Alfabeta - anno IV - n. 38/39 - lug.-ago. 1982

Attraverso la 40°Biennale S i è davvero toccato il fondo della mediocrità? Credo proprio di sl. Anche se questo potrà forse costituire l'inizio d'una svolta. Ce l'auguriamo, almeno, e lo auguriamo agli ordinatori della prossima Biennale. Il tema stesso del Padiglione Internazionale di quest'anno:« L'arte come arte; persistenza dell'opera», non solo era generico, ma rimandava proprio a quell'aspetto che nell'arte d'oggi sembra meno difendibile. Perché volere a tutti i costi far «permanere» il brutto, il mediocre? In realtà questa Biennale - a prescindere da alcuni aspetti positivi di cui diremo-ha insistito sull'equivoco della preceden1e, peggiorandolo. La volta scorsa, accanto a molte approssimazioni, a molte pseudoscoperte, si erano avute anche scoperte autentiche. Si era constatato, infatti, che la ripresa figurativa e di una «manualità» pittorica era avvertita ovunque e si legava ad un bisogno di farla finita con certe esasperazioni concettuali, con certe infatuazioni meccanicistiche, con certi giochetti astratti. Quest'anno ci si è valsi del tanto sbandierato ritorno alla figurazione e alla manualità per avallare - (soprattutto nella sezione internazionale ordinata da Jean Clair, Mathias Eberle, Dan Haulica, Guido Perocco, seguendo - non si sa fino a che punto - l'idea iniziale di Luigi Carluccio) - una serie sin troppo numerosa di mediocri «maestri», già da tempo considerati di secondo piano, rimasti quasi sempre in disparte (forse per colpa della grande ondata astratta? non lo credo) e che, comunque, non avevano mai inciso profondamente suJl'evoluzione dell'arte contemporanea. Un avallo, dunque, dato alla mediocrità e furbescamente corroborato da grandi nomi di autentici Maestri come Schiele, Matisse, Brancusi (presenti, ahimé, quasi solo in ispirito; almeno al mome11to dell'inauguratione!) che nulla avevano in comune con lo stuolo dei recuperati nel triste repechage. La stessa cosa vale per l'ottima. ampia, rassicurante mostra di Anioni Tapies che rimane uno degli artisti più coerenti e «permanenti» dei nostri giorni (con i suoi grandi dipinti materici, con i suoi elementari simboli grafici, con le sue caute figurazioni, sempre «in funzione» della matericità) e che non ha nuJla da spartire con personaggi come Marwan, MasoA, Freund. Auerbach, Griitzke, Ferroni, LopezGarcia, Tongiani, Roux, Guinan, Varlin, per fare solo alcuni nomi dei presenti nel padiglione internazionale. Ai quali, solo per confondere le carte. sono stati intercalati alcuni artisti più vitali e più attuali (anche se pur essi non da «scoprire») come Music, Petlin, Riopelle, Raysse, Zigaina, Ubac. Guccione, Cuevas, Kitay, Kantor, ecc. Non intendo certo soffermarmi più a lungo su questa infelice sezione né posso (per mancanza di spazio) soffermarmi sulla sezione degli italiani (curata con amore da Caramel) che, a petto di quella degli stranieri, fa un'ottima figura, anche se la selezione è solo in parte coerente. Q ui, accanto ai due Numi Tutelari di Fontana e di Licini (di cui avrei preferito vedere autentiche personali) possiamo ammirare alcuni ormai noti e affermati rappresent_anti della «generazione di mezzo», da Andrea Cascella a Dorazio, da Consagra a Nigro, da Del Pezzo a Pace (giustamente rivalutato), da Tadini a Gastini (in fase di stanchezza polimaterica), da Pozzati (sin troppo «sbrigliato») a Devalle (cautamente fotografico), con il «recupero» di due «grandi» che da molti vengono additati come precorritori dell'attuale vague neoespressionista: Vedova e Turcato. Tra i più giovani la discordanza stilistica appare più lacerante: ilcalibratissimo concettualismo di Coletta e il materismo plastico di Nanni Valentini, il geometrismo tonale di Aricò e l'esuberante (ma qui troppo dilatato) decorativismo della Boero, le esperienze ancora incerte di Notargiacomo, Jori, Alinari, Minoli; mentre due artisti ancora meritano di essere ricordati: Schifano di cui con soddisfazione vediamo ricomparire la presenza sempre inquieta ma sempre generosa e promettente e Ceroli che non avrebbe avuto bisogno di «perfezionare» con un disegno complesso e classicheggiante le sue solide e scarne sagome lignee. Ma credo che sia inutile soffermar i sul già noto. È preferibile soffermarsi sul meno noto e sull'inedito di questa sconclusionata rassegna. Passando, allora, ai padiglioni stranieri (i quali, per loro fortuna - e guai se così non fosse - hanno potuto mantenere la loro indipendenza dal tema annuale, contrariamente a quanto alcuni critici auspicavano) quello che ha saputo offrire quest'anno una visione più omogenea e insieme più autorevole è l'austriaco. Merito, innanzitutto, di Hollein, fantasioso architetto e artista che fu già presente con la sua opera in una precedente edizione, e che quest'anno fungeva da commissario. È stato Hollein a scegliere come unico rappresentante del suo paese Walter Pichler, personalità complessa e insieme rettilinea, di sicura derivazione artigianale, e insieme ricco di molteplici esperienze architettoniche. Pichler si presenta qui non solo come scultore, ma come abilissimo raffinatissimo, direi leggendario, disegnatore e come architetto-carpentiere delle - Bibllotecag1nob1anco Gilio Dorfles «case» che ospitano le sue sculture. Se nei suoi disegni è viva tutta una grande tradizione che risale a Klimt, a Schiele, ai maestri dello Jugendstil (Olbrich, Hoffmann), nelle sculture è molto più arduo scoprire sicure ascendenze. Quattro sono le categorie di opere presentate: le Schiide/decken, le volte craniche, sorta di gusci lucenti di bronzo dorato, il Rumpf, tronco fitoantropomorfo, proveniente da una specie di innesto o di talea tra un tronco d'albero e un tronco umano; i tre uccelli in ottone; e finalmente una figura intera - la Bewegliche Figur - grande manichino semovente snodabile e rivestito di paludamenti quasi sacerdotali: inquilino, padrone, o prigioniero della Casa di Legno per lui progettata. Era forse prevedibile (e anche auspicabile) che la scultura, messa in quarantena nel periodo concettuale e ridotta a cumuli di detriti, fascine e carbonella in quello dell'arte povera, si rifacesse viva proprio in questa Biennale con alcune affermazioni che sono tra le poche degne d'attenzione. Dico scultura per dire «visualità tridimensionale» perché tale è, ad es. quella d'un Alejandro 0tero, che occupa l'intero padiglione del Venezuela con le sue strutture metalliche più o meno semoventi e un po' troppo memori del cinetismo meccanomorfo degli anni cinquanta, ma tuttavia rigorose e anche ampiamente monumentali. E, del pari, appartiene solo in parte alla scultura vera e propria la vasta esemplare opera di Robert Smithson, uno dei «landartisti» più fantasiosi e sconvolgenti, morto nel 1973, che ha qui, nel padiglione degli USA, una sua grande retrospettiva dove si possono ammirare ancora una volta i disegni e glischizzi per opere ben note come la Grande Spirale e parecchie realizzazioni a metà strada tra l'arte minimal e la Jand art. D i vivo interesse risulta anche la mostra dedicata a un'aJtra scultrice: l'ungherese Erzsebet Schaar, scomparsa nel 1975, ma poco nota in Occidente, la quale con mezzi spesso poverissimi (come il polistirolo espanso) o valendosi di lamine di vetro, di lamiere di piombo, frammenti di rame, finge un universo umanissimo e insieme fantastico, realistico e insieme visionario, seppure i ricordi di Giacometti e della Nevelson non mancano. Con l'Austria, la Svezia (che presenta le «pietre» trovate ed elaborate di Eva Sdrensen), l'Ungheria, il Venezuela, anche l'Inghilterra ha creduto opportuno di dedicare l'intero padiglione a uno scultore. Barry Flannagan non ha certo il peso che ebbero a suo tempo Moore, Hepworth, Armitage, Turnbull, Paolozzi, King, ecc. bisogna però riconoscere che la sua personalità è ben distinta da quella degli altri che lo hanno preceduto a Venezia, anche perché riesce a far convivere l'amore per la materia e la forma astratta, con la presenza di opere improntate aJla più bizzarra iconografia umoristica e giocosa. Anche altri scultori meriterebbero un cenno: cosi Camargo nella sezione brasiliana, le turgide fantasie cretacee di Mainolfi, uno dei pochi scultori dell'ultima generazione che abbia trovato una sua peculiare maniera espressiva. Alle Zattere, e alla Giudecca, nella faraggine delle sezioni giovanili («Aperto 82») molto dubbie, (di cui il curatore Tommaso Trini ha purtroppo potuto occuparsi solo in extremis) troviamo le opere, tutte di notevole interesse e già ben note, di Stephen Cox, di Nagasawa, di Alice Aycook; mentre, sempre in tema di tridimensionalità, nella sezione dei Magazzini del SaJe, è proprio l'allestimento di Nanda Vigo a dirci come sia più raggiunto in questo caso il contenitore che le operé per le quali è stato concepito (e che forse, per fortuna delle stesse - le rende meno visibili in seguito a un discutibile tipo d'illuminazione). Opere giovanili - quelle accolte nei due spazi citati- che, a prescindere da ben poche eccezioni, rivelano soprattutto un abbaglio (da parte di questi artisti): l'abbaglio di credere che si possa, oggi, dipingere pompieristicamente e oleograficamente per risultare «moderni» (come, ad es. Pellegrini, Bartolini, Piruca, Bioules, Di Stasio); o per contro «non-saper-dipingerené-disegnare» (come, per es. Barbera, Cantalupo, Fetting, Garabedian) per raggiungere lo stesso scopo. Anche questa è una presunzione da sfatare: proprio alla Giudecca possiamo constatare quanto magistralmente sappia «disegnare dal vero» uno dei nostri migliori artisti concettuali come Alfano, e anche come si sia «fatto la mano» un artista giocoso e spiritoso come Panseca. Mentre nessuno mi convincerà che glisgorbi infantili e gli strafalcioni anatomici di molti di costoro possano costituire degli equivaJenti estetici. Lo saranno magari i «giochetti» di Scolavino, i divertissements di Rezzuti e Bucciarelli, le scomposizioni garbate (ma ormai troppo insistite) di Spoldi, le pseudo-anamorfosi di Lumaca, i singolari «paesaggi» orientaleggianti di Montessori, le matasse di Braco Dimitrievif, le «macchie» esplosive di Omar GaJliani; e, ancora, i dipinti di SaJomé, Liithi, Tirelli, Freiles, Bennati, ma non le stolide sculture plumbee di Gormley, gli aJlestimenti da vetrinista di Kapoor, le equivoche figurazioni limacciose del troppo ammirato Garouste ... Quali conclusioni, in definitiva, trarre da questa sconclusionata Biennale? Anche se sono assenti i massimi rappresentanti del post-modernismo espressionista tedesco e della transavanguardia itaJiana (le due correnti che in questo periodo folleggiano), anche se la sezione intemazionaJe presenta lo squallido panorama di cui ho detto, credo. che aJcune constatazioni siano possibili: 1) La ripresa d'interesse per la manualità, la materia, il colore (da Pichler al tedesco Graubner, con i suoi Farbraumkorper, dallo spagnolo Guinovart, ai due ben noti argentini: Oorindo Testa e M. Ocampo). 2) La non più attuale, ma pur sempre rilevante presenza di ricerche concettuali. (Hanne Darboven con un'impressionante documentazione delle sue Weltansichten, tratte da caJcografie dell'800 e racchiuse in 1400 comici identiche; Wolfang Laib con i suoi lavori sul polline e i suoi affascinanti Milchsteine, pietre spalmate di latte) e Dieter Rot, nel padiglione svizzero, con una serie di «appunti di viaggio». 3) La possibilità di usare anche la fotografia fuori da ogni conclamato schema, come testimonia la straordinaria presenza delle immagini gigantesche in bianco e nero della portoghese Almeida che ha saputo comporre delle autentiche «autoestrinsecazioni» attraverso questo medium troppo usato e troppo spesso tradito. 4) La speranza che, dalle vacillanti leve giovanili presenti in questa manifestazione, scaturiscano i germi di future creazioni, meno legate alla moda e più volte ad un'autentica ricerca che miri a scavare nel profondo della pro- ~ pria personalità e non solo a trastullar- ;il si con un frivolo gioco. ,;

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==