espressivi più finti e intollerabili. . Intollerabile è anche Identificazione di una donna, l'ultimo film di Antoniani: senile e obsoleto, come certo non ci si attendeva, è l'opera di un regista che cerca disperatamente agganci con il mondo contemporaneo e annaspa in un acquaio di approssimazioni e di chiacchiere, sino ad annegare nel poco che sa. 11film sembra percorso da un perverso spirito autodistruttivo e autoparodico, che rivolge la ricerca filmica di Antonioni in surrogati un po' ridicoli e un po' penosi: affiorano in forme macroscopiche tutte le debolezze che nelle sue opere più significative erano già presenti, ma venivano maggiormente controllate e spesso oltrepassate. I dialoghi sono, naturalmente, efferati (l'accoppiata Antonioni-Tonino Guerra colpisce sempre) e le sequenze erotiche (con tanti particolari di piedi, mani e muro) non perdonano. Di fronte alla pochezza di Antonioni e dei Taviani, persino Scola (li mondo nuovo) riesce a non sfigurare con il suo cinema medio e il suo film è certo meno irritante degli altri (e infatti non è stato premiato): sfrutta il credito (immeritato) di cui gode in Francia per mettere insieme finanziamenti francesi per una storia francese per eccellenza'(la fuga di Luigi XVI a Varennes), con un riferimento al cambiamento mitterrandiano e un po' di commedia all'italiana, una dovizia di attori internazionali di vaglio e un'idea (non brutta) di Amidei, una ricostruzione storica ilssai accurata e un'intreccio improbabile ma spettacolare di personaggi ovvi (Casanova) e meno ovvi (Restif de la Bretonne e Thomas Paine). Peccato che il didàscalismo programmatico e una deformazione mentale ideologica (tutta italiana) spingano poi Scola ad appesantire l'azione con lunghi dialoghi informativi, con discussioni che sintetizzano nello spirito del Bignami posizioni politiche e impressioni di costume, e con personaggi che affidano il loro spessore narrativo più alla presunta esemplarità sociologica che all'azione scenica. Non meglio ha fatto Peter Del Monte, il giovane meno giovane rilanciato l'anno scorso a Venezia con Piso Pisello, che tenta di fare (con lnvitation au voyage) un film un po' à la page e mescola insieme il viaggio (tanto per fare il verso a Wenders e al mito del nomadismo) e il rock, l'incesto e la crisi. Poi condisce il tutto con i luoghi comuni più sballati della sua generazione: i furti all'autogrill, la signora che vaga in preda a problemi di identità e si concede al primo venuto, una manciata di ragazzini sui pattini a rotelle, gli sguardi nel vuoto e u·n vecchietto stranito che salta fuori come da una scatola a sorpresa. L'effetto è deplorevole. Eppure Del Monte è stato presentato ufficialmente nella mediocre selezione francese e preferito a Rohmer e a Chabrol. Cosi le esperienze di punta del Fe- . stivai sono emerse, ancora una volta. all'interno delle generazioni che hanno fatto il nuovo cinema europeo degli Anni 60 e 70, e in primis nella grande vague del cinema tedesco, che ha confermato rigore profondo e grandi capacità immaginative anche nel difficil~ passaggio da un cinema marginale e povero a budget, strutture produttive e impegni ben più consistenti. Herzog e Wenders hanno dimostrato che la loro ricerca non è ancorata a modelli di cinema differente, ma può confrontarsi con piena maturità con strutture linguistiche spettacolari molto più complesse. 1n particolare Herzog ha realizzato un'operazione di sintesi spericolata tra l'avventura (in un immaginario fortemente innovativo ed estremamente determinato) e la produzione di una struttura spettaco- • lare perfettamente calibrata e non estranea alla tradizione del grande cinema hollywoodiano. I n una stagione dominata da ricalchi manieristici (spesso di notevole interesse) e ripetizioni involontari~ le», trasforma la realizzazione di un film in un itinerario sperimentale nel pericolo, in un evento mitico che dà la consistenza del linguaggio spettacolare a un delirio soggettivo, a un sogno. Il film non è infatti soltanto la narrazione del sogno e della sfida insensata (ma vittoriosa) del protagonista Brian Sweeney Fitzgerald (Fitzcarraldo ), ma è ancor più un'avventura nell'impossibile dell'Amazzonia, uno scontro violento con l'inospitalità del luogo, le difficoltà dei rapporti con gli indigeni, la scarsa resistenza ai disagi degli attori prescelti (Jason Robards, Mario Adorf e un Mick Jagger evanescente, per quanto si può giudicare da un bel documentario sulla realizzazione di Fitzcarraldo, Burde11 of the Dreams) e la stessa estrema problematicità di alcune sequenze. Herzog, d'altra parte, non è nuovo ad imprese epiche, a esperienze dirette di pericolo. La sua è in fondo un'idea di cinema come confronto con il pericolo, assunzione del rischio, messa in gioco dell'autore: un'ipotesi di ricostituzione di una condizione eroica della creatività, vissuta non più in senso trasgressivo, ma come apertura di una contesa radicale e coraggiosa con il mondo circostante. L'esempio più significativo è il documentario realizzato a rischio della vita nell'imminenza dell'esplosione del vulcano La Soufrière nella Guadalupa. Ma la prova di Fitzcarraldo, «film contro natura», come dice Herzog, non è da meno. Brian Sweeny Fitzcarraldo vuol portare la grande opera lirica e il mitico Caruso fin nei recessi dell'Amazzonia, a lquitos e per realizzare questo obiettivo acquista un territorio di alberi della gomma, impervio e sperduto, al di là di rapide impraticabili e di territori abitati dagli indios Jivaros, cacciatori di teste. Per arrivare sino.al proprio terreno è costretto a sfidare l'impossibile ed a far passare una nave oltre una collina, avvalendosi della collaborazione inattesa ed enigmatica degli stessi minacciosi Jivaros. Lo scavalcamento della collina da parte della nave è il momento di massima tensione del film, non solo per la fatica e l'abilità in termini di ingegneria primitiva che implica, ma anche per il back ground mitico delle componenti che entrano in gioco: da un lato trascinare una nave su una salita impervia è un'impresa contro natu- (di minore interesse) Herzog fa con Fitzcarraldo una •~da all'imotb,-a lCO ra, un assalto al ciclo che viola le regole del gioco e vi introduce un elemento di follia, di immaginazione visionaria e delirante; dall'altro la collaborazione apparentemente immotivata e certo imprevedibile degli indios Jivaros nello sforzo immane e la loro presenza ambigua e minacciosa, di fatto benefica ma potenzialmente mortifera, costituisce un altro elemento di enigmaticità e di epos nell'azione. E proprio la fusione dell'epico e del visionario è quanto costituisce la forza estrema del film ed il suo carattere di novità e di indicazione prospettica per l'immaginario cinematografico. La sequenza della nave che risale nella foresta vergine il rio Pachitea, diffondendo a tutto volume da un vecchio grammofono la musica di Verdi interpretata da Caruso, ha un'intensità e una carica di emozionalità pura di altissimo livello. Non è solo un'esperienza di delirio fantasmagorico, fuori dalle logiche diffuse, ma è anche una sorta di sogno di un controllo delle forze misteriose e potentissime della natura attraverso il semplice ricorso alla bellezza prodotta dall'uomo, a quel residuo apparentemente improduttivo della civilizzazione che è l'emergenza artistica. È un'idea insieme di funzionalità epica e di forza fascinativa dell'estetico, che appare, nell'universo mentale contemporaneo, come un'indicazione dissonante e follemente intensa. Il film di Wenders, al contrario, rappresenta una ricerca su un settore dell'immaginario collettivo prodotto dai media, una sorta di visitazione del mondo della detective story che progetta di andar oltre la semplice ritessitura dei temi o il ricalco manieristico, per diventare un'indagine sulla immaginazione creativa di Dashiell Hammett e sui suoi intrecci con l'esistenza soggettiva. Wenders cerca di lavorare su quel luogo di trasparenza e di opacità totali e simultanee che è lo spazio enigmatico dell'immaginazione, tenta di analizzare i fili lievi e misteriosi che legano la vita all'invenzione letteraria. Dichiara apertamente di aver voluto realizzare una «biografia dell'immaginazione», trovando «un equilibrio tra la storia poliziesca e la storia dello scrittore che comincia a confondere un poco la realtà con la propria fiction». Tuttavia nel film definitivo - che è il risultato di numerose sceneggiature e di innumerevoli scontri WendersCoppola, oltre che di due fasi diverse di tournage in quattro anni di lavoro - sulla radiografia di un'immaginazione prevale la de1ec1ive story, proprio come su Wenders ha prevalso la produzione americana (e infatti Wenders ha affermato che Hammeu non è un suo film ma un film da lui «messo in scena»). L'Hammeu definitivo è allora - nonostante la dichiarazione di piena soddisfazione di Wenders - un film che subito stimola il desiderio di vedere l'altro film che Wenders, probabilmente, aveva in mente. Nel filmrealizzato, infatti, l'orizzonte dell'immaginazione leneraria più che intrecciarsi con la presunta vita reale di Hammett emerge qua e là nel tessuto della detective story in momenti di grande intensità, ma forse troppo frammentari. Le inquadrature dal basso della macchina da scrivere, come, alla fine, lo scorrere sullo schermo delle immagini dei personaggi di The Maltese Fa/- con, o, quasi all'inizio, l'inserimento di alcune sequenze che illustrano visivamente il racconto che Hammett sta scrivendo, prestando ai personaggi inventati le facce dell'innamorata di Hammett (Kim) e di un amico detective (Jimmy Ryan), o ancora il rumore dell'a capo della macchina da scrivere che suggella la scena in cui Crystal Ling uccide Ryan, sono tutti momenti in cui un'altra dimensione, che si vorrebbe più ampia, irrompe all'interno della tessitura di una detective story molto classica. Ma forse, più che la «biografia di un'immaginazione», il filmdi Wenders è un'investigazione sull'universo del film noir e sui suoi intrecci con il mondo dei Professional OP, uno sguardo profondo lanciato sui meccanismi che hanno consentito la genesi del «genere dei film crudi che d'improvviso possono toccare la verità in modo sconvolgente, il genere della condizione umana, il blues del cinema» (Wenders). e osl Hamme/1 è un filmche analizza il passaggio dalla vita di Hammen e degli investigatori privati dell'agenzia Pinkerton al mondo inventato dalla de1ectivestory e lo fa ricostruendo la vita di Hammett proprio attraverso i modelli della de1ective s1ory in un gioco di specchi in cui è l'artificiale, l'inventato. il dopo a influenzare la ricostruzione del vero, dell'esistenziale, del prima. Hamme11 è quindi realizzato come un perfetto simulacro del vecchio film noir, con una scelta raffinatissima di personaggi, luoghi, luci e interpretazioni: dal ricupero di Elisha Cook e di Sylvia Sidney, alla realizzazione tuna in studio con una scenografia in perfetto stile Anni 30, curata da Dean Tavoularis e da Eugene Lee, alla fotografia caranerizzata dall'oscurità - secondo i canoni classici - di Philipp Lathrop e soprattutto di Joe Biroc. Tutto il film è un esempio di artificialità spettacolare dispiegata e disvelata, di iperrealismo esplicito, in cui lo spessore del fittizio, del ricostruito, del simulacro domina incontrastato. Non è un filmsulla verità di Hammett. È un omaggio alle forze della fiction inventate da Hammett. Completamente diverso è invece il film di Skolimowsky, ex-enfam prodige del cinema polacco, che in Moonlighting lavora apertamente sull'inatteso, scegliendo un pa11ern narrativo assolutamente anormale, povero, apparentemente anticinematografico. In questa opzione Skolimowsky sembra ricordarsi della sua esperienza nell'ambito del nuovo cinema degli Anni 60, quando la ricerca dell'essenzialità e della sintesi totale di vita e di cinema aveva portato ad una grammatica visiva rarefatta ed estremamente sobria, seguita da un'istanza antispettacolare. Moonlighting è la storia di quattro operai polacchi che vengono inviati dal loro padrone a Londra per ristrutturare un alloggio. È un film fatto di niente, di sequenze di lavoro, di rapporti freddi tra i personaggi, di continue difficoltà, di totale estraneità alla vita londinese. La voce fuori campo del protagonista Novak (interpretato da Jeremy Irons), che è il responsabile dell'impresa perché è l'unico a conoscere l'inglese, costituisce il filo rosso che attraversa tutto il film, ne scandisce i tempi e dà continuità serrata alle azioni. Nonostante l'estrema povertà della diegesi il film ha una tensione indubbia, affidata sia all'osservazione visiva, insieme straniatae ingenua del protagonista, sia alla sua riflessione verbale sugli avvenimenti minimi che lo riguardano. Nella seconda parte del film, poi, nella t.rama opaca dell'azione si introducono due elementi di maggior spessore drammatico: da un lato il riferimento alla situazione polacca e al colpo di stato di Jaruszelwski-che Novak non comunica agli altri operai per evitare reazioni imprevedibili-; dall'altro il ricorso sempre più sistematico di Novak al furto per supplire alla carenza di denaro del gruppo. Tutta l'ultima parte del film.èun itinerario di inganni e di omissioni, di contrasti non più celati e di difficoltà crescenti; ma è soprattutto un percorso nella «fascinazione della cleptomania», come dice Skolimowsky, nei turbamenti e nelle prodezze di un ladro per forza, che costruisce comportamenti e finzioni con la freddezza geometrica di un programmatore. Le numerose sequenze dedicate alla psicologia e alla pragmatica di un ladro da grande magazzino, ispirate esplicitamente da quel capolavoro di Bresson che è Pickpocket, sono un'indagine sulla finzione e sull'astuzia, sulle emozioni segrete e sulle paure, realizzate senza nessuna alterazione di tono, ma con una tensione sottile e crescente, affidata a gesti minimi e a deviazioni impercettibili. È un'idea di cinema interno, povero, segreto, quasi spettrale, che si oppone al cinema iperspettacolarizzato oggi dominante e indica una linea di ricerca non facile ma certo molto suggestiva. Un cinema difficile che oggi pochissimi sembrano voler tentare (e meno di tutti i produttori). Skolimowsky, infatti, è anche il produttore del proprio film (come Herzog, d'altronde). Forse la possibilità di un cinema di ricerca è sempre più legata al consolidamento di una figura multi-operativa di regista-produttore.
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