante la consueta diga difensiva innalzata in omaggio allo sciovinismo di sempre dai critici dei quotidiani, sono davvero poca cosa. Se i Taviani piacciono un po' anche all'estero è solo perché Il si coglie la loro diversità rispetto al cinema europeo e americano e non, come possiamo fare noi, la loro omogeneità alla subcultura postresistenziale italiana e allo stile sceneggiato televisivo su Don Minzoni. Mentre Herzog arriva a Cannes con un'avventura visionaria in Amazzonia. i Taviani, prudenti e conservatori come sempre, sono appena usciti di casa. La Notte di S. Lorenzo è fatto sempre li, nello stesso triangolo delle passeggiate domenicali, tra S. Miniato e la campagna circostante, giusto nei posti della loro infanzia. E visto che gli sforzi di parlare dell'oggi avevano ottenuto risultati penosi (si pensi a quella parodia involontaria della crisi che era// prato), ritornano alla beneamata storia, che un cantuccio accogliente e facile facile lo assicura sempre. Tanto per essere originali fanno un film sulla guerra. il fascismo e la resistenza, perché sono convinti della loro attualità (?) S i dirà: non è un problema di contenuti, ma di modi di realizzazione. E invece non è cosi semplice. Perché un autore è responsabile in primo luogo dell'immaginario che propone e l'immaginario dei Taviani diventa sempre più asfittico e ripetitivo, dominato dall'aria di chiuso, dalla puzza dell'aria stagnante: solo variazioni continue su argomenti da Calendario del Popolo, misere esercitazioni sulla coscienza (cattiva e non) di sinistra. Mescolanza di ricostruzione storica e di inserti favolistici, di punti di vista 'popolari' c di piattezze naturalistiche, La Noue di S. Lorenzo conferma l'impressione che la falsa ingenuità del popolaresco è uno dei registri

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