David Sudnow Passing On. The Social Organization of Dying N. J., Prentice Hall, Englewood Oiffs, 1967 AA.VV. The Dying Patient New York, Russe! Sage Foundation, 1970 Ivan lllich Nemesi medica Milano, Mondadori, 1976 pp. 290, lire 4000 AA.VV. «La mort à vivre», in Ésprit, 3, 1976 Philippe Ariès Storia della morte in occidente Milano, Rizzoli, 1977 pp. 260, lire 3000 Jean Baudrillard Lo sc:ambiosimbolico e la morte Milano, Feltrinelli, 1979 pp. 264, lire 10.000 N egli ultimi anni, almeno dal tempo dei saggi di Gorer sull'atteggiamento verso la morte e il lutto in Inghilterra, il discorso sulla morte conosce un successo straordinario. Il mercato letterario produce un numero crescente di saggi che sottolineano o lamentano il silenzio in cui la cultura occidentale abbandonerebbe l'esperienza della morte. Questo discorso sembra paradossale perché, mentre è diventato un luogo comune richiamare la rimozione della morte in occidente, si moltiplicano le analisi sociologiche e psicologiche sulla vecchiaia, sull'assistenza dei malati inguaribili, sull'esperienza della morte nella storia e nelle culture primitive. Apparentemente questo discorso sulla morte rovescia una tradizione retorica solidamente radicata nella nostra cultura letteraria. La morte non funzionerebbe più come artificio per rappresentare l'aridità o la pienezza della vita (cosi in Tolstoi, la morte di Ivan Il'ic contrapposta a quella di Piaton Karataev), ma diventerebbe finalmente oggetto di una ricerca libera e disincantata sulla totalità dell'esperienza umana. La concezione umanistica, elaborata dalle sociologie di questo secolo, della crisi del senso, della dissoluzione delle comunità e dei cosmi sacri che avrebbero tenuto insieme le società, alimenta un discorso sulla morte rivolto al passato e al primitivo, una sorta di nostalgia della morte. Antropologi come Ziegler o L.V. Thomas comparano la decadenza dei rituali funerari in Occidente con la centralità delle pratiche mortuarie nelle culture primitive. Oppure, come nel saggio di Ivan Illich sulla medicalizzazione della vita, Nemesi medica, l'umanesimo si presènta come pretesa di verità, come appello alla necessità che i malati inguaribili siano consapevoli della loro sorte e imparino a dominarla. In un'epoca in cui si tende a valorizzare il potenziale politico delle esperienze private, una parola d'ordine come «riprendiamoci la morte» non sembra affatto paradossale. Si arriva cosi a formulare in qualche modo un bisogno di morte, un bisogno che la società razionalizzata e medicalizzata sottrarrebbe alla consapevolezza individuale e collettiva. Nei discorsi che da anni proliferano sulla morte, la consapevolezza è appunto una risorsa inevitabile. Benché questo bisogno non abbia nulla a che fare con l'istinto di morte della psicanalisi, i procedimenti che vengono invocati per la riappropriazione della morte sono affini alle procedure terapeutiche: nominare questa «cosa» che la società avrebbe rimosso, trasformare la morte nascosta in attività linguistiche, dar voce alla morte, socializzarla, parlarla. Labuonamorte A nche se tra i manuali americani sull'arte della buona morte (ad esempio The Dying Patient) e i saggi contro la rimozione della morte e del lutto (Nemesi medica e il numero speciale di Ésprit) le differenze qualitative e stilistiche sono rilevanti, si potrebbe sollevare in generale, a proposito di questi discorsi, un paradosso analogo a quello che Foucault ha enunciato sulla repressione _dellasessualità. I discorsi sulla morte vengono costruiti e articolati nei vari campi di pertinenza sociale "(sociologia, assistenza degli anziani, tecniche mediche e psichiatriche, fino ai dibattiti «morali» sull'eutanasia) sul presupposto dell'assenza, della mancanza di parola o della repressione di un'autentica esperienza della morte. La centrifuga C'è da chiedersi però se questa rimozione non sia un bersaglio di comodo per una retorica dei buoni tempi andati, una retorica che in qualche modo nasconde, accetta o non rende problematiche le condizioni effettive in cui la morte è trattata nella pratica istituzionale. Ciò che quasi sempre è assente in questi discorsi è il riconoscimento che la parola sulla vita e sulla morte è passata irrimediabilmente dalla tecnologia e dalla religione alle scienze della vita, alla biologia e alla medicina. Il lavoro che da quasi due secoli queste scienze compiono sui limiti e sulla crescita del vivente, a partire dall'introduzione della morte nella ricerca inedica come strumento per l'analisi patologica, ha contribuito a minare in modo irreversibile l'autorità delle pratiche tradizionali di consapevolezza e di celebrazione della morte. Abolendo ogni discontinuità logica - tra il normale e il patologico, tra il vivente e la morte, lo sguardo medico ha potuto, secondo le parole di Foucault, ruotare su se stesso e chiedere conto alla morte della vita e della malattia. Al tempo stesso la medicalizzazione della vita non può essere vista, come avviene nel saggio di Illich, come una degenerazione tecnologica o un effetto perverso della medicina tradizionale, a cui oggi sarebbe possibile opporre una pratica terapeutica autoAlessandro Dal Lago noma e consapevole, ma come un effetto di sviluppo inevitabile e intrinseco alla crescita delle società occidentali. Il fatto che negli Stati Uniti, ad esempio, il 70 per cento dei decessi avvenga negli ospedali, con punte del1'80 per cento nelle metropoli, dà ovviamente una misura dell'intreccio tra medicalizzazione e sviluppo sociale e urbanistico, un'indicazione della centralità delle pratiche mediche nei problemi generali, anche politici, di controllo della vita e della morte nelle società contemporanee. Il silenzio sulla morte è allora il silenzio dei metalinguaggi espropriati dalla razionalizzazione e dallo sviluppo, il silenzio dei discorsi teologici o morali che· avevano tradizionalmente il compito di legittimare l'esistenza e i suoi limiti, di proteggere simbolicamente la vita. Nella società contemporanea, in cui il disincantamento dell'opposizione tra vita e morte è un effetto della medicalizzazione, la protesta contro l'espropriazione della morte· e l'appello pei::-unanuova consapevolezza diventano necessariamente paradossali. Poiché l'istituzionalizzazione è la dimensione dominante in cui la morte viene trattata, i discorsi sulla riappropriazione possono diventare nuove forme di legittimazione di ciò che il discorso umanistico combatte, il dominio della medicalizzazione, anche se nelle nuove forme della pedagogia o dell'iniziazione psicologica alla morte. li opera collettiva The Dying Patient è forse l'esempio più completo di quella tendenza americana che raccoglie le istanze umanistiche sulla riappropriazione della morte e cerca di applicarle nell'universo prevalente dell'ospedale. Il morire vi è trattato alla stregua degli altri socia/ problems tradizionali, come la devianza, le malattie mentali o la povertà. Per quasi tutti gli autori la cattiva morte, la morte sporca e disperata (su cui oggi si esercita, secondo Ariès, l'interdizione sociale fuori.dell'ospedale), è un problema di disadattamento personale che può interferire con l'equilibrio organizzativo dell'istituzione. Negli ospedali americani le infermiere che si occupano dei malati moribondi non gradiscono gli ultimi gesti di rivolta dei pazienti, come il voltarsi di Ivan Il'iccontro ilmuro nel racconto di Tolstoi. Occuparsi della morte significa quindi individuare le tattiche più opportune per minimizzare le possibilità di disordine, di turbamento e di interruzione del lavoro del personale quando i pazienti muoiono in ospedale. Elizabeth K. Ross, specialista di psi-· chiatria della morte, chiarisce il senso dell'intera impresa in un capitolo intitolato senza alcuna ironia « Il punto di vista dei pazienti»: «Se accettiamo i nostri pazienti cosi come sono, con il loro rifiuto, con l'angoscia, il tentativo di sottrarsi alla loro sorte e la depressione, allora essi potranno completare il loro compito non terminato e raggiungere uno stadio di accettazione che permetta loro di morire in pace e dignità». Qui non si tratta più dell'accellable style of facing death, che Ariès ha individuato come nucleo della cultura mortuaria americana, ma di un morire in modo non conflittuale, di saper diventare ciò che si è, di elaborare autonomamente le condizioni della propria soggezione alla realtà istituzionale, tutti obiettivi di una pratica terapeutica e di controllo molecolare e democratica. Sia nelle opere sulla morte di carattere polemico-morale;, sia in quelle tecnico-prescrittive, come appunto The Dying Patient, il presupposto dominante è che la società contemporanea non disponga più di regole o di tecniche di accettazione della morte, che non sappia più insegnare a morire. In un'epoca in cui i metadiscorsi sono sempre meno utilizzabili, anche la pedagogia della morte, come ogni altra pedagogia, non può più invocare alcun criterio superordinato di legittimazione. Si cercherebbero invano, in libri come questo, delle giustificazioni per la manipolazione tecnica e psicologica che sembra inevitabile nella gestione della buona morte. Invece delle grandi opzioni morali (come autonomia, consapevolezza, diritto all'autodecisione) la pedagogia della morte dichiara di offrire dei vantaggi sociali. La cattiva morte diviene letteralmente un business lost. Nel contesto della società medicalizzata la pratica sociale della buona morte è allora il caso estremo di una trasformazione della realtà che non può essere più affrontata con gli stru- ·menti critici e morali della tradizione umanistica. Lfabolizione dell'opposizione qualitativa tra vita e morte, già operante nelle scienze della vita alle soglie dell'età contemporanea, diviene nella pratica dell'ospedale una totale manipolazione tecnica di ciò che gH americani chiamano la «traiettoria del paziente». Una volta ottenuta la qualifica di malato terminale, inguaribile o in fin di vita, il paziente diviene oggetto· di una serie di attività e di pratiche terapeutiche il sui senso è determinato principalmente dalle regole, esplicite o latenti, di funzionamento dell'orga- • nizzazione. David Sudnow ha elaborato, a proposito di queste pratiche, la nozione di un'autentica «morte sociale». Ciò significa che un paziente ancora vivo biologicamente e perfino cosciente, dal momento in cui l'organizzazione elabora delle aspettative sulla sua morte (la necessità di programmare le autopsie e la preparazione dei cadaveri, oltre a tutte le questioni ecnomiche e giuridiche coinvolte in una morte in ospedale) viene trattato come se fosse un cadavere. In Passing On, un libro certamente cinico ma che ha il pregio di non offrire soluzioni di comodo, Sudnow descrive dei casi limite che tuttavia illustrano le scene istituzionali in cui avviene oggi la morte in ospedale. Un'infermiera, sorpresa mentre ten_tadi chiudere gli occhi di un paziente ancora vivo, si giustifica dicendo che questa pratica è adottata per far sembrare il morto una persona che dorme, e che viene compiuta prima della morte perché il personale addetto alla preparazione dei cada~eri la considera sgradevole. La morte sociale può variare rispetto alla morte biologica di un periodo di tempo considerevole. L'effetto di questa variazione è che la morte sociale, in quanto risultato del complesso di interessi economici, medici e personali che si innestano sull'aspettativa della morte di un paziente, diventa più reale della morte biologica. S oltanto Baudrillard, tra gli autori di saggi contemporanei sulla morte, sembra essersi reso conto dell'iper-realtà prodotta necessar_iamente dalla gestione sociale e medica della morte. Come il sesso della pornografia è più realistico e ha un maggiore contenuto di «verità», con l'esplorazione anatomica delle immagini, del sesso vissuto, cosi la morte auscultata, registrata, computerizzata degli ospedali diviene più reale, dal punto di vista sociale e organizzativo, della morte vissuta. La parte che l'individuo prende alla propria morte è una questione insignificante o accidentale. L'effetto di simulazione, come nell'esempio dell'infermiera, produce una realtà di grado superiore, che diviene più vincolante della realtà presunta, biologica o tradizionale. Da questo punto di vista la società moderna non ha rimosso la morte, ma ha sostituito le scene tradizionali della morte con surrogati istituzionali e sociali che presuppongono e riproducono situazioni radicalmente nuove. La nuova realtà della morte, quella che in generale è oggetto della critica umanistica, non riguarda più o soltanto la «morte di sé» o il lutto, i fenomeni dell'esistenza e della cultura, ma è modellata dalle pratiche tecniche, sociali od organizzative come una sezione programmabile e trasformabile dei circuiti di controllo sociale. In generale, l'alone sacro che accompagnava la morte nelle società
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