-~ l: .e:, .e:, ~ e ..... contrasto fra economia borghese ed economia marxista. La realtà, quella sociale come quella fisica, non ammette più di una spiegazione 'vera' per lo stesso fenomeno». Il lettore è ancora incredulo? Voglio proprio augurarmi che non lo sia. Tutto sommato, il distinto autore che ci occupa non fa che applicare correttamente e sistematicamente, quel metodo di critica interna sul quale ci siamo trattenuti all'inizio. Non è stato lui ad escogitare questo metodo. Altri e più autorevoli vescovi gli hanno indicato la strada. Egli si limita a percorrerla d'un fiato sino al fondo. Perché rimproverarlo? Del reato, egli non è né solo né isolato. Pochi mesi or sono, abbiamo appreso dalle autorevoli colonne di Rinascita che «da Smith a Ricardo, fino a Marx e Sraffa, il problema è questo, e sempre lo stesso - malgrado le diverse soluzioni proposte: come misurare gli aggregati di merci che determinano la distribuzione del reddito fra le classi sociali in modo che (la misurazione) non dipenda ... dalla distribuzione del reddito» (G. Conte, «Lord Keynes e Karl Marx: incontri ravvicinati di terzo tipo», Rinascita, 1979, n. 35). Ed abbiamo altresi notato, peraltro senza ombra di stupore, che allorché Giorgio Lunghini, dimentico del monito pirandelliano, ha osato levare una voce di protesta per sostenere che Ricardo e Marx e Sraffa non sollevarono gli stessi problemi e che le loro opere non sono la continuazione ed il perfezionamento l'una dell'altra, nonché per chiedere che sulle implicazioni politiche di questo modo peculiare di fare storia dell'analisi economica venisse D alle pagine culturali, su cui si è manifestata qualche riflessione non particolarmente euforica nel n. 8 (dicembre 1979) di Alfabeta, ai beni culturali. Che posto ha, che cos'è nella coscienza degli italiani un bene culturale? Si direbbe che sia nato prima il suo ministero che la nozione chiara e distinta dell'oggetto. li bene culturale nella prospettiva della cultura è un po' come il segno in quella semiotica: esiste qualcosa che non sia un segno? Analogamente, esiste all'interno di una cultura qualcosa che non sia in un certo senso un bene culturale? Anche un albero, ovviamente, dentro un sistema di tipo industriale tendente a sostituire. il cemento agli alberi diviene bene culturale. Che cosa allora non è bene culturale? Quello che è un male culturale, cioè lo stesso bene capovolto? Non è il caso in questa sede, che richiede sobrietà, di soffermarsi su una teoria e fenomenologia del bene culturale e nemmeno sulla sua storia linguistica (quando è nato e come si è diffuso il sintagma «bene culturale»?); si vuole qui scendere nella brutale prassi, dato che oggi nel nostro paese le carenze si riferiscono più che al teorizzare al fare e al fare correttamente, al punto che si può dare un significato letterale, rovesciando la direzione dell'ironia ma non eliminandola, alla famosa frase di Ionesco: «Les paroles seules comptent. Le reste est bavardage». Troppo spesso infatti si ha la curiosa impressione che il costruire o fare sia diventato nel paese un «bavardage» (quello che in Toscana si dice «ciancia») e conti solo il parlare. Fermiamoci sulla nozione classica di bene culturale: per esempio, un Fondo che raccolga manoscritti di autori di rispetto è un bene culturale? Pare già di sentire la reazione del lettore: «Ma chedomande!Senonè unbeneculturale quello, che cosa lo è?». Eh no, le cose italiane non sono così semplici; donde l'utilità di qualche premessa perché più chiari risultino il centro della quaestio e i contorni. N et nostro contesto nazionale possono verificarsi almeno tre circostanze alquanto allarmanti: la prima è quella per cui cose insignificanti vengono trattate da beni culturali aperto un dibattito, il suo intervento è stato spedito d'autorità in ultima pagina, riprodotto in caratteri che anche un microscopio elettronico avrebbe stentato a decifrare, e, inutile dirlo, non si è aperto alcun dibattito. V iene infine una terza lettura che vorrei ricordare: È una lettura che non mi sentirei di raccomandare ad alcuno, ma che è significativa nel quadro dell'ebbrezza sraffiana, che anima i nostri giovani economisti. Si tratta del saggio di C. Boffito, Efficienza e rapporti sociali di produzione, che compare nientemeno che nella autorevole serie dei Paperbacks Einaudi (una sede un po' eccessiva, per un libretto avventuristico e costellato di imprecisioni analitiche; ma non è il caso di fare gli schizzinosi). Cosa vuole dunque Boffito? Due cose molto ardite, la prima di natura storica, la seconda riguardante temi di gestione dell'economia. Boffito riprende ancora una volta la teoria neoclassica per criticarla lungo linee ormai note (e nemmeno le più aggiornate). Ciò detto, egli balza in groppa al destriero di Sraffa, per sostenere che gli algoritmi sraffiani consentono di mettere a punto un sistema teorico decisamente superiore rispetto a quello neoclassico, in quanto non solo esente da errori analitici, ma dotato altresì di maggiore generalità, perché capace di spiegare il funzionamento del sistema economico anche nelle situazioni di crisi e di disoccupazione. Purtroppo questo ambizioso sforzo teorico resta un mero auspicio, visto che lo schema che l'autore costruisce funziona soltanto nei casi di equilibrio e di piena occupazione (come lo stesso autore riconosce onestamente a pag. 58), ed è quindi una tranquilla ripetizione dell'esecrato schema neoclassico. Il secondo cimento di Boffito è quello di servirsi del bagaglio teorico accumulato nella prima parte, per criticare il sistema sovietico e le sue riforme. Qui il ragionamento è davvero peculiare. Sostiene Boffito, e fin qui con ragione, che gli economisti sovietici riformatori (veng_onocitati soprattutto Kantorovic e Novozilov) hanno tracciato progetti di pianificazione ottimale basandosi in prevalenza sulla teoria economica neoclassica. Il lettore si attenderebbe a questo punto che Boffito lamenti quello che tanti hanno lamentato e cioè che, cosi facendo, i riformatori sovietici finiscono col proporre una restaurazione del mercato, accettan·done implicitamente i difetti. Invece, la critica di Boffito è un'altra: che, siccome la teoria della pianificazione ottimale incappa inesorabilmente negli errori della teoria neoclassica, allora l'unica soluzione accettabile è quella di ... restaurare il mercato! Su quale base questa raccomandazione venga fatta, non è dato di sapere. Un economista neoclassico che raccomandasse il rispetto del mercato • direbbe cosa molto concreta, dal momento che egli crede in una teoria che spiega con precisione in che modo il mercato funziona. Ma Boffito non dispone di alcuna teoria che spieghi il funzionamento del mercato, per cui quello che egli raccomanda è press'a poco un salto nel buio. Ma allora è un guazzabuglio? Si direbbe di si. E si direbbe anche che da questo guazzabuglio è inutile tentare di districarsi. La peste della critica antimarginalistica ha inquinato i cervelli. Possa un diluvio purifica_torerestituire luce alle menti obnubilate. Quella luce che, a dispetto dell'opera nefasta degli epigoni, illumina le nitide pagine di Piero Sraffa. P rima di chiudere queste note, vorrei richiamare l'attenzione del lettore su un ultimo libro, che invece raccomanderei a tutti di leggere, perché opera di tutt'altra levatura e finezza. Il libro si intitola Georgescu Roegen. I fondamenti della teoria del consumatore (Milano, Etas Libri, 1979); ne è autore S. Zamagni. Il Georgescu Roegen, rumeno di origine, residente da oltre un trentennio negli Stati Uniti, fu inizialmente matematico e statistico, e si convertì allo studio dell'economia sotto l'influsso di Schumpeter, con il quale era entrato in contatto durante un soggiO(IIOall'Università di Harvard. Il libro di Zamagni tuttavia, assai più di una biografia intellettuale di questo autore, rappresenta una storia della teoria economica della domanda. Siamo dunque nel cuore dell'economia neoclassica, e di questa scuola Zamagni, pur trattando una categoria assai specifica, riesce a far rivivere grandezze e tragedie. La teoria neoclassica assume l'agire indipendentemente dall'individuo come base esplicativa dell'intero meccanismo economico; la teoria della domanda individuale è dunque il pilastro che la regge. Ogni critica avanzata contro la teoria della domanda, come Zamagni mostra, è stata sempre valuBeniemaliculturali e beni culturali vengono trattati da cose insignificanti. La seconda è quella per cui i beni culturali sono esattamente individuati, ma l'operazione non prende l'avvio perché le forze politiche non si mettono d'accordo a quale di loro spetti l'iniziativa. La terza circostanza rivela natura più grossolana: la tutela, il potenziamento e il restauro di un bene culturale sono affidati a persone o imprese che non hanno competenza e specializzazione necessarie. Le occorrenze dei tre più o meno sconcertanti fenomeni sono varie, ma essi possono in questo mondo complicato,, oscuro e confuso capitare tutti e tre addosso allo stesso bene culturale. Altrimenti come si farebbe a sprecare tanti milioni. Osserviamo le tre circostanze più da vicino. Poiché ogni cosa nella struttura sociale può avere almeno una proprietà che la inserisca in una concatenazione con altre cose generalmente e pubblicamente riconosciute come beni culturali comuni, non è difficile creare per particolari interessi economici un tale legame o collegamento, dopo di che senza troppe deviazioni dal decoro l'operazione che sta a cuore a qualcuno più che alla cultura è fatta, il fine raggiunto: che è poi quello di ottenere da un ente pubblico una sovvenzione sotto forma di contributi, spesso iterati annualmente e magari al di là delle effettive esigenze del bene o pseudo bene. In tal caso i contributi vengono ad assomigliare alla lava dell'Etna: dopo un po' di scorrimento si pietrificano, cioè non scorrono più verso altri beni culturali più bisognosi di aiuto, ma annualmente restano dove sono arrivati. A questo proposito un minimo di pratica, di esperienza della vita dei nostri enti pubblici, locali e no, insegna che vigili stradali dei contributi, regolatori del loro traffico e flusso sono spesso i cosiddetti destinati alla guida del paese, gli ineffabili politici. E poiché, in base alla circostanza da noi denominata seconda, le forze partitiche lottano a tutti i livelli delle istituzioni per un estenuante quanto nei risultati vacuo equilibrio di potere, la conseguenza è un ritardo operativo che ha spesso esiti catastrofici per quei beni culturali a cui è necessario un Maria Corti Riavviamento della macchina in caso di rouura del filato pronto soccorso e intervento. E adesso ci si sono messi anche gli scontri fra regionalisti e antiregionalisti all'interno di uno stesso partito (i parchi, ad esempio, devono essere nazionali o regionali?) e i nuovi proposti rapporti fra Stato e Chiesa della bozza per la revisione del Concordato, problema inquietante nei riguardi dei beni culturali e di recente segnalato con apprensione da Antonio Cederna nell'articolo Quei poveri, trascurati beni culturali del Corriere della Sera del 6 gennaio 1980. Eppure sarebbe proficuo a tutti, ai politici e agli enti, a chi propone o dispone e a chi esegue, riflettere su una massima di Musil nell'Uomo senza qualità (voi. 1, cap. 40): «c'è un aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento di impotenza». Perché un certo tipo di potenza sbocca fatalmente nell'impotenza? Quali sono le strade attraverso cui l'impotenza avanza? Molte, come le strade della Provvidenza. Ma due prendono spicco: la prima avvia al fatto che chi ce l'ha il potere e lo esercita è ignaro del significato della massima di Musil; crede di possedere un'arma meravigliosa dalla funzione irresistibile, atta a fargli fare quello che egli vuole. Se il potere non si potesse confondere facilmente con il diritto di realizzare ciò che si reputa fruttuoso a sé e ai propri amici, sarebbe più arduo accumulare tante cose sbagliate si da raggiungere a lungo andare l'impotenza politica. E di conseguenza sarebbe più arduo per le nostre istituzioni che si occupano di beni culturali dare una simile immagine di prestazione ridotta a causa di cattive condizioni di salute. La seconda strada prevede un percorso differente: è la via della onesta incompetenza o incapacità in area specifica, che fa fare errori a vari livelli, da quello daccapo di chi propone, dispone, impone a quello di chi esegue. Ecco in tal caso gli enti pubblici emettere disposizioni difficilmente comprensibili, salvo rifarsi di nuovo come auctoritas a Musi!, là dove spiega come sia molto più agevole riconoscere e far riconoscere l'ingegnosità di una oleografia che la grandezza di una tela di Van Gogh. Si sa d'altronde come sia difficile da delimitare l'incompetenza e quanto la sua grandezza sia direttamente proporzionale alla vastità del terreno su cui essa può esercitarsi. È vero che la realtà ci costringe all'ammissione che c'è anche malafede, cioè mancanza di qualcosa ma non di competenza; però, oh buon Dio, non facciamoci illusioni, ce n'è meno di quello che si creda: la forma più diffusa e triste di distruzione dei beni culturali è quella casuale. La terza circostanza, si è detto, rivela natura più rozza, e quindi esiti più maldestri: la tutela e il restauro di un bene culturale, finalmente passati dalla fase di programmazione resa dagli interventi partitici lentissima e macchinosa a quella di attuazione, sono praticamente male affidati. P ossono essere utili e suggestivi due esempi, presi da due articoli dell'architetto Maria Teresa Saracino della Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Milano, usciti rispettivamente nel n. 37 (aprile 1979) e nel n. 38 (maggio 1979) della rivista Weekend. Nel primo, dedicato alla curiosissima storia del restauro del Torrazzo di Cremona, così la Saracino prende l'avvio: «Ci si immagina che un monumento sia un cumulo di sassi e mattoni, capace di suscitare al più sensazioni estetiche, e per chi se ne occupa direttamente restaurandolo, emozioni tata con questo metro; e, in tutti i casi in cui la critica ha messo in forse il principio del metodo individualista, essa è stata severamente combattuta, o disinvoltamente ignorata. Questo retroterra di carattere generale va tenuto costantemente presente, anche quando si analizza un problema così specifico come quello della teoria della domanda, perché solo il retroscena consente di comprendere le battaglie che si svolgono alla ribalta. Georgescu Roegen, sostiene Zamagni, sviluppò una critica che, se da un lato era assai avanzata sul piano analitico, dall'altro osava attaccare la scuola neoclassica nel suo cuore individualista. Perciò, nonostante gli onori formali, il suo insegnamento venne sostanzialmente ignorato. Questi cenni sono sufficienti per comprendere come Zarnagni si ponga su posizioni di metodo opposte a quelle esaminate in precedenza. Nella sua costruzione i fondamenti di ogni formulazione teorica non stanno nella sua maggiore o minore coerenza logica interna, per cui non sarà mai sulla base di considerazioni di logica pura che si potranno stabilire punti di convergenza fra teorie che poggiano su visioni ideologiche diverse. La storia delle idee economiche non è dunque un succedersi di errori e di correzioni, in una linea di progresso costante, sulla base di una sostanziale concordia di assunti; è invece una storia di conflitti assai più profondi, radicati nelle ideologie, e ancor più nei conflitti sociali. C'era una volta la teoria economica. Consoliamoci. Forse esiste ancora. scientifiche, ma per me non è stato cosi; il mio incontro col Torrazzo di Cremona, per una serie di circostanze che chiarirò in seguito, è stato un incontro che ha messo a dura prova tutta una serie di valori in cui credevo, e che alla fine ha visto come nella storia di Davide e Golia trionfare, contro ogni probabilità, il più debole sul più forte». Che cosa è successo? Essendo la «ghirlandina», cioè la guglia terminale gotica del Torrazzo soggetta a una distruttiva erosione, si progettò in loco un'operazione di anni e di miliardi che avrebbe portato al rifacimento dei pezzi erosi. La Saracino, incaricata come funzionario di zona di occuparsi della cosa, rilevò subito due fattori inaccettabili nella progettazione locale: il metodo (rifare i pezzi invece che restaurarli) e i prezzi. Per farla breve, contro i tre miliardi del progetto la spesa fu di 140 milioni e l'esito un vero restauro con l'uso di colle speciali, non un rifacimento. Ma il più bello viene adesso, un tocco di perfezione al quadro: i fautori della precedente soluzione avviarono una campagna di stampa contro la Saracino, accusata di essere «femminista e arnica degli omosessuali»; inoltre un'interrogazione alla Camera da parte di un onorevole, il quale voleva sapere come mai per restaurare il Torrazzo si spendesse così poco! Secondo esempio, di ambito milanese; protagonista l'arco della Pace dalla lunga avventura: ideato per celebrare l'arrivo a Milano del vicerè Eugenio Beauhamais, la sua costruzione durò dal 1806 al 1837, interrotta e ripresa in sintonia coi vari cambi di dominazione su Milano e quindi di uomini politici che dovevano avere l'onore di passarci sotto; ci fu anche la complicazione del cambio di battaglie da immortalare nei bassorilievi: alla battaglia di Marengo toccò trasformarsi in battaglia di Lipsia. Sotto questo arco passarono Napoleone III e Vittorio Emanuele II, che se Io reintestarono a mezzo lapide bronzea; poi fu la volta di Vittorio Emanuele III nel 1921, di Benito Mussolini nel 1923; e nel 1960? No, non vi passò Gianni Agnelli, ma due modelli nuovi di macchine Fiat. La Saracino, descritte le fasi della
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