Mensile di informazione çulturale Febbraio 1980 Redazione. amministrazione Spedizione Multhipla edizioni in abbonamento 20137 Milano postale Piazzale Martini 3 gruppo 111/70 Telefono (02) 592. 684 Printed in Italy · GLENGRANI" ilpuro\fflisky di puro maltdo'orzo. A.GrazianiC: 'eraunavoltalateoria economica•MC. orti:Beniemaliculturali• ·A.MacchiorMo:arxismoin toto •A.DalLago: Labuonamorte•Linguaggeiocambiamento (A.GuglielmFi .Leonett1, . Porta)• Laculturade61 estremism(oF.Leonetti)• . Testo':'GliAngeli 11 diM. Kundera * CattedreA: .FasoloL,.GanapinRi, .Luperini, A.lllum_inaGti,.Geymonat• - • M.Galz1gnaF:oucauelt • altregenealogie• PoesiediM. LaroccehNi . . Balestrini * FpodiG. Giovannetti* A.Bousoglou: Intervista M. Kundera • · Giornaledei GiornaliL: acrisi finanziariamondiale
jean-françois lyotard jean-loup thébaud aujuste ;::!:. lfflì]Wj ID.lroSEIJIB.ll~ chez le mémc t<litcur Be11jami11Coriat L'ATELIER ET LE CHRONOMETRE - Bernard Ede/man LA LEGA LISA TION DE LA CLASSE OUVRIERE • François Gtorge LA LO! ET LE P/;IENOMENE • Serge Moscovici HOMMES DOMESTIQUES, HOMMES SAUVAGES. A111011ioNegri MARX AU-DELA DE MARX - Kar/-Neinz Roth L'AUTRE MOUVEMENT OUVR/ER EN ALLEMAGNE //945-1978/ - Daniel Sibo11y LA NAINE DV DESIR - Mario Tro111iOUVRIERS ET CAPITAL antonio negri marx au-delà de marx DiRISTI.AN OOJl!m EOITEUR~ JeanBaudrillard Dela séduction Et si la production n'.était qu'un mythe ? Et si tout n'était que défi et séduction ? éditionsgalilée ~ Leimmagindi iquestonumero La fabbrica sommersa Come misura anticrisi delle singole imprese, il decentramento produuivo esce allo scoperto all'inizio degli anni '70. Dopo l'offensiva operaia del decennio precedente, sono mutali i rappor1i is1i1uzionalitra capitale e forza lavoro a favore di ques!'ultima; e tale mutamemo statuale, sovrapponendosi a una struuuia vroduuiva carauerizzata da deficienzè vecchie e nuove, contribuisce ad alimemare un alto tasso di inflazione e una conseguente crisi permanente. Ma il decentramento produttivo «non è e non può essere pensato come un processo di ristruuurazione qualsiasi, è la risposta specifica dei capitali individuali ad una specifica forma di apparizione della contraddizione tra capitale e lavoro» (Laura Fiocco, «Decentramento produuivo e area periferica», Inchiesta 36). Abbozziamo uno schema dei vantaggi di una risposta di questo tipo. Decentrare - in parte o totalmente - la produzione, significa un risparmio medio sul costo del lavoro per unità di prodouo calcolato tra il 60 e il 75 per cento. Investimenti bassissimi, rischi minori, minore assenteismo, sfruuamento autogestito secondo criteri di couimo, e perciò maggiore flessibilità della forza lavoro, minori o inesistenti oneri sociali, frammentazione della conjliuualità sociale epolitica e relativa auenuazione della contraddizione lavoro-capitale: insomma, un elevato sfruuamento in condizioni di relativa pace sociale. Questo «modo di ristrullurazione del capitale», o, meglio ancora, di razionalizzazione della produzione dal punto di vista del capitale passa - attraverso. una mobilità interna ed esterna della fabbrica, e anzi, mediante l'espulsione della forza lavoro da essa e il decentramento produnivo - solo se si verificaun processo parallelo di robotizzazione e di alta tecnologia all'interno della grande industria, e inversamente, nella produzione decentrata, un'obsolescenza del macchinario, compensata da un tempo di lavoro frenetico e comunque superiore alle ouo ore. Si veda quanto ha preceduto la robotizzazione spinta che - con forti resistenze operaie -si è inseritasul processo produuivo del/'automobile. Verso il 1955, la Fiat, dopo il licenziamento di numerosi operai, offre loro di diventare suoi operatori in alcune auività in proprio. Gli ex operai, ora divenwi titolari di officine solitamente piccole, alloggiati a volte in luoghi di fortuna come scantinati, e dotati di macchinari non programmati per opeSommario Augusto Graziani C'era una volta la teoria economica (Economia, di Franco Donzelli; Valoreeprezzo. Saggiosu Sraffa e lascienza economica, di Guido Montani; Efficienza e rapporli sociali di produzione, di Carlo Boffito; Georgescu Roegen. I fondamenti della teoria economica, di Stefano Zamagni) Pagina 3 Maria Corti Beni e mali culturali pagina 4 Aurelio Macchioro Marxismo in toto (Storia del marxismo. Progeuo di Eric J. Hobsbawm, George Haupt, Franz Marek, Ernesto Ragionieri, Viuorio Strada, Corrado Vivanti) Pagina 5 Angelo Guglielmi, Francesco Leonetti, Antonio Porta Linguaggio e cambiamento pagina 8 MarioGalzigoa Foucault e altre genealogie (La volontà di sapere, di Miche/ Foucaulr;Il pene e la demoralizzazione dell'Occidente, di Jean Pau/ Aron e Roger Kempf; Castrazione e complesso, di Alessandro Fontana; L'impuro folle, di Rober10 Ca/asso) pagina 9 Milan Kundera Gli Angeli pagina 11 razioni complesse o differenziate tra loro e presto obsoleti, si riducono di fauo ad operare come microreparti staccati de~'azienda madre, con cui convivono in un rapporto prioritario, quando non assoluto, di lavoro. Ancora in tempi più recenti si è favorita la promozione di imprese in proprio, con prestiti a tasso agevolato - presso banche Fiat-per l'acquisto di macchinari e magari coi premi di licenziamento; unica condizione, il mantenimento di tm rappor10di lavoro preferenziale con la Fiat. Formalmente, perciò, essa dispone di 200.000addeui, ma ha «effeui occupazionali su una struuura dicentinaia di migliaia di imprese che hanno con la Fiat un rapporto di commiuenza privilegiata o di commiuenza obbligata» (La fabbrica diffusa I,« Disoccupazione e struuura industriale», ed. Librirossi). Dentro la fabbrica viene cosi a frantumarsi l'omogeneità dei gruppi operai e peggiora ulteriormente il livello di dequalificazione. L'operaio è ridouo a pura appendice al robot quale schiacciabouoni, senza alcuna possibilità di controllo su ciò che fa, avviato alla distruzione psicofisica, a/l'alienazione prodotta dalla monotonia e ripetitività delle operazioni, come succedeva anche nella precedente organizzazione taylorista (si veda la classicaraccoltadi ar1icolidi Romano Arquati., Sulla Fiat, ed. Feltrinelli). Questa stessa ripetitività e monotonia ritroviamo nella «componente periferica» del lavoro a domicilio, secondo la definizione di Arnaldo Bagnasco (Tre ltalie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, ed. li Mulino). Per essa si intende un'area del territorio italiano (il centro nordovest) par1icolarmente soggeua al fenomeno del decentramento produttivo. Quest'area ha caraueristichesocio-politiche diverse sia da quelle proprie del triangolo industriale («Componente centrale»), che dal sud («componente marginale»). , t una formazione sociale intermedia che si presenta con una piccola impresa - artigiana e industriale - diffusa sul territorio e con una for1e propensione al lavoro nero (coper1a, a volte, dalla finzione giuridica dell'iscrizione all'albo degli ar1igiani),soprauuuo presente in contesti rurali. Se a Napoli e nel Mezzogiorno, spesso, il lavoro nero rimane l'unica fonte utile allasopravvivenza, qui, di frequente, è integratocon un reddito regolare:da lavoro agricolo (5 O per cento), terziario (35 per cento) o industriale (15 per cento). Alessandro Dal Lago La buona morte (Passingon The socia/ Organi?.ationof Dying, di David Sudnow; The Dying Patient, di AA. VV.; Nemesi medica, di Ivan 1/lich; La mori à vivre, di A.A. V.V.; Storia della morte in occidente, di Philippe Ariès; Lo scambio simbolico e la morte, di Jean Baudril/ard) pagina 17 Cattedre: "Quest'anno faccio..." Rispondono: A. Fasolo, L. Ganapini, G. Geymonat, A. Illuminati, R. Luperini pagina 18 Giornale dei Giornali La crisi finanziaria mondiale a cura di lndex-Archivio criticodel/' lnforma~ione pagina 22 Poesie Nanni Balestrini Blackout pagina 15 Marica Larocchi Moulage en pi du roi Ekn pagina 16 Le finestre Francesco Leonetti Le forme di loua pagina 6 Amber Bousoglou Intervista a Milan Kundera pagina 12 Le foto Giovanni Giovannetti Le lettere Lettera di un operaio di Torino sui licenziamenti Fiat e l'Flm Riflessioni nel leggere Alfabeta n. 9 pagina 21 Con il lavoro a domicilio, lafamiglia ridiventa cellula produuiva, al cui interno un ruolo particolare speua alla componente femminile. Soprauu110 diffuse le industrie tessili con meno di 250 addeui (maglieria e ca/zeueria in particolare) e l'industria delle calzature e affini, come pelli e cuoio. Per Ugo Ascoli, «possiamo dire di aver assistito ad una verariconversione industriale di larghi seuori del capitalismo italiano, dalle regioni Nord-Ovest a quelle Centro-Nord-Orientali, il cui sviluppo ulteriore sembra oggi porsi in alcernativa allo sviluppo industriale del sud. In alcune regioni del meridione staremmo addiriuura assistendo al tentativo, parzialmente riuscito, di smantellamento dello scarso tessuto industriale presente, prevalentemente pubblico (vedi il caso emblematico {lei/a Calabria)> («Economia periferica e societàperiferica», Inchiesta37J. Per Giorgio Boatti, è un processo economico-politicomilitareche tende afare del settentrione «la Baviera mediterranea, tutro ordine e lavoro, controllo sociale e repressione del dissenso» («/ congiurati del 14 dicembre», Lotta continua 16 dic. 1979). Castelgoffredo, in provincia di Mantova, «capitale del collant», rientra in questaseconda Italia «periferica». Una organizzazione decentrata e capillare del lavoro - rodata da almeno un ventennio - che ha reso la calza monocultura e il contestosocialeruraleparallelo sovrapposto a volte al ciclo di produzione della calza, fanno di Castelgof [redo un esempio particolarmente adatto a i/lustrarelepeculiarità della «componente periferica» dell'Italia che tira. A Caste/goffredo, la storia della calza ha inizio nel dopoguerra quando, su un tessuto totalmente agricolo, si impianta la Noemi, una ca/zeueria che dà lavoro amille dipendenti. Molti di loro, una volta imparato il mestiere, danno vita a piccole unità artigiane.Altri operai Noemi integrano il salario con un supplemento di ore lavorative a domicilio, tagliando o imbustando collant. Così, quando una decina d'anni fa la fabbrica chiude, si atrivizza e sviluppa una intricatareteproduniva sommersa, definita in uno studio della Camera di Commercio di Mantova «una grande azienda composta però da una miriade di cellule capaci di auivarsi, integrarsi, riprodursi». Una «grande azienda» che produce ricchezza per 100 miliardi l'anno. Giovanni Giovannetti alfabeta mensile di informazione culturale Comitato di redazione Nanni Balestrini, Maria Coni, Gino Di Maggio, Umberto Eco. Francesco Leonetti, Antonio Porta. Pier Aldo Rovatti, Gianni Sassi. Mario Spinella. Paolo Volponi A n director Gianni Sassi Grafico Bruno Trombetti Direllore editoriale Gino Di Maggio Redazione, amministrazione Multhipla edizioni. 20137 Milano. Piazzale Martini. 3 Telefono (02) 592.684 Composizione GDB fotocomposizione via Commenda41. Milano.Te!. 544.125 Tipografia S.A.G.E. S.p.A .. Via S. Acquisto 20037 Paderno Dugnano (Milano) DiWibuzione Messaggerie Periodici Abbonamento annuo L. 9.000. estero L. I2.000 (posta ordinaria) L. 15.000 (posta aerea) Inviare l'impano a: Muhhipla edizioni. Piazzale Martini 3. 20137 Milano. Conto corrente postale n. 59987206 Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 281 del I975. Responsabile G. Di Maggio
Franco Donzelli Economia. Serie «La cultura del 900,. Milano, Gulliver, 1979 pp. 122, lire 4.500 Guido Montani Valore e prezzo. Saggio su Sraffa e la scienza economica Pavia, Edizioni C,k,. 1979 pp. 115, s.i.p. Carlo Boffito Efric:ienzae rapporti sociali di produzione , Torino, Einaudi, 1979 pp. 119, lire 6.000 Stefano Zamagni . Georgescu Roegen. I fondamenti della teoria del consomatore Milano, Etas Libri, 1979 pp. 258, lire 7.000 CJera una volta la teoria economica, divisa in due campi fieramente avversi, che erano rispettivamente quello dell'economia borghese da un lato e dell'economia marxiana dall'altro. Esiste questa contrapposizione ancora oggi? A leggere gli scritti dei -giovani leoni dell'economia politica italiana, si direbbe proprio di no, e che se battaglia vi fu, essa fu combattuta ai tempi di Omero e di Valmichi. Ma quei son tempi antichi, e Marx or non è più. L'operazione pacificatrice è complessa e si articola in diverse mosse. La prima consiste nel ridurre la scienza economica borghese a quel segmento particolare dell'economia borghese che è rappresentato dalla scuola neoclassica. I neoclassici rappresentano certamente il culmine teorico dell'economia borghese. La loro dottrina fiori (per chi ama fissare confini cronologici, sempre approssimati) fra il 1870 ed il I 914 (il suo affermarsi venne dunque a coincidere con il quarantennio di vigore dell'impero germanico). Essa venne inaugurata con la pubblicazione quasi simultanea delle tre opere basilari, di W.S. Jevons in Inghilterra, di K. Menger inAustria, di L. Walras in Francia. Dopo di allora, essa divenne la dottrina ufficiale della classe dominante, insegnata in tutti gli atenei, professata dagli uomini di governo e dai loro consiglieri. La dottrina neoclassica ebbe due aspetti notevoli. Il primo, a mio avviso il più importante, non è tipico della scuola neoclassica, ma è comune all'intera dottrina economica borghese. Esso è stato denominato «individualismo metodologico,. e consiste nel postulato secondo cui i meccanismi economici potrebbero essere analizzati compiutamente partendo dall'esame del comportamento del singolo individuo isolato, e quindi prescindendo da qualsiasi concetto di classe o di gruppo sociale. Questo assunto lungi dall'essere tipico dei neoclassici, si trova anche presso economisti borghesi che precedettero la scuola neoclassica, come, tanto per citare due nomi di rilievo, N. Senior e J.B. Say. Il secondo aspetto notevole della scuola neoclassica, e questo invece suo proprio, è costituito dalla teoria della distribuzione del reddito nazionale, e precisamente dall'idea che il mercato, pur: ché viga concorrenza perfetta, dia a ciascuno un compenso corrispondente al contributo dato alla produzione sociale, e che il contributo di ciascuno possa essere correttamentemisurato dalla cosi detta produttività marginale di ogni risorsa (donde l'appellativo di teoria marginalista toccato alla scuola neoclassica). L'identificare il pensiero borghese con la scuola neoclassica presenta vantaggi non indifferenti. Anzitutto, cosi facendo, l'economia borghese invece di apparire come una ideologia che, sia pure in forme diverse, si riproduce in diverse epoche storiche, può più coC'eraunavolta lateoriaeconomica modamente essere trattata come un episodio cronologicamente ben definito, dotato di una precisa data di nascita, di una esistenza limitata e di una conclusione certa. La stessa identificazione consente di concentrare la discussione su quell'aspetto dell'economia borghese che è specifica della scuola neoclassica, e cioè, sulla validità della teoria marginalistica della distribuzione. Q uesto passo non è di poco momento. Sebbene compiuto il più delle volte in modo silenzioso e quasi subdolo, esso risulta denso di significato, in quanto chi lo compie rinuncia ad attaccare la dottrina borghese mediante una critica esterna, e opta invece per la formulazione di una più raffinata, ma intrinsecamente debole, critica interna. Chi discute la dottrina borghese nel suo complesso, non può che discuterne l'impianto, e quindi i presupposti di base. Chi invece discute quella particolare sezione della dottrina borghese rappresentata dalla scuola marginalistica, discute lo svolgimento tecnico che gli assunti del pensiero borghese hanno ricevuto in quella scuola. La critica svolta in tal modo diventa una critica interna, che non tocca gli assunti di base, ma si limita ad esaminare le elaborazioni logiche che tali assunti hanno ricevuto e le conclusioni che ne sono state tratte. Una critica siffatta, proprio perché basata sull'accettazione dei principi di base, è la critica tipica dei sostenitori del pensiero borghese, di coloro cioè Augusto Graziani hanno compiuto nella candida convinzione che una dottrina imperante nell'accademia andasse combattuta con armi accademiche di pari dignità. Ma, a parte la nobiltà del movente, i risultati sono stati immediati e fatali. Una volta presa la decisione di ri.. durre la teoria borghese alla formulazione neoclassica di impostare la critica e alla teoria neoclassica come critica interna, il passo successivo non poteva trasformata cosi in una gigantesca caccia all'errore, viene ad essere presentata non più come un avvicendarsi di visioni diverse, con le rispettive continuità, trasformazioni e conflitti, bensì come una storia manichea i cui personaggi si dividono in buoni e cattivi a seconda che essi abbiano commesso errori analitici, o ne siano andati esenti. essere che uno solo: quello di puntare N ella storia così raccontata coml'attenzione sulla teoria neoclassica paiono due grandi piloni, che della distribuzione del reddito nazio- sono Ricardo e Sraffa; il resto è nale. Esaminata a fondo e con severi- costituito da campate intermedie, o tà, questa teoria fu trovata carente nel- addirittura, come accade per i poveri la sua costruzione analitica. Come è. neoclassici, da periodi di oscura decanoto, la teoria economica neoclassica è- denza. La discussione dell'impianto di costruita come teoria del mercato, e ogni teoria, dei suoi presupposti di l'insieme dei prezzi di equilibrio viene base, delle sue radici ideologiche, pasvisto come determinato attraverso il sa in secondo piano: quello che conta è gioco della domanda e dell'offerta. la maggiore o minore correttezza forOra, è possibile mostrare che alme- male con cui la teoria dei valori e.dei no per una delle risorse (il cosiddetto prezzi è stata trattata. capitale) non è possibile definire cor- In questa prospettiva, Ricardo direttamente né la quantità domandata venta colui che per primo impostò il né quella offerta; e che qualora, per problema in termini corretti, anche se sfuggire a questa difficoltà, invece di non seppe condurre l'analisi sino al considerare il capitale nel suo com- suo logico compimento; seguono lunplesso, si prendano in considerazione i ghi decenni di decadenza, fino a che singoli beni capitali (attrezzi, macchi-_ non si arriva al 1960, anno del nostro nari, e via dicendo) cercando di de- riscatto, quando finalmente Piero terminare un prezzo per ciascuno di Sraffa, pubblicando il suo Produzione essi, diventa impossibile individuare di merci a mezzo di merci, completò il una posizione di equilibrio pieno. In monumento avviato da Ricardo e dieta! modo, la teoria neoclassica della de all'umanità la parola finale in matedistribuzione, la famosa teoria margi- ria della teoria dei prezzi. E Marx? nalistica. che cercava di dimostrare Possiamo lodare la sua buona volontà; come il mercato paghi ogni risorsa in ma dobbiamo riconoscere che anch'eragione del suo contributo produttivo, gli cadde vittima di errori (anzi, guare come di conseguenza ilmercato capi- dacaso, dello stesso errore in cui cad- ----- Fabbricai.ionedellacalzagreua. CalzificioGarda - Sarca. Le linee (cento macchineognuna) sono otto, in funzione24 ore su 24. Gli addetti sono quattro per turno. Due le loro mansioni:riavviarela macchinanel caso di rottura del filatoe sostituirele rocche esaurite che, volendo conservare l'impianto generale, quello che ingloba l'intelaiatura ideologica, si preoccupano di snidare gli errori di elaborazione, e di sostituire, sempre nell'ambito delle medesime ipotesi di partenza, quei pezzi della costruzione che risultino viziati. Per questa stessa ragione, una critica interna diventa immediatamente debole (ma, ancor prima che debole, illogica e inutile) se esercitata da chi il pensiero borghese intenderebbe irivece avversare. I critici italiani del pensiero borghese, almeno quelli accademici, hanno compiuto, nella stragrande maggioranza, questo passo falso. Forse lo talistico di concorrenza perfetta possieda anche validi attributi di giustizia sociale, viene a crollare. Essa, lungi dall'essere una teòria con le carte in regola, è frutto di un semplice abbaglio. Fedeli al loro canone di metodo, i critici del pensiero borghese, una volta impossessatisi di questa argomentazione critica, l'hanno elevata a criterio di giudizio universale, applicandola non soltanto alla teoria marginalistica della distribuzione (che è la sua sede corretta) ma anche alla critica dell'intero pensiero borghese, e addirittura alla valutazione di ogni altra teoria. La storia dell'analisi economica, dero successivamente i neoclassici), per cui, se il criterio di valutazione resta sempre quello del corretto svolgimento della teoria del valore, anche Marx va gettato nel mucchio di coloro che sbagliarono. Chi si voglia documentare su queste amenità della teoria economica italia- • na, non ha che l'imbarazzo della scelta. Una lettura iniziale senz'altro raècomandabile è quella della Voce «Economia» scritta da F. Donzelli per l'enciclopedia monografica La cultura del 900 (Milano, 1979). In questo agile volumetto, al quale non mancano certo i pregi della chiarezza (non solo di dettato ma anche di intenti) si trova l'esemplificazione più netta di una storia del pensiero economico ricostruita come linea e campata unica fra i due piloni Ricardo e Sraffa, che, collocati a distanza di un secolo e mezzo l'uno dall'altro, reggono sulle loro spalle il peso dell'intera teoria economica di cui l'umanità disponga. E tutti gli altri? È presto detto. Marx va considerato con «la più grande cautela», data «l'esistenza di incrinature all'interno della stessa sua opera» (pag. 94). Keynes si collocò su posizioni innegabilmente rivoluzionarie; ma il suo è un apporto empirico, avendo egli rilevino la gravità della crisi e la necessità di un intervento pubblico, mentre sul terreno prettamente teorico il suo apporto è inadeguato. Schumpeter tentò di costruire una teoria del movimento economico, ma non ebbe seguito, per cui, insieme a Kalecki, viene collocato in un'appendice finale, che funge da galleria degli antenati inutili. Viceversa Sraffa è autore di «un vero e proprio cambiamento di paradigma e di un mutamento nelle basi concettuali su cui si fonda la teoria economica» (pag. 78). Peccato che l'autore non riveli in cosa consista questo nuovo e rivoluzionario paradigma, e quali siano queste nuove basi concettuali; perché qualche malintenzionato poìrebbe addirittura sospettare che tutte queste innovazioni poi non vi siano. In compenso, sempre senza dimostrarlo, l'autore ci assicura che la «visione del sistema economico implicita nella teoria di Sraffa presenta strette analogie con il punto di vista degli economisti classici e di Marx» (pag. 121). E, con questa pace nell'animo, converrà fermarsi, perché, come insegna Pirandello, non bisogna dir male dei vescovi. U na seconda lettura che consiglio vivamente, sempre nel buon solco della produzione nazionale, è quella del libretto-pamphlet di Guido Montani, Valore e prezzo (Edizioni Jes, Pavia, 1979). Questo autore lucido e determinato quanto il primo, si presenta come un modello di coerenza. Se nel valutare una teoria, il criterio di giudizio è quello della correttezza formale, due conclusioni possono essere desunte immediatamente. Ecco la prima: due teorie del valore, quella del valore-lavoro di Marx e quella del valore-utilità dei marginalisti, essendo ambedue erronee sul piano della logica formale, vanno ambedue al rogo. E la seconda: siccome, dopo l'avvento di Sraffa, l'umanità dispone finalmente di una terza teoria dei prezzi e della distribuzione, questa logicamente impeccabile, ogni ragione di controversia fra economisti borghesi ed economisti marxisti perde la sua ragion d'essere. So che a questo punto, il lettore rifiuta di credermi. Cedo quindi la parola all'autore il quale si esprime cosi: «Attualmente, con la formulazione della moderna teoria del valore siamo probabilmente in condizione di veder finire questa assurda pretesa che esistano due scienze, due verità, per spiegare lo stesso fenomeno, il sistema capitalistico. La teoria del valore-lavoro, in quanto strumento analitico per determinare i prezzi e la distribuzione del reddito, non può più essere difesa. Essa è chiaramente soppiantata da una teoria dei prezzi che, pur richiamandosi alle fondamenta della scuola classica, ne dimostra i limiti e le incongruenze. «D'altro canto, la nuova teoria del valore non presenta nemmeno i difetti della vecchia teoria marginalistica, che forniva una spiegazione economicistica alla distribuzione del prodotto sociale, e che costituivano un ostacolo obiettivo alla sua adozione da parte dei teorici del movimento operaio. «Si può pertanto sperare che i tempi siano maturi per il superamento del
-~ l: .e:, .e:, ~ e ..... contrasto fra economia borghese ed economia marxista. La realtà, quella sociale come quella fisica, non ammette più di una spiegazione 'vera' per lo stesso fenomeno». Il lettore è ancora incredulo? Voglio proprio augurarmi che non lo sia. Tutto sommato, il distinto autore che ci occupa non fa che applicare correttamente e sistematicamente, quel metodo di critica interna sul quale ci siamo trattenuti all'inizio. Non è stato lui ad escogitare questo metodo. Altri e più autorevoli vescovi gli hanno indicato la strada. Egli si limita a percorrerla d'un fiato sino al fondo. Perché rimproverarlo? Del reato, egli non è né solo né isolato. Pochi mesi or sono, abbiamo appreso dalle autorevoli colonne di Rinascita che «da Smith a Ricardo, fino a Marx e Sraffa, il problema è questo, e sempre lo stesso - malgrado le diverse soluzioni proposte: come misurare gli aggregati di merci che determinano la distribuzione del reddito fra le classi sociali in modo che (la misurazione) non dipenda ... dalla distribuzione del reddito» (G. Conte, «Lord Keynes e Karl Marx: incontri ravvicinati di terzo tipo», Rinascita, 1979, n. 35). Ed abbiamo altresi notato, peraltro senza ombra di stupore, che allorché Giorgio Lunghini, dimentico del monito pirandelliano, ha osato levare una voce di protesta per sostenere che Ricardo e Marx e Sraffa non sollevarono gli stessi problemi e che le loro opere non sono la continuazione ed il perfezionamento l'una dell'altra, nonché per chiedere che sulle implicazioni politiche di questo modo peculiare di fare storia dell'analisi economica venisse D alle pagine culturali, su cui si è manifestata qualche riflessione non particolarmente euforica nel n. 8 (dicembre 1979) di Alfabeta, ai beni culturali. Che posto ha, che cos'è nella coscienza degli italiani un bene culturale? Si direbbe che sia nato prima il suo ministero che la nozione chiara e distinta dell'oggetto. li bene culturale nella prospettiva della cultura è un po' come il segno in quella semiotica: esiste qualcosa che non sia un segno? Analogamente, esiste all'interno di una cultura qualcosa che non sia in un certo senso un bene culturale? Anche un albero, ovviamente, dentro un sistema di tipo industriale tendente a sostituire. il cemento agli alberi diviene bene culturale. Che cosa allora non è bene culturale? Quello che è un male culturale, cioè lo stesso bene capovolto? Non è il caso in questa sede, che richiede sobrietà, di soffermarsi su una teoria e fenomenologia del bene culturale e nemmeno sulla sua storia linguistica (quando è nato e come si è diffuso il sintagma «bene culturale»?); si vuole qui scendere nella brutale prassi, dato che oggi nel nostro paese le carenze si riferiscono più che al teorizzare al fare e al fare correttamente, al punto che si può dare un significato letterale, rovesciando la direzione dell'ironia ma non eliminandola, alla famosa frase di Ionesco: «Les paroles seules comptent. Le reste est bavardage». Troppo spesso infatti si ha la curiosa impressione che il costruire o fare sia diventato nel paese un «bavardage» (quello che in Toscana si dice «ciancia») e conti solo il parlare. Fermiamoci sulla nozione classica di bene culturale: per esempio, un Fondo che raccolga manoscritti di autori di rispetto è un bene culturale? Pare già di sentire la reazione del lettore: «Ma chedomande!Senonè unbeneculturale quello, che cosa lo è?». Eh no, le cose italiane non sono così semplici; donde l'utilità di qualche premessa perché più chiari risultino il centro della quaestio e i contorni. N et nostro contesto nazionale possono verificarsi almeno tre circostanze alquanto allarmanti: la prima è quella per cui cose insignificanti vengono trattate da beni culturali aperto un dibattito, il suo intervento è stato spedito d'autorità in ultima pagina, riprodotto in caratteri che anche un microscopio elettronico avrebbe stentato a decifrare, e, inutile dirlo, non si è aperto alcun dibattito. V iene infine una terza lettura che vorrei ricordare: È una lettura che non mi sentirei di raccomandare ad alcuno, ma che è significativa nel quadro dell'ebbrezza sraffiana, che anima i nostri giovani economisti. Si tratta del saggio di C. Boffito, Efficienza e rapporti sociali di produzione, che compare nientemeno che nella autorevole serie dei Paperbacks Einaudi (una sede un po' eccessiva, per un libretto avventuristico e costellato di imprecisioni analitiche; ma non è il caso di fare gli schizzinosi). Cosa vuole dunque Boffito? Due cose molto ardite, la prima di natura storica, la seconda riguardante temi di gestione dell'economia. Boffito riprende ancora una volta la teoria neoclassica per criticarla lungo linee ormai note (e nemmeno le più aggiornate). Ciò detto, egli balza in groppa al destriero di Sraffa, per sostenere che gli algoritmi sraffiani consentono di mettere a punto un sistema teorico decisamente superiore rispetto a quello neoclassico, in quanto non solo esente da errori analitici, ma dotato altresì di maggiore generalità, perché capace di spiegare il funzionamento del sistema economico anche nelle situazioni di crisi e di disoccupazione. Purtroppo questo ambizioso sforzo teorico resta un mero auspicio, visto che lo schema che l'autore costruisce funziona soltanto nei casi di equilibrio e di piena occupazione (come lo stesso autore riconosce onestamente a pag. 58), ed è quindi una tranquilla ripetizione dell'esecrato schema neoclassico. Il secondo cimento di Boffito è quello di servirsi del bagaglio teorico accumulato nella prima parte, per criticare il sistema sovietico e le sue riforme. Qui il ragionamento è davvero peculiare. Sostiene Boffito, e fin qui con ragione, che gli economisti sovietici riformatori (veng_onocitati soprattutto Kantorovic e Novozilov) hanno tracciato progetti di pianificazione ottimale basandosi in prevalenza sulla teoria economica neoclassica. Il lettore si attenderebbe a questo punto che Boffito lamenti quello che tanti hanno lamentato e cioè che, cosi facendo, i riformatori sovietici finiscono col proporre una restaurazione del mercato, accettan·done implicitamente i difetti. Invece, la critica di Boffito è un'altra: che, siccome la teoria della pianificazione ottimale incappa inesorabilmente negli errori della teoria neoclassica, allora l'unica soluzione accettabile è quella di ... restaurare il mercato! Su quale base questa raccomandazione venga fatta, non è dato di sapere. Un economista neoclassico che raccomandasse il rispetto del mercato • direbbe cosa molto concreta, dal momento che egli crede in una teoria che spiega con precisione in che modo il mercato funziona. Ma Boffito non dispone di alcuna teoria che spieghi il funzionamento del mercato, per cui quello che egli raccomanda è press'a poco un salto nel buio. Ma allora è un guazzabuglio? Si direbbe di si. E si direbbe anche che da questo guazzabuglio è inutile tentare di districarsi. La peste della critica antimarginalistica ha inquinato i cervelli. Possa un diluvio purifica_torerestituire luce alle menti obnubilate. Quella luce che, a dispetto dell'opera nefasta degli epigoni, illumina le nitide pagine di Piero Sraffa. P rima di chiudere queste note, vorrei richiamare l'attenzione del lettore su un ultimo libro, che invece raccomanderei a tutti di leggere, perché opera di tutt'altra levatura e finezza. Il libro si intitola Georgescu Roegen. I fondamenti della teoria del consumatore (Milano, Etas Libri, 1979); ne è autore S. Zamagni. Il Georgescu Roegen, rumeno di origine, residente da oltre un trentennio negli Stati Uniti, fu inizialmente matematico e statistico, e si convertì allo studio dell'economia sotto l'influsso di Schumpeter, con il quale era entrato in contatto durante un soggiO(IIOall'Università di Harvard. Il libro di Zamagni tuttavia, assai più di una biografia intellettuale di questo autore, rappresenta una storia della teoria economica della domanda. Siamo dunque nel cuore dell'economia neoclassica, e di questa scuola Zamagni, pur trattando una categoria assai specifica, riesce a far rivivere grandezze e tragedie. La teoria neoclassica assume l'agire indipendentemente dall'individuo come base esplicativa dell'intero meccanismo economico; la teoria della domanda individuale è dunque il pilastro che la regge. Ogni critica avanzata contro la teoria della domanda, come Zamagni mostra, è stata sempre valuBeniemaliculturali e beni culturali vengono trattati da cose insignificanti. La seconda è quella per cui i beni culturali sono esattamente individuati, ma l'operazione non prende l'avvio perché le forze politiche non si mettono d'accordo a quale di loro spetti l'iniziativa. La terza circostanza rivela natura più grossolana: la tutela, il potenziamento e il restauro di un bene culturale sono affidati a persone o imprese che non hanno competenza e specializzazione necessarie. Le occorrenze dei tre più o meno sconcertanti fenomeni sono varie, ma essi possono in questo mondo complicato,, oscuro e confuso capitare tutti e tre addosso allo stesso bene culturale. Altrimenti come si farebbe a sprecare tanti milioni. Osserviamo le tre circostanze più da vicino. Poiché ogni cosa nella struttura sociale può avere almeno una proprietà che la inserisca in una concatenazione con altre cose generalmente e pubblicamente riconosciute come beni culturali comuni, non è difficile creare per particolari interessi economici un tale legame o collegamento, dopo di che senza troppe deviazioni dal decoro l'operazione che sta a cuore a qualcuno più che alla cultura è fatta, il fine raggiunto: che è poi quello di ottenere da un ente pubblico una sovvenzione sotto forma di contributi, spesso iterati annualmente e magari al di là delle effettive esigenze del bene o pseudo bene. In tal caso i contributi vengono ad assomigliare alla lava dell'Etna: dopo un po' di scorrimento si pietrificano, cioè non scorrono più verso altri beni culturali più bisognosi di aiuto, ma annualmente restano dove sono arrivati. A questo proposito un minimo di pratica, di esperienza della vita dei nostri enti pubblici, locali e no, insegna che vigili stradali dei contributi, regolatori del loro traffico e flusso sono spesso i cosiddetti destinati alla guida del paese, gli ineffabili politici. E poiché, in base alla circostanza da noi denominata seconda, le forze partitiche lottano a tutti i livelli delle istituzioni per un estenuante quanto nei risultati vacuo equilibrio di potere, la conseguenza è un ritardo operativo che ha spesso esiti catastrofici per quei beni culturali a cui è necessario un Maria Corti Riavviamento della macchina in caso di rouura del filato pronto soccorso e intervento. E adesso ci si sono messi anche gli scontri fra regionalisti e antiregionalisti all'interno di uno stesso partito (i parchi, ad esempio, devono essere nazionali o regionali?) e i nuovi proposti rapporti fra Stato e Chiesa della bozza per la revisione del Concordato, problema inquietante nei riguardi dei beni culturali e di recente segnalato con apprensione da Antonio Cederna nell'articolo Quei poveri, trascurati beni culturali del Corriere della Sera del 6 gennaio 1980. Eppure sarebbe proficuo a tutti, ai politici e agli enti, a chi propone o dispone e a chi esegue, riflettere su una massima di Musil nell'Uomo senza qualità (voi. 1, cap. 40): «c'è un aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento di impotenza». Perché un certo tipo di potenza sbocca fatalmente nell'impotenza? Quali sono le strade attraverso cui l'impotenza avanza? Molte, come le strade della Provvidenza. Ma due prendono spicco: la prima avvia al fatto che chi ce l'ha il potere e lo esercita è ignaro del significato della massima di Musil; crede di possedere un'arma meravigliosa dalla funzione irresistibile, atta a fargli fare quello che egli vuole. Se il potere non si potesse confondere facilmente con il diritto di realizzare ciò che si reputa fruttuoso a sé e ai propri amici, sarebbe più arduo accumulare tante cose sbagliate si da raggiungere a lungo andare l'impotenza politica. E di conseguenza sarebbe più arduo per le nostre istituzioni che si occupano di beni culturali dare una simile immagine di prestazione ridotta a causa di cattive condizioni di salute. La seconda strada prevede un percorso differente: è la via della onesta incompetenza o incapacità in area specifica, che fa fare errori a vari livelli, da quello daccapo di chi propone, dispone, impone a quello di chi esegue. Ecco in tal caso gli enti pubblici emettere disposizioni difficilmente comprensibili, salvo rifarsi di nuovo come auctoritas a Musi!, là dove spiega come sia molto più agevole riconoscere e far riconoscere l'ingegnosità di una oleografia che la grandezza di una tela di Van Gogh. Si sa d'altronde come sia difficile da delimitare l'incompetenza e quanto la sua grandezza sia direttamente proporzionale alla vastità del terreno su cui essa può esercitarsi. È vero che la realtà ci costringe all'ammissione che c'è anche malafede, cioè mancanza di qualcosa ma non di competenza; però, oh buon Dio, non facciamoci illusioni, ce n'è meno di quello che si creda: la forma più diffusa e triste di distruzione dei beni culturali è quella casuale. La terza circostanza, si è detto, rivela natura più rozza, e quindi esiti più maldestri: la tutela e il restauro di un bene culturale, finalmente passati dalla fase di programmazione resa dagli interventi partitici lentissima e macchinosa a quella di attuazione, sono praticamente male affidati. P ossono essere utili e suggestivi due esempi, presi da due articoli dell'architetto Maria Teresa Saracino della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Milano, usciti rispettivamente nel n. 37 (aprile 1979) e nel n. 38 (maggio 1979) della rivista Weekend. Nel primo, dedicato alla curiosissima storia del restauro del Torrazzo di Cremona, così la Saracino prende l'avvio: «Ci si immagina che un monumento sia un cumulo di sassi e mattoni, capace di suscitare al più sensazioni estetiche, e per chi se ne occupa direttamente restaurandolo, emozioni tata con questo metro; e, in tutti i casi in cui la critica ha messo in forse il principio del metodo individualista, essa è stata severamente combattuta, o disinvoltamente ignorata. Questo retroterra di carattere generale va tenuto costantemente presente, anche quando si analizza un problema così specifico come quello della teoria della domanda, perché solo il retroscena consente di comprendere le battaglie che si svolgono alla ribalta. Georgescu Roegen, sostiene Zamagni, sviluppò una critica che, se da un lato era assai avanzata sul piano analitico, dall'altro osava attaccare la scuola neoclassica nel suo cuore individualista. Perciò, nonostante gli onori formali, il suo insegnamento venne sostanzialmente ignorato. Questi cenni sono sufficienti per comprendere come Zarnagni si ponga su posizioni di metodo opposte a quelle esaminate in precedenza. Nella sua costruzione i fondamenti di ogni formulazione teorica non stanno nella sua maggiore o minore coerenza logica interna, per cui non sarà mai sulla base di considerazioni di logica pura che si potranno stabilire punti di convergenza fra teorie che poggiano su visioni ideologiche diverse. La storia delle idee economiche non è dunque un succedersi di errori e di correzioni, in una linea di progresso costante, sulla base di una sostanziale concordia di assunti; è invece una storia di conflitti assai più profondi, radicati nelle ideologie, e ancor più nei conflitti sociali. C'era una volta la teoria economica. Consoliamoci. Forse esiste ancora. scientifiche, ma per me non è stato cosi; il mio incontro col Torrazzo di Cremona, per una serie di circostanze che chiarirò in seguito, è stato un incontro che ha messo a dura prova tutta una serie di valori in cui credevo, e che alla fine ha visto come nella storia di Davide e Golia trionfare, contro ogni probabilità, il più debole sul più forte». Che cosa è successo? Essendo la «ghirlandina», cioè la guglia terminale gotica del Torrazzo soggetta a una distruttiva erosione, si progettò in loco un'operazione di anni e di miliardi che avrebbe portato al rifacimento dei pezzi erosi. La Saracino, incaricata come funzionario di zona di occuparsi della cosa, rilevò subito due fattori inaccettabili nella progettazione locale: il metodo (rifare i pezzi invece che restaurarli) e i prezzi. Per farla breve, contro i tre miliardi del progetto la spesa fu di 140 milioni e l'esito un vero restauro con l'uso di colle speciali, non un rifacimento. Ma il più bello viene adesso, un tocco di perfezione al quadro: i fautori della precedente soluzione avviarono una campagna di stampa contro la Saracino, accusata di essere «femminista e arnica degli omosessuali»; inoltre un'interrogazione alla Camera da parte di un onorevole, il quale voleva sapere come mai per restaurare il Torrazzo si spendesse così poco! Secondo esempio, di ambito milanese; protagonista l'arco della Pace dalla lunga avventura: ideato per celebrare l'arrivo a Milano del vicerè Eugenio Beauhamais, la sua costruzione durò dal 1806 al 1837, interrotta e ripresa in sintonia coi vari cambi di dominazione su Milano e quindi di uomini politici che dovevano avere l'onore di passarci sotto; ci fu anche la complicazione del cambio di battaglie da immortalare nei bassorilievi: alla battaglia di Marengo toccò trasformarsi in battaglia di Lipsia. Sotto questo arco passarono Napoleone III e Vittorio Emanuele II, che se Io reintestarono a mezzo lapide bronzea; poi fu la volta di Vittorio Emanuele III nel 1921, di Benito Mussolini nel 1923; e nel 1960? No, non vi passò Gianni Agnelli, ma due modelli nuovi di macchine Fiat. La Saracino, descritte le fasi della
costruzione del monumento e del suo variopinto inserirsi nel quotidiano milanese in diversi momenti (la gente che bastonava le statue, i «brumisti> o vetturini che lo usavano quale orinatoio, le coppie che vi facevano altro uso, i nottambuli che vi giocavanò d'azzardo, i lavoratori che vi aspettavano il tram di Affori ecc.), ci informa che l'arco sta sfarinandosi, donde la necessità di impregnare la pietra cor. specifici prodotti consolidanti; ma tale lavoro è del tutto carente, donde il drammatico interrogativo finale: «si conserverà la ditta appaltatrice o l'arco della Pace?>. Di queste malinconiche alternative, di queste foto di gruppo del nostro costume sociale e civico è fatta buona parte della storia dei beni culturali in Italia. A questo punto, come variatio, una denuncia che investe quel particolare genere di bene culturale costituito dai manoscritti di poeti e prosatori. Una scheletrica cronistoria: nel 1969 mi proposi di creare un «Fondo manoscritti di autori contemporanei> presso l'Istituto di Storia della lingua italiana dell'Università di Pavia; i più importanti scrittori, primo fra tutti Montale, donarono in abbondanza; nel 1973 il Fondo fu ufficialmente riconosciuto. Scopo dell'impresa: cooperare al salvataggio e alla tutela di materiali preziosi alla cultura, sottraendoli ad eredi inesperti o tout court distruttori, a esperti ma pronti a vendere all'estero, a collezionisti che li fanno scomparire dalla circolazione culturale; indi mettere i testi a disposizione degli studiosi. Nel 1976 giunse al Fondo una missiva di Francesco Callari che, a nome della rivista Concretezza diretta da Andreotti, chiedeva di riempire un formulario per un'inchiesta di livello Storia del marxismo Progetto di Eric. J. Hobsbawm, Georges Haupt, Franz Marek, Ernesto Ragionieri, Vittorio Strada, Corrado Vivanti. Voi. I ( cli marxismo ai tempi di Marx>); voi. II ( cli marxismo nell'età della Seconda Internazionale>) Torino, Einaudi, 1978-79 pp. 381, 948; lire 12.000, 24.000 G iunta al secondo voiurne- a metà del guado, come oggi si dice - la imponente Storia del marxismo einaudiana merita qualche riflessione. Essa vorrebbe essere una storia del marxismo, e cioè di una qualche costante o possibilità teorica chiamabile Marxismo. Tuttavia questa possibilità teorica non viene individuata e neppure proposta: simile al noumeno kantiano, di essa non si parla, sebbene si parli a proposito di essa. La ragione è il non far storia di una vulgata data, e far rientrare, anzi, in una storia del marxismo anche i dibattiti di altre sponde (Sorel, poniamo, o Bogdanov o W. Morris). Dibattiti che alla storia del marxismo si intrecciarono. 1 Può darsi che sia meglio, per non incappare nel dogmatismo, non muovere da un nocciolo di concetti identificabili come «marxismo>, e lasciare che l'oggetto di questa Storia emerga, per quanto può emergere, attraverso i dibattiti di cui esso è l'antecedente noumenico. Ma si corre il rischio, anziché di comporre una storia, di fare un'antologia di contributi «a proposito del marxismo>. Perdippiù, in questo modo, è difficile individuare a quale pubblico si rivolga: studenti, studiosi, o le c.d. persone colte; cioè come e per chi essa voglia essere strumento di informazione. Sotto questo punto di vista occorrerà aspettare anche il IV volume dove un indice bio-bibliografico dei collaboratori, suppongo, apparirà, onde orientare il lettore sulle collocazioni culturali e civili dei collaboratori, notevolmente eterogenei fra di loro. Eterogeneità che vuole avere, ripeto, come contropartita attiva il pluralismo delle voci. L'equilibrio, con tale pluralismo, dipende dalla tenuta del corpo redazionale; come diremo, tale tenuta è stata piuttosto fiacca, specialmente nel secondo volume. Una struttura oggettivante che sia nazionale; vi si domandava quali enti pubblici dessero sovvenzioni, quali privati, in che misura annuale ecc. Da Pavia fu risposto che quella missiva suscitava qualcosa di simile all'ilarità, non possedendo noi una lira, non avendo ottenuto alcun contributo con cui apprestare e stampare un catalogo, acquistare eventuali manoscritti in vendita ecc. In data 16 settembre 1976 apparve su Concretezza (anno XXII, n. 18) un lungo articolo del Callari, che suonava la sveglia al Ministero dei beni culturali, agli enti regionali e locali perché si accorgessero della nascente impresa e la sovvenzionassero. Non avendo ancora imparato a riflettere sulla frase sopra citata di lonesco, partii con metodo molto arcaico e primnivo alla volta dei ministeri. È certo che a Roma chiunque riceve, dal proprio miscuglio di immagini, sensazioni e ragionamenti, l'impressione che qualcosa non va, ma non è sempre in grado di dire esattamente che cosa; ci si limiterà quindi a elencare fatti. Nelle alte sfere del Ministero dei Beni Culturali mi fu risposto che l'impresa era assai importante, ma che non li riguardava, non essendo il Fondo depositato presso una biblioteca nazionale; andassi al Ministero della Pubblica Istruzione, dove la cosa era di diretta pertinenza. Al secondo Ministero, che è poi quello da cui professionalmente dipendo, mi si rispose che l'impresa era assai importante ma senza precedenti, sicché non esisteva una casella in cui inserirla per poter assegnare un contributo. Alla mia proposta di crearla questa casella, si fece notare che ci sarebbero voluti anni e anni, mentre la Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva strutture appropriate al caso del Fondo pavese. Alla Presidenza del Consiglio un dirigente ascoltò con attenzione, propose di creare una Fondazione dopo di che avrebbe potuto assegnare un miliont: all'anno. All'obbiezione che per fare questo bisognava già avere in partenza molti milioni, mentre il Fondo era al più bel verde, restò perplesso; propose allora che, come studiosa che aveva stampato dei libri, chiedessi per me il premio della Presidenza del Consiglio e poi lo girassi al Fondo. Appresi in quella occasione che i premi della Presidenza del Consiglio vengono annualmente assegnati su domanda dell'interessato, che elenca le proprie benemerenze. Di fronte a tale inaudita realtà non mi restò che tornare nella Padania, dove anche le istituzioni regionali e locali collaborarono a creare questo modello principe di indifferenza apparentemente almeno priva di ragione. Se il Fondo in questi anni potè vivere, preparare un catalogo di prossima pubblicazione dei manoscritti di circa cinquanta scrittori e di grossi epistolari, acquistare manoscritti illustri, lo deve alla illuminata attenzione di un Ente privato, la Banca Commerciale Italiana7che assegnò al Fondo stesso nel 1977 il cospicuo premio Raffaele Mattioli. Le riflessioni le lascio al lettore. l' intreccio di competenza, incompetenza, attenzione, disattenzione, buona volontà, trascuratezza, onestà, disonestà, questa lunga serie di ossimori può scoraggiare, sostituendo presso il pubblico all'operazione dal basso, còsl necessaria, il verboso lamento, che lascia poi il tempo che trova, sull'inarrestabile degrado delle nostre istituzioni. Apparterrebbe ancora alla lamenta/io, genere molto diffuso nel medioevo, la constatazione che l'ossimoro istituzionalizzato fa parte dei fenomeni della crescita e della decadenza, mai della maturità delle istituzioni. Ma lasciamola lì perché c'è sempre il rischio che dal lamento l'intellettuale si senta «titolato» (si traduce dal lombardo «el se tituia»), cioè risarcito e insieme gratificato. Merita tuttavia che si aggiunga al quadro la resistenza passiva, individuale e collettiva, che buona parte della popolazione italiana fa in varie forme quando le si cerca collaborazione perché non lasci andare in rovina un angolo di paese, una vecchia casa con dignità stilistica, un albero secolare (i nostri montanari rispondono quasi sempre çhe gli alberi fanno umido), perché non deturpi con tapparelle gli edifici antichi e via di seguito. Qualche volta chi suggerisce cose del genere è guardato come un cospiratore e la resistenza passiva diventa opposizione, perché il vecchio può apparire sinoniMarxismion toto modulo di organizzazione storiografica a nostro avviso occorre ad una storia del marxismo, cosl come ad una storia di qualsiasi idea-forza. Se non si vuole che sia cii> marxismo a fare da supporto, altri riferimenti occorrono a far da referente: potrebbe essere la storia del movimento operaio, oppure la storia delle socialdemocrazie o delle Internazionali: un qualche referente diacronico, insomma, non foss'altro per giustificare le scelte degli interventi. Le dispute fra menscevichi e bolscevichi o fra Bernstein e Kautsky o fra Marx-Engels e l'anarchismo (non ce n'è traccia nel I volume: che sia una dimenticanza del tipografo?) non erano di chiesuola ma si svolgevano: a) attorno a testi costitutivi de cii> marxismo; b) attorno a organizzazioni e scelte strategiche di movimenti operai, di internazionalismo, ecc. Aurelio Macchioro Pur avendo Marx speso buona parte delle sue energie teoriche per formare cii> marxismo, e pratiche per edificare la Internazionale, un capitolo sulla Internazionale prima e seconda (Engels era ancora vivo quando si costitul la seconda internazionale) manca; e in quanto alle socialdemocrazie, esse vengono ricordate occasionalmente, come occasionalmente vengono ricordati eventi, come la Comune o la Rivoluzione russa del 1905, attorno a cui la storia del marxismo non solo trovò nerbo di oggettività, ma si è costituita come storia del marxismo. Manca insomma la fattualità, promessaci, invece, e con tanta insistenza, da Hobsbawm a p. XVII del I volume. Perfino il discorso sulla socialdemocrazia russa risulta occasionale, come diremo in seguito. È stato detto che tale storia del marxismo è stata concepita da Ragionieri, cosa di cui fortemente dubito, nella forma in cui si presenta: comunque essendo morto da diversi anni non può dirci la sua. Pure morto è G. Haupt, altro del comitato di redazione, avendoci lasciato, per fortuna, i suoi contributi. L'unico personaggio del comitato di redazione che avrebbe potuto fornirci una introduzione redazionale avrebbe potuto essere Hobsbawm, ma di lui viene riportata, a mo' di introduzione generale, un lungo e disordinato promemoria inviato da H. ai collaboratori, promemoria che verso la fine si ricorda di dovere, per l'occasione, fare anche da prefazione al primo volume, dopo averci detto all'inizio che la principale e pressoché unica storia del marxismo apparsa in questo dopoguerra è la Storia del pensiero socialista di G.D.H. Cole - e questa è bella. 2 Comunque del promemoria i collaboratori non devono aver fatto gran Cuciwra della punta. Calzificio Garda - Sarca. Questa è la prima operazione decentrata da molte aziende all'esterno, presso famiglie. mo di un passato di servitù, di povertà, o semplicemente di una civiltà agricola al posto di quella tecnologico-consumistica, che rappresenta per molti un maggior prestigio sociale ed economico. Come dire che il comportamento volto alla distruzione del bene culturale può dipendere di volta in volta da una forza psicologica sotterranea o da una stupidità di superficie, a seconda; entrambe le cause, se pure disarmanti, andrebbero prese seriamente in considerazione. Naturalmente i mass media fanno poco per creare la coscienza dei beni culturali, per stimolare la scar a sensibilità artistica dell'italiano medio; qualcuno si irriterà a quest'ultima considerazione sull'italiano medio perché da noi c'è la consuetudine di credere gli italiani un popolo ispirato, ma i mostri architettonici in giro per l'Italia dovrebbero renderci meno sicuri di noi. C'è stato un breve periodo in cui alla TV nelle vicinanze del telegiornale compariva sul video un rudere e qualcuno per un attimo lo additava alla pubblica attenzione, ma tale messaggio è durato pochissimo, come spesso le buone iniziative; è un vero peccato che non si pubblicizzi con formula iterativa la tutela dei beni culturali, dato il predominio schiacciante della TV su ogni altra forma di comunicazione, e le sue ripercussioni incalcolabili. Anche nelle scuole di tutti i gradi un deliberato gioco di attenzioni alle vicissitudini dei beni culturali locali sarebbe augurabile da parte degli insegnanti, affinché qualcosa di più si salvi, magari una cascina, un mulino, una bifora, per le future generazioni. Le operazioni dal basso sono oggi le più irradianti, oltre che le più economiche e veloci. conto, andando ciascuno largamente per la propria strada e intersecandosi abbondantemente l'un l'altro, specialmente nel II volume. Nel complesso direi che esiste un evidente difetto di direzione redazionale che non mi pare abbia giovato, nel complesso, al discorso storico; sebbene i contributi, come tali, siano per lo più assai pregevoli. P oiché ci si dice che è in atto, oggi, una «crisi del marxismo» (Meszaros a p. 132 del I volume nega che tale crisi vi sia) e visto che tale crisi sarebbe originata dalla crisi del c.d. socialismo realizzato (realizzatosi nell'Europa Orientale, Asia, Americhe dopo il 1917 e il 1945) non è male chiedersi se il concetto di crisi del marxismo su cui la pubblicistica di Bobbio, Settembrini, Matteucci, Colletti, Del Noce ecc. variamente si esercita, sia concetto sensato oppure no. Che sia concetto pragmaticamente efficace non dubitiamo affatto: stabilito che il «socialismo realizzato» è moralmente in crisi (per processi di Bucharin o di Slanski, per purghe _di Stalin o di Poi Pot, per convulsioni di maoismo e postmaoismo, per migliaia e migliaia di profughi dal Viet Nam, per diaspora di intellettuali ecc.); e stabilito che sia anche in crisi per minor efficienza economica (minor efficienza, non certo rispetto al «capitalismo realizzato» da noi, ma a quello, poniamo, tedesco, giapponese e statunitense); e stabilito che il socialismo realizzato deriva dal marxismo quale sua applicazione, ovviamente dalla definita crisi del socialismo realizzato deriverà la definita crisi del marxismo teorico. Crisi di inedia e mortifera come mortifere sono le applicazioni di socialismo realizzato. Questo per quanto concerne l'aspettopragmaticodellac.d.crisidelmarxismo. Poiché la tesi di marxismo in crisi si produce in epoca, quale l'attuale, in cui gli interessi marxiani sono in grande rigoglio, e specialmente nei paesi a capitalismo realizzato, conviene esaminare a tanto di efficienza pragmatica quanto corrisponda, in tale tesi, di efficienza teoretica. E cioè, il concetto di «crisi del marxismo», oltre a costituire una potente arma sia contro i sistemi statali a socialismo realizzato
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