- anche i vecchi teloni istoriati, eh 'erano un po' l'emblema di quel tempio di spettacoli. La teatralità si disloca un po' dovunque: nel gesto futurista, nel dadà, nello spazio onirico e rivoluzionario delle avanguardie. Le parole si dissolvono in un linguaggio ipnotico e gestuale, la cui «grammatica deve ancora essere trovata»; il teatro si fa «art vivant» e ce_rcale proprie tecniche li gatto del Cheshire Rassegna di teorie e pratiche della simulazione Milano, 20-23 maggio 1982 Lo spettacolo continua •Proposta bibliografica 'delle librerie Feltrinelli, n. 11, 1982 Performing Arts Joumal n. 14 (voi. V/n. 2), n. 15 (voi. V/n. 3), n. 16 (voi. Vl/n. I) N egli Stati Uniti un critico e teorico teatrale, famoso nei decenni scorsi per la militanza e il supporto che aveva dato alla stagione d'oro dell'off-off newyorchese, Richard Schechner, ha scritto un lungo saggio in memoria del declino e caduta del teatro d'avanguardia, non solo americano. Gli è stato dimostrato, dati alla mano, che si sbaglia, che molti lavori sono in corso e con buoni risultati, ma che lui è impedito a rendersene conto poiché giudica con i criteri di allora. Oggi le cose vanno diversamente erisultano invisibili a chi crede ancora in certi luoghi e modi di lavoro, nonché a certi modelli e a delle correnti che dovrebbero adottarli. Insomma non è questione di avanguardia, ma di qualcos'altro che ne ha preso il posto (ma non il senso) e perdipiù in un contesto molto segnato dagli smottamenti ideologici di questi anni. Anche in Italia chi segue le cronache lo dà probabilmente per spacciato, il 1eatro, che invece sta vivendo una fase di incredibile fioritura. Si potrebbe dimostrare facilmente, se ancora una cosa del genere avesse senso, che il teatro italiano è uno dei migliori del mondo; lo si può dire considerando la quantità di positive eccezioni a tutti i suoi livelli, dai registi ai mattatori alle nuove leve di attori e attrici, dagli scenografi ai musicisti, dal teatro comicopopolare ai gruppi di sperimentazione. Eccezioni, punte, trasgressioni rispetto a una maggioranza statistica di bassa gastronomia o di mortale impegno. ma c'è un rapporto tra la regola e l'eccezione: il terreno di coltura è comune e i passaggi dall'una alle altre, se pur infrequenti, sono possibili. Da noi, un grande impulso allo sviluppo del teatro è costituito dal disordine: ovvero dall'assenza di una legislazione in materia che sanzionasse il predominio di rigidi modelli (come nella Rft), dalla mancanza di precise linee strategiche culturali dei partiti e degli apparati, e dalla scriteriata concorrenza della miriade di istituzioni che intervengono in questo campo. Se aggiungiamo la moltiplicazione di soggetti culturali e di luoghi di produzione, insomma la vera e propria mutazione antropologica che in Italia è ancora in corso, e l'aumento della spesa pubblica e privata per lo spettacolo (l'anno scorso in Lombardia il teatro ha battuto il calcio per biglietti venduti) il quadro è completo. Il disordine, se permette la manifestazione di tanti bisogni emergenti, è però anche omicida: sopravvivere è molto più difficile che nascere, in un sistema dove finanziamenti e distribuzione sono controllati da una nomenklatura che risponde solo a se stessa, che può permettersi di ignorare persino il successo di pubblico di un gruppo e di Bibllotecag1nob1a nella tradizione orientale, nel circo, nel cabaret. Sulla scena domina l'attore: il ritmo del suo dire, il timbro della sua voce, i suoi movimenti plastici. Più precisamente, trionfa il corpo: macchina, figura inanimata, «carne e sangue», clown. Ai sipari, simulacri della rappresentazione, sono in pochi a pensare. Craig fa i conti con attori super-marionette; Copeau gioca con le luci, coi costumi, con le maschere; Artaud approda alla festa totale; Brecht, volendo dar rilievo all'azione drammatica, sostituisce le grandi tele con siparietti «di lino grezzo, di seta, di pelle bianca o rossa», oppure le bandisce addirittura, convinto che gli attori - sulla scia dei cinesi - anziché recitare come se esistesse avanti a loro una «quarta parete•, debbano sottolineare la consapevolezza di essere visti. Il teatro, ormai, non ha più un luogo specifico: è nelle strade metropolitane, nelle istituzioni, nelle piazze che attraversiamo, intorno a noi, forse in noi stessi ... L'antica frase «veniamo al levar su della cortina» pare non aver più senso, perché mai come oggi tutto è messo in scena, esibito, situato in piena luce. In una luce addirittura Teatrdi ifissione A111onioAuisani imporre ciò che corrisponde ai suoi interessi, più o meno ideali. In questa situazione perversa, il gioco privilegiato è tra cronisti e assessori, i quali negoziano continuamente la reciproca legittimazione agli occhi di un pubblico tuttavia non perfettamente controllabile. In questa situazione, dicevo, ciò che non viene avvistato dai cronisti rischia di avvizzirsi malgrado le sue qualità e malgrado le folle di piçcoli e piccolissimi pubblici che scoprono e consumano, nei luoghi più inediti, nuove proposte spettacolari. Sospetto che siano diversi dal passato anche i modi di lettura e consumo dei generi più omogenei a una tradizione, come la lirica o la musica classica, cioè che la loro riscoperta dal vivo, dopo l'assorbimento dell'informazione mediologica di massa, abbia caratteristiche particolari e non ancora rilevate. Ma, più in generale, constatiamo l'arretratezza della ricerca teorica rispetto agli aggiornamenti delle pratiche performative: siamo ancora allo stupore per la constatazione dell'inefficacia dei macrosistemi ideologici modernisti, mentre la performatività ha conosciuto mille rivoluzioni sostanziali, nelle sue motivazioni e nei suoi esiti. Cosl che un dispositivo di governo costringe una enorme produzione di eventi; c'è uno scarto di intelligenza per cui si danneggiano a vicenda, ma è il primo a essere illegittimo e non i secondi, come si vorrehbe far credere. Se si passa a parlare dei gruppi dopo una premessa sull.1ricchezza del teatro italiano non è perché questi ne costituiscano l'unico segno, ma perché si tratta degli organismi più svantaggiati dai dispositivi ordinatori di cui si è detto e anche di una delle sintesi più forti dell'inedito-necessario. In teatro si fa sempre e dovunque ricerca. L'opera porta il peso delle circostanze in cui è prodotta e distribuita, il lavoro è sottoposto a un continuo aggiornamento, tanto per via di consapevolezza che per affioramento d0i stimoli precedentemente assorbiti. Ma nella vicenda novecentesca è soprattutto nella struttura gruppo che si sono coagulate nuove domande e motivi di sperimentazione. Il gruppo si definisce anzitutto in negativo. Una persona vuole fare teatro ma non è attratta dall'idea di inserimento in uno dei calchi istituzionali già predisposti, vuoi per divergenza di opzioni estetiche vuoi per la collocazione nella gerarchia del lavoro che questi sono in grado di offrire: non resta dunque altra strada che trovare dei complici e procedere diversamente. Tutto qui. Poi evidentemente si può esercitare una gamma pressoché infinita di opzioni, da valutare caso per caso, ma resta sullo sfondo la responsabilità politica di capire e sostenere la legittimità di un'impertinenza. La confusione è provocata, per esempio, da quelle formazioni del Terzo Teatro che ritengono di poter loro sole definirsi gruppi o da quelle altre che contestano il termine per non essere assimilate al Terzo Teatro. Avere presente cosa vuol dire gruppo ci torna tanto più utile in questi anni, con la caduta dei movimenti. Fino alla fine degli anni Settanta aveva ancora un senso accettare una suddivisione del teatro per macrotendenze: se si diceva Terzo Teatro o Gruppi di Base o Postavanguardia ecc., ci si riferiva di volta in volta a diversi gruppi teatrali che lavoravano su ipotesi omogenee o in condizioni simili. Non si trattava di «movimenti•, come dicevano i funzionari culturali, ma casomai di «zone»; non si trattava di gente che stava procedendo assieme verso una meta, ma di gente che partiva dallo stesso territorio; non si trattava di individui impermeabili alle vicende sociali di quegli anni (vissute invece perlopiù intensamente, a contatto con l'altro «movimento•), ma di persone che decidevano di incanalare l'irrequietezza nel lavoro teatrale. Alle tendenze teatrali non è successo altro che ciò che è successo dappertutto: è finito un periodo di fusione ed è iniziato un periodo di fissione, ricordano gli interlocutori americani di Richard Schechner. Chi guarda come prima e negli stessi luoghi non vede più niente, e magari si dà una posizione rimpiangendo i movimenti del passato o inventandosene di nuovi. Non ci sono più i luoghi deputati «colti• del teatro, le capitali morali: la produzione è diffusa e si verifica nelle troppo abbagliante. La stessa rappresentazione teatrale è compromessa, perché la recita è totale (tutto è presentato, tutto è detto) e nessuno si preoccupa più della finzione. Né tanto meno dei sipari, che ci ricordano sempre che siamo a teatro. situazioni aggregative più disparate. La vocazione al teatro non è più soltanto il desiderio di aggiornare, da interpreti, il teatro esistente, ma soprattutto la combinazione di desideri che possono realizzarsi in una manipolazione da presentare in prima persona. Mai come ora sono approdate al teatro tante figure diverse, architetti poeti danzatori tecnici pittori, che intendono nutrirlo della propria preparazione (basti pensare al Teatro della Valdoca, al Marchingegno, ad Ascari-Modugno, ma gli esempi potrebbero essere tanti). Abbiamo ormai una galassia di tendenze diversissime, autonome, proiettate verso l'assimilazione. Non si tratta di cosa è il teatro, ma di fare teatro della propria impertinenza. Perciò non esiste più il rischio e il mito del revival ma un continuo saccheggio, una ripulitura dei segni dai significati originari, l'uso in un nuovo contesto di idee e frammenti (come può essere il folklore sardo per il Teatro Akròama o il mito americano per Falso Movimento). Così come non esiste più, nella moda, una «linea classica• italiana, ma tante case in concorrenza tra loro, anche in teatro le cose più diverse possono diventare look. E questa fioritura, in un contesto cosi variato e violento, ci caratterizza complessivamente per una delle migliori produzioni mondiali. È finita la monocromia, sono finiti gli accostamenti «giusti• del nostro grande teatro di regia, in favore di una «policromia• anche casuale delle e nelle esperienze (nei Magazzini criminali questo passaggio si disegna addirittura all'interno della produzione, mentre gruppi come La Condizione Mentale, Raffaello Sanzio sono già nati in questa temperie). La differenza Ira prodotto di alta classe internazionale e prodotto povero, di consumo locale (mettiamo Kantor o i Mabou Mines da una parte e Teatro Studio 3 o San1aga1a-Morgan1i dall'altra), dipende solo dal valore dei materiali usati, dalla confezione e dall'unicità dell'allestimento (oltre che, naturalmente, dal peso della rassegnastampa del gruppo). L a stagione che sta per concludersi ha confermato la presenza decisiva di gruppi situati in diversi angoli della galassia e ha rivelato nuove formazioni, che si affermeranno in breve tempo. Sono diversissime, eppure hanno qualcosa in comune. Non si considerano militanti di nessuna delle ex-tendenze e i loro spettacoli non rispondono a quegli schemi. Lavorano molto a lungo e intensamente per la preparazione degli spettacoli. Sono piccolissime formazioni, da due-tre persone a sei-sette massimo. Lavorano senza il supporto di testi teatrali, creando gli spettacoli in scena e non a tavolino; unico supporlo drammaturgico «esterno• l'osservazione e/o qualche frammento letterario. Se hanno un rapporto con le proprie radici linguistiche e regionali (Akròama, San1aga1a-Morgan1i) non è per nutrirle ma per esplorazione di un territorio drammatico; nessuno di loro ha intenzione di «radicamento•, né politico né linguistico; sono disposti a la- °' ~ "" ,.,.,
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