Una città - anno III - n. 22 - maggio 1993

* 't /J' ~ • 7 ., ., // « f '· ~< ~2.f'~..•·. ~~ A,,,-1fa, ..:.-.;.;,, ,,,.,,< '""~ •;:,. . ...~::"', , ... ,,..¼ ' ... ~ ,,,._ . ;. ~/,e,!( • maggio EX JUGOSLAVIA. SENZA RITORNO. A Sarajevo la gente non si affretta più agli incroci sotto tiro dei cecchini. E' un segno di rassegnazione. Nelle campagne la pulizia etnica è cosa fatta. A raccontare è Toni Capuozzo, di ritorno dalla exJugoslavia. COSA ANCORA? E' lo sfogo disperato di una donna mussulmana di Mostar che non riesce a capire come si possa essere giunti a tanto. In NULLA DI PEGGIO CHEASSISTEREINDIFFERENTI Gianni Sofri ci spiega le posizioni del pacifismo radicale di Gandhi, che comunque non escludeva in via eccezionale l'uso della violenza. In seconda, terza, quarta, quinta. LA PAURA DELL'EUROPA. Le considerazioni di Cohn Bendit sul fatto che /'emigrazione è un male, sulla brutta definizione etnica de/l'essere tedesco e sulla necessità della Germania di liberarsi di una cattiva coscienza solo dannosa. QUEL CHE SONO è /'intervista al giovane tedesco Edgar Lissel, sul senso del senso di colpa. LENINISMO LEGHISTA è l'intervento di Rocco Ronchi. In sesta e settima. QUANDO MARX, BAKUNIN E PROUDHON ••• Franco Melandri ci parla di Proudhon, di come alla vigilia della Prima Internazionale tutti i problemi che assillano ancora la sinistra fossero già sul tavolo. In ottava e nona .. LEI E GLI ALTRI è l'intervista a Alide Tassinari sulla differenza sessuale, sulla relazione fondante con l'altro, sui limiti da porre al desiderio. In decima e undicesima. COSE MINIME. Paolo Lacchini, in carcere per anni per detenzione di sostanze stupefacenti e oggi in semilibertà, ci racconta la vita quotidiana di un carcere pieno di tossicodipendenti. In dodicesima e tredicesima. Insieme al racconto di don Dario Ciani sul suicidio di un giovane polacco, venuto in Italia per cercare un lavoro e finito in carcere per rissa. CONDANNE A MORTE è /'intervista a Sandro Veronesi sulla pratica della pena di morte così diversa dalle ragioni di chi la vuole. POVERTA' PERDUTA, è la prima "stazione" di meditazione su alcune parole chiave, di Gianluca Manzi. In quattordicesima e quindicesima. L'AGENDA VECCHIA è quella di Igor Bararon, ebreo di Sarajevo, che pensa di non tornare in Bi'ancco che non sarà più come primo. In ultima.

Un giorno Piotr ha annunciato alla madre che se ne veniva in Italia, per lavorare. Unico maschio con due sorelle e un nipotino da mantenere con la sola pensione della madre, Piotr voleva assumersi la responsabilità della famiglia. Ma tutto è andato male. Da poco tempo faceva il lavavetri a Roma quando, per una banale rissa con italiani in cui i polacchi hanno avuto la meglio, è stato arrestato. Condannato severamente -il suo compagno di sventura ha commentato "lo capisco, in Polonia sarebbero stati incolpati e condannati gli italiani"- è entrato in carcere senza sapere _ancorauna parola di italiano. Dopo venti giorni, senza aver fatto sapere nulla a casa, senza aver parlato con nessuno e senza che nessuno avesse cercato di parlare con lui, s'è tolto la vita. Le sorelle sono venute al funerale con il solo biglietto d'andata, al ritorno hanno provveduto i detenuti del carcere. La madre non si è data pace per alcuni mesi poi è morta di crepacuore. Bernard non aveva mai avuto voglia di studiare, aveva cambiato tutte le scuole, era uno "scansafatiche" che non si era mai interessato di altro che di macchine. Ma ora ha scritto da Sarajevo che "sta benissimo" perché "ha dato un senso alla sua vita: aiuta gli altri". Ha dipinto sul tetto della sua R4 un enorme stella di David e, approfittando del fatto che gli ebrei per ora non vengono toccati, passa ogni posto di blocco, corre in soccorso di chiunque abbia bisogno. E insieme al padre, in una casa anch'essa segnata da una vistosa stella, ha organizzato un piccolo centro di soccorso. Bernard ha da fare. Bi In quest'Europa smarrita in cui insicurezza, paure, malessere, semprepiù spesso si tramutano in rancore, in odii a cui poi si cerca di dare bersagli, in quest'Europa governata da ignavi e corrotti, vogliamo ricordare i nomi di due giovani coraggiosi. Il giovane capofamiglia polacco che non ce l'ha fatta si chiama Piotr Marczewski. L"'infermieredi prima linea" di Sarajevo si chiama Bernard Kamhi. Onore a loro. io digiuno Continua, in tutta Italia, il digiuno di solidarietà con levittime della guerra nella ex-Jugoslavia. La redazione di questo giornale ha aderito. Chi volesse informazioni può rivolgersi in redazione, telefono 0543/21422. ABBONATEVI A UNA CITTA' 1O numeri 30000 lire Conto Corrente Postale N.12405478 intestato a Cooperativa Una Città a.r.l. SCRIVETECI il nostro indirizzo è P.za Dante 21, 47100 Forlì Telefono e fax: 0543/21422 ' :,,,....,..%00 . ·:.~,.,,!."..Nl lilJ.~1 ,~---~ii; .:.: :'L!JM: ... Agli incroci sotto tiro la gente non si affretta più. Nelle campagne paesi deserti le cui case sono state minate dall'interno. La pulizia etnica è fatta e non si tornerà più indietro. Una guerra purtroppo "popolare". Intervista a Toni Capuozzo. Toni Capuozza. già intervistato nell'ultimo numero del nostro giornale, è appena tornato da un altro viaggio nella ex-Jugoslavia. Gli abbiamo chiesto di raccontarci le ultime impressioni sulla situazione. Dove sei stato in questo ultimo viaggio? Sono stato a Tuzia, nel nord est della Bosnia che è il capolinea dei profughi che arrivano da Srebrenica. Srebrenica, prima della guerra, era un paesotto di montagna di 10000 abitanti, sconosciuto. E' diventata nota, l'estate scorsa, per la guerra, perché è stata la prima città occupata dai serbi e poi liberata dai mussulmani. E' un posto dove si sono concentrati 60000 profughi che venivano dai paesi vicini. Quando si vedevano le immagini in televisione di tutte quelle persone che si stringevano nei camion fuggendo verso Tuzia, si trattava in realtà di persone che erano già fuggite da altri paesi e che erano già profughi lì. Persone che stanno facendo un'esperienza di esodo prolungato, senza fine. Perché anche Tuzia è praticamente assediata, se non fosse per un sottile corridoio che la collega al resto del mondo. L'esperienza di questa gente che fuggiva da Srebrenica è allucinante: persone che da un anno stanno fuggendo di posto in posto. Un esodo ripetuto e continuato nel tempo. Poi sono tornato a Sarajevo. La situazione, da un punto di vista materiale, è lievemente migliorata: la distribuzione del cibo, anche se quello a cui ciascuno ha diritto è molto poco, funziona in qualche modo. In realtà mancano tante piccole cose e inoltre viene distribuita farina, pasta, olio, ma mancano da un anno carne e verdura. I medici sostengono che è molto probabile che una generazione intera di bambini, abituati a una dieta come la nostra, sia segnata nello sviluppo da questa improvvisa e prolungata carestia. molte infiltrazioni! anche pericoloLa situazione invece è peggiorata se. dal punto di vista psicologico. Il Da certi punti di vista complessivaprotrarsi di questa situazione di mente la situazione sta peggioranassedio, di difficoltà a capire anche do di giorno in giorno. quello che sta succedendo fuori, Ho anche visitato un brefotrofio. E per una persona normale è una con- avevo lasciato l'Italia proprio mendizione insopportabile dal punto di tre c'era in corso un dibattito molto vista psicologico. E lo si comincia forte e che sembrava anche alto nei a vedere. Ad esempio si può notare toni della morale, sul problema che, a differenza che in· passato, dello stupro etnico, anche se c'era agli incroci sotto tiro dei cecchini unelementofastidioso,perchésemsono sempre più numerose le per- bravasidiscutessecomeconsigliasone che non corrono più. Cammi- re queste donne. nano e questo è segno evidente di rassegnazione, di abitudine a considerare il pericolo, e anche la morte, come una eventualità quotidiana. Da un certo punto di vista l'atmosfera "eroica" dei primi mesi dell'assedio lentamente si sta sfilacciando, anche nei rapporti interpersonali. La gente è provata da questa lotta quotidiana per la sopravvivenza. giardini desolati, tutti gli alberi sono stati tagliati Una cosa impressionante da vedere in una Sarajevo che era una città molto alberata, sono questi giardini oggi completamente spogli e desolati, senza più alberi. Anche per chi non ci fosse mai stato prima della guerra, è una cosa che si coglie subito, si capisce subito che tutti gli alberi sono stati tagliati. Però con l'arrivo del caldo e la fine del problema del riscaldamento, già si pone il problema dell'acqua. L'acquedotto, prima della guerra, aveva una gestione fortemente centralizzata, e aveva un numero di addetti molto alto, circa 400, e credo che ?.O siano stati uccisi nel corso della guerra mentre riparavano l'acquedotto o si recavano al lavoro. Oggi il numero degli addetti è drasticamente ridotto e hanno continuato a lavorare rattoppando di volta in volta. Ma adesso la situazione è tale che non c'è più neanche modo di rattoppare: ci sono bimbi abbandonati senza nome Comunque lì a Sarajevo in un orfanotrofio, in condizioni immaginabili di forte mancanza di cibo, di cose d'uso quotidiano, pannolini ad esempio, ci sono cinque o sei di questi bambini nati dagli stupri, che in Italia sono stati chiamati "figli dell'odio". Una delle cose che colpisce molto è che non so bene per quale legge jugoslava precedente alla guerra, questi bambini portano il cognome delle madri che li hanno abbandonati, che non se la sentivano di tenerli con sé, però non gli è stato dato un nome. In Italia quando è capitato di trovare una bambina abbandonata in un cassonetto, la prima cosa è stata dargli un nome che in qualche modo contribuisce a dare una personalità, a sancire un'esistenza. Lì non hanno dato i nomi, sono veramente bambini senza nome. E mi ha colpito che nel frattempo il dibattito in Italia sia stato completamente archiviato, la qual cosa dimostra che un po' era fatto anche ad uso interno, quasi per contare le forze, le posizioni pro o contro l'aborto. Se ci fosse stato davvero tanto interesse al diritto alla vita credo che non succederebbe con così tanta facilità che questi bambini, che sono nati comunque senza consigli o raccomandazioni o inviti, restino abbandonati a se stessi in un orfanotrofio di Sarajevo. Questi qui ci sono e mi sembra che ci si preoccupi molto poco del loro diritto alla vita. Resistono gruppi e situazioni interetniche? Ci sono gruppi di resistenza? E' sempre più difficile. Esistono delle ragnatele di rapporti personali. Teniamo presente che a Sarajevo all'ultimo censimento 50000 persone si sono dichiarate jugoslave, con il padre di un'etnia, la madre di un'altra e che comunque non si riconoscevano per intero né nell'una né nell'altra. Questo prima ancora del conflitto. E' ovvio che mano a mano che la guerra va avanti -e in questo senso, per chi ha a cuore i principi della convivenza multietnica, è una guerra già perduta- ha radicalizzato odi i, incomprensioni, contrapposizioni, e tutti i gruppi evidentemente richiedono di schierarsi a chi sta nel mezzo, a chi potrebbe essere ponte fra un gruppo e un altro. Quando non ci si schiera la cosa è vista con sospetto. Ci sono meccanismi psicologici strani: i serbi che sono rimasti a Sarajevo si trovano psicologicamente costretti a proclamare in ogni momento la loro fedeltà al governo mussulmano della città. una guerra entrata nei cortili delle case D'altra parte c'è da notare che comunque a Sarajevo non si parla mai di assedio serbo, usano sempre il termine cetnico con riferimento a queste milizie serbe. E dicono cetnici non per dispregio, ma per rivendicare in qualche modo che la lotta non è contro i serbi in generale, ma contro quelli tra i serbi che hanno rotto la convivenza. Direi che è un'idea che è assediata e che a mio avviso è già stata sconfitta. Sarà molto difficile che tomino a vivere assieme. Si dice che gli assedianti siano molto pochi. Ma allora non si doveva intervenire?

Qualcosa si sarebbe potuto fare all'inizio. Oggi è molto difficile. Il numero di coloro che tengono in assedio Sarajevo non è grandissimoed è vero che un'azione di interposizione come è stata fatta recentemente a Srebrenica, si sarebbe potuta fare con buona probabilità di successo, senza spargimento di sangue, già molti mesi fa. Non è stato fatto. Ma va anche detto che se questa guerra, come tutte, può avere una spiegazione nei cattivi gruppi dirigenti, quelli che hanno evocato i fantasmi del nazionalismo, come Milosevich o Karadzich, però non è solo questo. Quelli che assediano Sarajevo non sono solo militari e una delle cose paurose di questa guerra è il suo carattere "popolare": una guerra che entra nei cortili delle case, con i ragazzini delle parti in conflitto che fanno il simbolo del loro schieramento, con i vecchi che portano vecchi fucili, una guerra che è molto "civile", nel senso che è interpretata, voluta e continuata da una parte della popolazione. Questo particolarmente nei paesi attorno a Sarajevo. Sarajevo, Tuzia sono tra i pochi posti in cui esiste una grande massa di civili non impegnati nella guerra, non combattenti, in cui si può parlare veramente di una popolazione civile in qualche modo ostaggio della guerra. stai attento, lo sai cosa viene dopo la 680? La 681 • Nei paesi invece, per un certo radicalismo del contadino che ha un sapore antico, spesso si vede il paese intero in armi che si difende da chi lo vuole attaccare, o attacca. Non è una cosa che può essere ridotta solo ad un problema di milizie. Purtroppo è anche una guerra che ha radici: la guerra condotta dai serbi e che ha radici forti nella popolazione di etnia serba della Bosnia. Non si può parlare solo di pochi dirigenti. Quando Karadzich è riluttante a firmare, credo sia anche per un problema reale: c'è un estremismo bellicoso nella gente. I delegati del cosiddetto parlamento serbo rappresentano abbastanza bene le idee che esistono fra i serbi di Bosnia, l'idea di avere il mondo contro, che c'è qualcosa da giocarsi e che bisogna "fargliela vedere". Naturalmente tutto questo confortato dagli errori che si sono fatti in tutto quest'anno, dalla lontananza, dall'assenza, dall'impotenza. Circola là una barzelletta che esprime bene questo: un mediatore internazionale dice a Karadzich «stai molto attento, perché lo sai cosa arriva dopo la risoluzione 680» e lui risponde «sì, la 681 ». Sono andati avanti a forza di risoluzioni non facendole rispettare. Quella internazionale è stata una politica molto lassista, piena di incertezze, equesta è una cosa che ha alimentato tra lutamente ininfluente. Bisogna poi considerare chi ha preso la direzione politica e militare sul campo. capipolo rozzi, non sono certo emersi i migliori Nel sobborgo serbo di Sarajevo, e che oggi è la capitale degli assedianti, il sindaco è uno che faceva il macellaio e che improvvisamente si è trovato ad essere un capopopolo. In genere non sono venuti fuori i migliori, quelli predisposti a capire, ad ascoltare, ma i più rozzi. Anche l'elemento contadino è un elemento fortemente presente nella direzione militare sul campo. Questo spiega anche come sarà molto difficile che siano rispettati gli accordi, perché in ogni paese c'è un capomanipolo che fadi testa sua ed è convinto di sfidare il mondo. Quindi è sicuramente vero che l'assedio di Sarajevo rappresenta anche l'assedio della campagna alla città. E nelle campagne questa situazione a macchia di leopardo non esiste più? Per i 3/4 della Bosnia la pulizia etnica è cosa fatta. Il mondo se n'è accorto in ritardo. Ho attraversato la Bosnia occupata dai serbi e tutti i paesi dove c'era un minareto erano vuoti, deserti. C'era solo un gruppo di miliziani al centro del paese. La stessa cosa vale, a onor del vero anche se in misura molto minore, per i paesi serbi in Herzegovina: ce ne sono alcuni completamente deserti. Dopo un 'po' si riesce a capire cos'è un paese bombardato: si vede una casa distrutta, una casa incendiata ... Ma un paese dove è stata fatta la pulizia etnica si riconosce dal fumo attorno alle finestre: le case sono state minate dall'interno, regolarmente. Non ci sono segni di bombe nei cortili: hanno messo le bombe dentro ogni casa e le hanno fatte saltare. Questo dimostra bene anche quanto sia profondo l'odio. Essendoci molti profughi, anche da parte serba, si poteva pensare che ricomponendo una mappa etnicamente omogenea, quelle case sarebbero andate ai profughi della stessa etnia. No.rodio è tale da distruggere tutto, anche il passato. Poi le moschee fatte saltare da una parte e, in pochi casi, le chiese ortodosse dall'altra. La pulizia etnica è una cosa che possiamo dare per avvenuta e senza ritorno. Non credo possibile, seppure sotto la i serbi di Bosnia la convinzione di poter agire impunemente, di poter " •. coltivare il sogno, che non hanno mai nascosto, di fare una grande Serbia e di tenere collegate saldamente fra di loro tutte le varie macchie di carta geografica abitate in maggioranza da serbi. A questo mirano e sfidano tutti con I' arroganza di chi, cresciuto in una cultura guerriera, fortemente nazionalista, è convinto che il mondo non abbia voglia di sporcarsi le mani con questa storia. In una intervista che pubblichiamo in questo stesso numero un giovane di Sarajevo ci dice che è venuto fuori anche un odio delle campagne contro la città cosmopolita. Secondo te è vero? E' assolutamente vero. C'è da tenere presente un fatto che si può spiegare, credo, con la proprietà della terra. I paesi generalmente si alternavano: c'è il paese mussulmano, a tre chilometri il paese serbo, poi ancora il paese mussulmano e così via. Nella campagna i paesi erano etnicamente omogenei. A Sarajevo, dove -tranne che nei sobborghi, dove c'era il quartiere mussulmano e quello serbo- la popolazione era davvero mista, con un alto numero di coppie miste, non c'era divisione. La divisione B iOr·noteiè8ra <31 no presenza del contingente multinazionale, imporre una pacifica convivenza a gruppi che si sono scannati a vicenda. Gli odii personali sono ormai destinati a protrarsi per decenni sicuramente. E adesso, dopo il voto del parlamento serbo-bosniaco, come vedi la possibilità, oggi più concreta, di un intervento? Continuo a essere contrario ad un intervento tipo bombardamento delle posizioni, perché è molto difficile, anche tecnicamente, e probabilmente del tutto ininfluente sul piano dei rapporti di forza reali. gli odii destinati ormai a protrarsi per decenni Quello che ci vorrebbe e che ci sarebbe voluto già mesi fa è l'invio di un grande contingente di terra con una notevole forza di dissuasione in grado di procedere lentamente a interporsi ovunque ci siano situazioni di conflitto, perdi fendere nei fatti quelle zone che sono state poste sotto salvaguardia internazionale. E lentamente far tacere le armi. Ma ci vorrebbe un contingente enorme di soldati, un contingente di pacificazione attiva. Un bombardamento, invece, avrebbe il significato di un'esibizione, molto poco produttiva sul terreno ed oltretutto molto pericolosa per i caschi blu che già ci sono. Non esistono grandi acquartieramenti, e anche bombardare gli aeroporti serve a poco perché hanno fatto un uso dell'aviazione molto limitato in definitiva. Le stragi, le scene di pulizia etnica, sono tutte cose fatte la sera, con i coltelli, con i fucili mitragliatori. Non sono grandi operazioni campali verso cui la superiorità tecnologica dell'occidente possa essere esercitata con efficacia. Avrebbe un potere simbolico, capace forse di intimorire molto di più Belgrado che ha in mano la situazione economica, che non i serbi di Bosnia. Loro le armi le hanno casa per casa, non hanno caserme, hanno dei paesi. Pensare di bombardare questi paesi vuol dire bombardare anche la popolazione civile serba. Ci si troverebbe in un tunnel senza sbocco. - Le foro di quesre pagine e delle due pagine successive sono srare scauare alcuni mesi fa a Mosrar, da Marco Ricci. ex-Jugoslavia UNA CITTA' 3

--------------lettera Ml SENTO COME UN TRONCO MARCIO B Già da alcuni mesi avevo intenzione di scriverti. Da poco abbiamo anche il telefono via satellite. Potevo anche telefonarti, però a voce non posso mai dirti quello che con la mano riesco a scrivere. Il motivo di questa mia lettera è il dolore, ira, miseria e sofferenza. Però ti scrivo anche in nome dei tempi passati. Sul futuro non ti scriverò niente, perché non so se vivrò ancora a lungo. Scrivo e la mia mano trema, non per la paura, trema per la tristezza che c'è dentro di me. Dentro di me c'è così tanta tristezza e dolore, che mi sembra di essere diventato trasparente per colpa loro. Il vento mi attraversa. A volte penso che dentro di me ci sia un tronco marcio. Marcisce dentro di me ed io lo vorrei rimuovere, però non ci riesco. Sono una nullità e tutto quello che mi sta attorno sembra che mi odi. Da loro arriva un 'eco che dice "Non ci toccare, non ci custodire, non hai bisogno di noi intanto arriveranno i Serbi a distruggerci". _ Ho perso il morale, e anche la _volontà.Sono arrivato al limite di impazzire, di far mal~ a me stesso. Forse tu mi puoi aiutare. Tutti i giorni gli ormai familiari rumori delle granate nemiche, delle raffiche, seguiti dai lamenti penetranti. I lamenti dei bambini impauriti, lamenti dei sofferenti, di donne giovani e di donne anziane. Sentendo questi lamenti la mente umana lotta contro la morte e per l'esistenza. Vorrei dimostrare a me stesso che c'è ancora qualcuno dalla mia parte e che non mi odia. Tiprego aiutami in qualche modo, dammi il coraggio, prega per noi, per quelli che ami, prega per la nostra salvezza e esistenza. Delle volte chiuderei gli occhi per non aprirli più, perché sempre più a fatica sopporto odio, morte, le torture, le distruzioni ... E non posso fuggire da qui. Rispondi a questa mia lettera come sai, la tua lettera sarà per me salvezza, perché sarà scritta là dove non c'è odio. E per un attimo potrò crearmi una bella immagine e per un attimo fuggire da questo inferno. Ho bisogno di sapere che esiste ancora amore e gente normale. Vorrei sapere che non esiste barbarie fuori dai confini di Bosnia e Herzegovina ... Spero nella tua risposta. Questa lettera per me è un modo per fuggire con i pensieri da questa grave realtà e continuare a sperare in qualcosa che renda migliore il mio domani. La tua risposta significherà molto per me, sarà il segno che qualcuno sta vicino ai miei miseri giorni e che li divide con me, e già questo per me significherà molto. lettera giunta a Midheta Bazdalic quindicinale di cultura e attualità una lettura dei punti chiave del cambiamento nella società, negli equilibri internazionali, nella Chiesa dal sommarlo n. 7 - 1 aprile 1993 Raniero La Valle Resistenza e pace Manuel Tejera de Meer/Marlna Nenna Psicologia: Bambini finti malati Maurizio Salvl Russia: Le forze in gioco Héctor Borrai Clinton e l'Europa Romolo Menlghettl Quando In carcere vanno gli illustri Giancarlo Ferrero Decreti: Confusione polttica e istituzionale Flllppo Gentllonl 18 aprile una scadenza decisiva Roberto Festorazzl Unità politica dei cattolici: Non tutti I vescovi sono d'accordo Andrea Bianchi Il movimento dei Consigli di fabbrica Maurizio Llchtner Diritti sociali: Rivendicazioneo solidarietà? Fiorella Farlnelll Le donne ricompattate in difensiva Luciano Bertozzl I nuovi schiavi Giuseppe Lumla Ragazzi del Sud Adriana Zarrl Violenza genera violenza Mario Pollo Droga: Le comunità terapeutiche Glullano Della Pergola Sociologia urbana: Ma il pedone dove lo metto? Enrico Peyrettl Diario di un'altra Pasqua Maurizio Slmoncelll Spese militari: Contro chi? Giancarlo Zlzola Bosnia: Aborto di umanità Arturo Paoll In cerca di senso Carlo Molari 'Verso il Sinodo africano Bruno Magglonl Come leggere oggi la Bibbia Rubriche: Ci scrivono i lettori - Primi Piani Attualità - Scienza, Tecnologia e Società· Cinema - Teatro - Tv - Arte - Fotografia - Letteratura - Musica - Riviste - Libri • Rocca/schede 64 pagine una copia L. 3.000 abbonamento annuale L. 55.000 Cittadella - 06081 Assisi richiedere copie saggio o COSA ANCO Da bambini, in fabbrica, di là e di qua dalla Neretva, mai un problema e tanti matrimoni misti. Non si può capire come si è arrivati a questo. Intervista a una donna bosniaca di Mostar. Alcuni mesi fa due donne bosniache mussulmane sono riuscite ad uscire dall'inferno della guerra grazie ali' intervento della CRI e del 'omologa organizzazione bosniaca e si sono rifugiare in Romagna. Hanno portato con sé un figlio ciascuna, perchè entrambi molto bisognosi di cure e di assistenza. Dopo un ricovero in ospedale per le prime necessità, sono state "adottate" dall'Associazione per la pace di Forlì che le ospita in un appartamento e fornisce loro i mezzi di sostentamento. Pur nella consapevolezza del grande privilegio toccato loro rispetto alla sorte di migliaia e migliaia di connazionali non sonofelici e le giornate vengono trascorse con unfondodi angoscia incancellabile. Le abbiamo incontrate in uno dei giorni peggfori, perchè da Mostar arrivavano le prime notizie di una ripresa di violenti scontri fra truppe mussulmane e croate, fino a poco prima alleate contro i serbi. E'. un momento difficile, non potrebbe essere più difficile di così. Vorrei tornare a Mostar domani stesso. Là ci sono mio marito e un altro figlio, di cinque anni. Ascolto le notizie fino a mezzanotte, la situazione sta peggiorando. Non si resiste ... prenderei su questo fagotto di figlio e tornerei subito a casa. Vorrei tornare e poi morire. Ogni mattina mi alzo e vedo che qui sto bene, non mi manca niente, ma non posso fare a meno di pensare a quel figlio così piccolo, là da solo, a casa di amici. Chi ha figli credo che mi capirà. Non c'è più posto per la speranza: anche i croati hanno cominciato a combattere contro i mussulmani. Eppure, mi dico, la speranza deve esistere. Devo credere che tutto questo finirà. Non so quando, non so come, ma alla fine si dovrà mettere un punto. Qualcuno ascolterà la voce del popolo che chiede solo di vivere in pace. li popolo non ha colpe, è stato ingannato dai capi nazionalisti, da Tudjman, lzerbegovich, Karadzich. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Hanno cominciato dicendo che volevano salvare la Jugoslavia e invece l'hanno distrutta. I politici e l'esercito ci hanno portato a questa situazione. Lo sappiamo noi quanto ci è costato mantenere l'esercì to, quante tasse pagavamo perché fosse potente e armato perché ci avrebbe dovuto difendere e adesso ci stanno massacrando con i nostri soldi. Tudjman vuole che le cose vadano come dice lui, Izerbegovich pensa altrettanto, e così la pensano Milosevich e Karadzich. Nessuno cede, però credo che le loro famiglie intanto siano al sicuro. Solo la povera gente, solo chi non sa dove andare è rimasto a soffrire la fame, a vivere sotto le granate. La situazione è brutta. A Mostar era in ebollizione da tempo, perché dopo la cacciata dei combattenti serbi c'era la paura che i croati volessero prendersi una parte della Bosnia. Alla radio ho sentito un giornalista croato che ha detto a Tudjman: quello che accade è il frutto di un accordo fra te e Karadzich, loro attaccano Srebrenica e tu auacchi Mostar. Ha detto proprio così, apertamente. I gruppi armati serbi e croati si combauono fra loro e, contemporaneamente, si meuono d'accordo per la spartizione della Bosnia a danno dei mussulmani. E allora l'estremismo non c'entra più niente, tutto è progettato, studiato. Però qualcuno deve fare qualcosa, si deve salvare il popolo che soffre. Adesso fanno fatica ad arrivare anche gli aiuti umanitari, i nostri profughi in Croazia stanno male, hanno paura, si sentono ostaggi. Mio marito mi ha detto: resta lì, non c'è più dove tornare, io sono sempre in giro con la milizia e il bambino ce l'hanno i nostri amici. lo credo che impazzirò. Come può una madre vivere sapendo che il proprio figlio di 5 anni è là e vive come un orfano? Non mi hanno permesso di portarlo via, non posso ritornare, non ho notizie ... posso solo impazzire. Posso solo chiedere a tutto il mondo di salvare il popolo, di salvare i nostri figli che stanno soffrendo terribilmente. Abitavo in un piccolo paese a pochi chilometri da Mostar. Quando è scoppiata la guerra ero proprio a Mostar perché il figlio più piccolo era in ospedale. Aveva meno di un anno e soffriva per un principio di asfissia patito durante il pano. L'ho lasciato all'ospedale e sono partita per Jablanica per portare il figlio grande dai miei genitori. Purtroppo sono stati distrutti tutti i ponti e non sono più riuscita a tornare. Sono stata accolta come profuga e per due mesi ho vissuto in un centro per profughi a Spalato. Quando i serbi si sono ritirati da Mostar sono potuta tornare, ma non sono più potuta andare dove abitavo prima perché la zona era stata devastata dai combattimenti ed era ancora pericolosa. Ho lavorato in fabbrica per più di dodici anni. Si lavorava su tre turni ma non si stava male. La giornata era di otto ore, naturalmente avevamo le ferie e ogni volta che ho avuto bisogno di un giorno libero me lo concedevano. Tutti avevamo gli stessi diritti, non c'era qualcuno trattato in modo diverso. Per i guadagni ... bè, quelli non erano alti, bisognava accontentarsi. Vorrei rivivere la vita che abbiamo vissuto! Stavo bene, lavoravo, non si pensava mai: quello è serbo, quello è mussulmano ... lo non sapevo se uno era serbo o croato, non si dava importanza. Vivevamo insieme con reciproche attenzioni. Ho molti amici con matrimoni misti e non so di qualcuno che abbia subito discriminazioni o avuto degli svantaggi per essere di un'etnia o di una religione diversa. Non ho mai pensato neanche per un attimo che sarebbe potuto succedere quel lo che sta succedendo. Mostar è attraversata dal fiume Neretva, ma i vari quartieri di qua e di là dal fiume non erano a base etnica. Sulla riva sinistra c'erano principalmente serbi e mussulmani e un po' di croati, sulla destra mussulmani, croati e un po' di serbi, insomma eravamo molto mescolati e non avrei mai detto che anche questa città sarebbe stata toccata dalla guerra. Quando la situazione è andata peggiorando io non ci volevo credere e a chi voleva andarsene per paura io dicevo che sbagliava, non potevo credere che iI nostro esercito, il nostro popolo sarebbero arrivati a questo punto. Ricordo che litigavo con chi parlava di pericolo di guerra civile. Avevamo festeggiato Bajram, Natale, tutti insieme anche l'ultima volta, come tutti gli anni precedenti. C'erano i dolci, gli arrosti, le bevande, noi mussulmani preparavamo secondo la nostra tradizione la baklava. Si faceva festa anche in fabbrica. Ci sono sempre state attenzioni reciproche. Anche da bambini eravamo molto misti, si giocava insieme, non c'era nazionalismo, nessuno si accorgeva di essere serbo o croato o mussulmano, nessuno ha dovuto soffrire per questo. Noi ragazzi crescevamo insieme, facevamo le stesse cose. I miei genitori e i miei zii, ad esempio, rispettavano ogni anno il ramadan ma io non sono mai stata obbligata, sono stata libera di non essere molto religiosa, così come lo erano i miei amici serbi o croati. I miei genitori volevano che sposassi un mussulmano, tuttavia non ho mai dato un grande peso a questo. Ho avuto ragazzi che non erano mussulmani, storie da ragazzini che sono finite così, come finiscono quelle storie. Poi mi sono sposata effettivamente con un mussulmano, ma prima mi sono innamorata, poi ho saputo che era mussulmano. La vita era così, è sempre stata così, c'era come un clima di contentezza spirituale, non e' erano divisioni e la vita non poteva scorrere diversamente e non si può immaginare diversamente. Non credo sia possibile trovare una sola persona che sia più contenta adesso di prima, trovare qualcuno che dica che sono stati risolti dei problemi. E adesso non so come finirà, perché che si voglia o no si dovrà vivere insieme. Per quanto sarà difficile non si potrà fare diversamente: troppe famiglie miste, troppi legami. Però non so dire cosa succederà. Non so come guarderò gli altri e come gli altri guarderanno me, se si placheranno gli odi i o se ci saranno ancora vendette. Io vorrei che si tornasse a vivere insieme, ma non so se lo vorrà mia zia: le hanno ucciso un figlio di diciassette anni e un altro, insieme al marito, gliel'hanno deportato. Poi hanno fatto sapere che avevano rilasciato il marito, ma lui non è mai tornato a casa. Non so se mia zia potrà mai perdonare i serbi. Intanto però non è ancora finita. L'Europa e il mondo sono diventati ciechi. Per noi c'è stato tanto aiuto sul piano umanitario. Cibo, vestiti, medicine, accoglienza, tutto vien fatto per noi, tranne far finire la guerra. Credo che molti siano interessati alla distruzione della Jugoslavia, alla vendita delle armi, alla guerra civile, alla divisione della Bosnia. Città bel Iissime sono state distrutte, vengono uccisi i bambini, nascono campi di concentramento dove si muore di fame, c'è la tortura degli uomini e la violenza contro le donne, città e villaggi rimangono accerchiati per mesi e mesi e nessuno interviene. Non riesco a capire. L'ONU tutti i giorni s'incontra con questo e con quello e intanto i combattimenti continuano, piovono le bombe, la gente muore. Non lo vedono? Cos'altro deve succedere? Quando ci penso la mia testa scoppia, davvero non riesco a capire. -

' S"· ~t_: ,k ·,?,),~~ (. , ? •·:v ,; i,,_ ,..-,~ . ·-fi ·v-_,, Jt ,,, . i,, ~;.,,~~ TERRORE A MOSTAR Sulla situazione a Mostar, dove in questi giorni i croati hanno ripreso gli attacchi contro i mussulmani, abbiamo chiesto notizie a una persona appena tornata dalla città. 12,maggio, 1993.Prima degli scontri veri epropri di questi giorni c'erano statedelle avvisaglie in altri centri più piccoli. Successivamente si èavuta aMostar una serie di atti significativi. Si è cominciato con la croatizzazione spinta della città. E cioè: alla riapertura della scuola sono stati sostituiti tutti i libri con testi di Zagabria; nella lingua ufficiale son state introdotte vecchie parole croate; son stati cambiati i nomi delle strade; è iniziata un'espulsione di mussulmani dai posti di lavoro che ha risparmiato solo i più qualificati; s'è adottato uno status di profugo per cui gli uomini fra i 17 e i 60 anni e le donne fra i 16 e i 55 non potevano essereconsiderati profughi, con ciò perdendo il diritto alla casa,ali' assistenza,al cibo. A Mostar son rimasti 80000 abitanti, 18000 dei quali profughi dalle zone di combattimento. In pratica questi venivano cacciati dalla città. Questo incredibile provvedimento, del B1 resto simile a quello da tempo in vigore in Croazia che divide i profughi di origine croata dagli altri, introdotto il 15 aprile è stato poi sospeso. Oggi si può dire momentaneamente,perché la sostanzadi quel decreto viene ora applicata con altri mezzi, .. Un altro atto concreto è stato l'inizio di un'azione di cecchinaggio per cui è diventato impossibile circolare a piedi. Poi son statechiuse le frontiere: i convogli umanitari son stati bloccati e nessunmussulmano è più potuto entrare o uscire. Il blocco per i mussulmani è tuttora vigente. Fra la fine di aprile e i primi di maggio è cominciata una serie di attentati che avevano come obbiettivi prima i bar mussulmani, poi i terrazzi delle case. Infine, la città èstatadivisa in settori e i mussulmani sono stati sospinti sulla riva sinistra del fiume, dove più grosseerano state le devastazioni della guerra con i serbi un anno fa e dove da allora non c'è più né energia elettrica néacqua né ponti per attraversare il fiume. Questo era il clima fino apochissimi giorni fa, quando gli scontri fra croati emussulmani sondiventati aperti, con uso di armi automatiche e pesanti e con i rastrellamenti croati di civili mussulmani. ex-Jugoslavia NULLA DI PEGGIO CHE ASSISTERE INDIFFERENTI Di fronte a situazioni drammatiche come gli assedi di intere città, i bombardamenti contro i civili, lapulizia etnica, gli stupri, l'organizzazione di campi di prigionia con condizioni al limite della sopravvivenza, il tulio in una condizione di grande disparità delle forze in campo il compito del pacifismo è la riaffermazione dei principi della non violenza, il non uso assoluto della forza, l'assistenza materiale e morale alle popolazioni colpite o è, anche, far cessare la guerra con ogni mezzo, compresa quindi la 'forza"? Abbiamo chiesto a Gianni Sofri, docente di storia e conoscitore e studioso di Gandhi, di ricordare e commentare le posizioni di Gandhi su questo specifico tema. Gianni Sofri è,fra l'altro, autore del libro Gandhi in Italia, ed. Il Mulino, dal quale sono riportate alcune citazioni. Gandhi diresse una lotta per l'indipendenza che aveva come interlocutori gli inglesi. Si possono dare giudizi molto diversi sulla natura del colonialismo britannico, o sulla mentalità "razzista" degli inglesi, quella che viene descritta in maniera duramente critica da Forster in Passaggio in India o da Orwell in Giorni birmani. Tuttavia, nessuno si sognerebbe mai di porre i colonialisti inglesi in India sullo stesso piano dei nazisti o dei Khmer rossi (o anche, aggiungerei oggi, delle bande armate dei serbi in Bosnia). A pensarci bene, in tutta la storia pluridecennale della lotta dell'India per l'indipendenza ci sono numerosi episodi di violenza da entrambe le parti, ma solo uno che è passato alla storia come un massacro vero e proprio, sanguinoso e vergognoso. Si tratta del massacro di Amritsardel 1919, il cui principale responsabile venne peraltro punito dai suoi superiori (sia pure, a parere di molti, troppo blandamente), e rinviato in patria. Si deve quindi alle teorie e alla pratica di Gandhi della non-violenza, ma un po' anche al tipo di risposta degli inglesi, se la lotta di liberazione di un popolo di quattrocento milioni di persone potè svolgersi, e arrivare a compimento, con un tasso di violenza e di perdite umane decisamente inferiore a quello di altri Paesi che conobbero un'esperienza paragonabile a quella indiana (dalla Cina all'Algeria, all'Indocina ex francese). Il grande massacro, quello fra indù e mussulmani (un milione di morti e sei di profughi) si verificò alla fine della lotta per l'indipendenza. E benché sia possibile attribuire una parte di responsabilità agli inglesi, l'aspetto principale resta quello degli odii secolari che riemersero nel momento della partenza dei colonizzatori (se si vuole, in maniera abbastanza simile al riesplodere di antichi conflitti etnici e religiosi dopo la crisi dell'impero sovietico o della federazione jugoslava). Inaltri termini, Gandhi ebbe in un certo senso la favorevole sorte di poter lottare contro un awersario che restava comunque rispettoso di una base minima di regole di umanità. In uno scritto del 1984, che si trova nel volume "Il canto del pendolo", losif Brodskij ha scritto che per mettere in pratica la resistenza non violenta è necessario un "margine di democrazia; ed è proprio quello che manca all'86 per cento del globo terracqueo". Gandhi non sarebbe stato d'accordo. Era convinto che anche i dittatori, come Hitler e Mussolini, potessero essere convertiti e redenti dallo spettacolo della nonviolenza applicata contro di loro. Quando la seconda guerra mondiale si avvicinava, e quando ebbe inizio, Gandhi ne fu letteralmente traumatizzato, ne vide con acume, e con disperazione, il sicuro effetto di imbarbarimento, e intraprese una serie di iniziative per scongiurarla. Scrisse due lettere ad Hitler (che probabilmente non arrivarono mai a destinazione) per chiedergli di rinunciare alla guerra. Nel 1940 scrisse un appello "a tutti i britannici" per invitarli a non opporsi ai tedeschi e a lasciarli entrare nella loro "bella isola" senza opporre alcuna resistenza. Vale la pena di riprodurre una parte di quell'appello: "Faccio appello a tutti gli inglesi, dovunque si trovino, perché adottino il metodo della non-violenza invece di quello della guerra, nella risoluzione dei conflitti tra le nazioni e in ogni altra questione. I vostri statisti hanno dichiarato che questa è una guerra per la salvezza della democrazia. Si danno molte altre giustificazioni. Voi leconoscete tutte a memoria. lo credo che alla fine della guerra, quale che possa essere l'esito, non esisterà più nessuna nazione che possa rappresentare la democrazia( ...). Faccio appello perché cessiate le ostilità, non perché non siete più in grado di sostenere la guerra, ma perché la guerra è un male in assoluto. Voi volete eliminare il nazismo. Ma non riuscirete mai a eliminarlo adottando i suoi stessi metodi. I vostri soldati stanno compiendo la stessa opera di distruzione che compiono i tedeschi. La sola differenza è che forse i soldati inglesi non sono tanto spietati quanto quelli tedeschi. Ma anche se per il momento questo è vero, essi ben presto diverranno spietati quanto i tedeschi, se non addirittura di più. La guerra non può essere vinta in altro modo. In altre parole, voi dovrete divenire più crudeli dei nazisti. Nessuna causa, per quanto giusta, può giustificare il massacro indiscriminato cui oggi stiamo assistendo. lo affermo che una causa che richiede le azioni disumane che si stanno compiendo non può essere considerata giusta. lo non voglio che l'Inghilterra venga sconfitta, ma non voglio neppure che conquisti la vittoria con l'uso della forza bruta, sia questa espressa con i muscoli o con il cervello( ...). Vi invito a combattere il nazismo senza armi, o, per attenermi alla terminologia militare, con armi non-violente. Abbandonate le armi che impugnate; convincetevi che non possono servire a salvare voi stessi e l'umanità. Invitate Hitler e Mussolini a prendere ciò che vogliono della vostra bella isola, con tutto ciò che di grande e di bello contiene. Darete ai dittatori tutto ciò, ma non darete mai loro i vostri cuqri . e le vostre menti. Se essi vorranno occupare le vostre case, voi le abbandonerete. Se non vi lasceranno uscire, voi insieme alle vostre donne e ai vostri figli vi lascerete uccidere piuttosto che sottomettervi." (pag100-101 di Gandhi in Italia). Gandhi si rivolse anche al viceré, lord Linlithgow, per dirgli che la guerra era ormai perduta e per offrirsi lui come mediatore con Hitler. L'Inghilterra stava allora affrontando uno dei momenti più oscuri della sua storia e resistendo alla minaccia hitleriana con grande coraggio. Il vicerè rispose: "Siamo impegnati in una lotta: finché non avremo raggiunto i nostri scopi, non ci sposteremo dalla nostra linea". E aggiunse: "Tutto andrà bene". Gandhi assunse posizioni inquietanti e "scandalose" anche riguardo ai polacchi, ai cecoslovacchi, agli ebrei. Riguardo a questi ultimi, non cambiò idea neppure dopo la fine della guerra. Nel 1946 disse a Louis Fischer: "Hitler ha ucciso cinque milioni di ebrei. E' il più grande crimine dei nostri tempi. Ma gli ebrei avrebbero dovuto offrirsi alla mannaia del boia. Avrebbero dovuto precipitarsi nel mare da sé, dall'alto di una scogliera ... Questo avrebbe fatto insorgere il mondo intero e il popolo tedesco ... Nei fatti, in un modo o nell'altro, sono morti a milioni." (pag.99 di Gandhi in Italia). Queste posizioni di Gandhi furono oggetto già allora, e lo sono state in seguito, di molte discussioni. Un primo punto riguarda una scarsa consapevolezza, legata alla lontananza geografica, ma soprattutto culturale, della vera natura del totalitarismo moderno. Un secondo punto riguarda la legittimità di accettare il sacrificio (il massacro, il genocidio) di intere generazioni o popolazioni in nome di una impazienza, di una volontà di bruciare i tempi lungo la strada che dovrebbe portare a una società definitivamente e totalmente priva di violenza. Si potrebbe aggiungere che la via propugnata da Gandhi era una via praticabile dai santi, cui non si può certo negare il diritto di rinunciare a difendersi. Ma, con altrettanta forza, non si può non riconoscere e accettare il diritto di chi intenda attuare una "legittima difesa" nei confronti di aggressioni: soprattutto quando queste aggressioni sono condotte in maniera barbara e disumana. Un altro punto in discussione riguarda il rapporto fra ricerca della pace e libertà. Entro quali limiti è possibile accettare senza reagire un'oppressione (di un popolo, di un gruppo sociale, di singoli individui), in nome della necessità di non contribuire all'aumento complessivo della violenza? Può, la difesa della vita come scopo primario, prescindere totalmente dai valori che la rendono degna di essere vissuta? E ancora, non esiste in alcuni casi il rischio che un eccesso di remissività nei confronti dei violenti finisca per indurli a moltiplicare pericolosamente la loro violenza? Mi sembra che tutti questi interrogativi siano quanto mai attuali riguardo alla Bosnia. Vorrei finire ripetendo una considerazione che ho già fatto altrove. "Se vogliamo completare questo ricorso-spéro non ozioso- a Gandhi e agli altri padri del pacifismo radicale, c'è un altro aspetto da prendere in esame. Per Tolstoj, il Cristo ha ordinato di non resistere al malvagio e di non accettare la violenza in alcun caso, a meno che si tratti di salvare un bambino minacciato e in pericolo. Quanto a Gandhi, faceva anche lui un'eccezione, per un folle omicida che minacciasse una comunità e che non fosse possibile catturare vivo. Nel '26 scrisse che "colui che non uccide un assassino che sta per uccidere suo figlio (quando non può impedirglielo in altro modo) non ha alcun merito, ma commette peccato". E più volte spiegò che in una società non fatta di esseri perfetti ma "di comuni esseri mortali", in alcune circostanze l'astenersi dalla violenza può non corrispondere all'ahimsa (la non violenza). O, ancora, che l'uso della violenza per una causa giusta è comunque più lodevole di una vile accettazione dell'ingiustizia. Si possono prendere alla lettera queste citazioni su bambini e pazzi sanguinari (e certo colpisce che in Bosnia si sia comunque sparato su bambini). Ma si può anche cercare di coglierne il significato simbolico e metaforico: anche dal punto di vista della nonviolenza non c'è nulla di peggio che assistere indifferenti a un massacro. Naturalmente, non si tratta di violentare il pensiero di Gandhi per farne un guerriero, bensì di impedire che la teoria della non-violenza diventi un alibi all'impotenza e all'indifferenza" (Linea d'ombra, ottobre 92). Gianni Sofri UNA CITTA' 5

di ,noi e di altri Del diballito di Firenze su "xenofobia e razzismo", nel numero scorso abbiamo pubblicato la parte sulla ex-Juguslavia. In questo numero riportiamo, sul problema del- /'immig razione in Europa e della xenofobia, l'intervento di Cohn Bendit, autore, insieme a Thomas Scmidt, del libro intitolato "Heimat Baby/on". Sono contro l'emigrazione. Credo che l'emigrazione sia una del lecose più terribili che esista oggi al mondo. Cosa vuol dire emigrazione? Emigrazione significa che delle persone sono costrette a lasciare la terra dove sono nati per andare a lavorare e a vivere lontano, perché nel posto dove sono nati non possono lavorare né vivere. Questa non è una situazione da di fendere.Equelli che dicono: "noi siamo per l'emigrazione" sono stupidi perché certamente stanno difendendo un mondo inegualitario, un mondo dove c'è un centro di bene e una periferia di male. Questo è il primo punto da pensare. Il secondo punto è che, di fronte a un'emigrazione che evidentemente esiste, la tradizione rivoluzionaria, socialista, ha fatto della immigrazione lo strumento della lotta di classe avanzata dell'Europa. Conosciamo tutti le tesi secondo cui gli immigrati sono all'avanguardia nella lotta di classe nei paesi sviluppati.come laGermania o la Francia o l'Inghilterra o non so dove. Anche questo è un errore. Ma perché gli immigrati vanno in Germania? Non per dire che la Germania è male, ma per dire che loro vogliono partecipare alla capacità di vita che esiste in Germania. il tedesco cattivo per definizione Se la maggior parte di coloro che emigrano verso nord va in Germania significa che per loro laGermania è il paese più sviluppato e il più desiderabile in cui vivere. Non è che ci vanno perché è il paese più terribile! Ma questo è un problema molto difficile per uno di sinistra in Germania. Essere di sinistra in Germania porta, nella maggioranza dei casi, ad avere una cattiva coscienza, a pensare che "non si può essere tedeschi" con una storia simile, perché il tedesco è il cattivo per definizione, più cattivo dei fascisti italiani, dei fascisti spagnoli, perché la distruzione degli ebrei c'è stata solo in Germania. Ma con questa idea - che la Germania è iI punto di riferimento dell'orrore nel la storia- nessuno poi capisce perché la gente voglia vivere qui, nel centro del1' orrore del mondo. Alla sinistra in Germania, allora, non resta che pensare che se gli immigrati vengono in Germania non è perché la Germania è buona, ma perché gli immigrati stessi non hanno capito che la Germania è cattiva. Quindi bisogna spiegarglielo perché arrivino a lottare a fianco della sinistra tedesca contro lacattiva Germania. Ma questo non funziona. Perché alla maggioranza degli immigrati, -che non vuol dire piccoli gruppi, non vuol dire intellettuali- non interessa assolutamente nulla se la Germania è bene o male, quello che a loro interessa è sapere se potranno sviluppare un livello di vita economica decente, per dare i soldi alla famiglia fuori e per avere una vita normale inGennania. E tutto il discorso politico non è interessante pe~lqro. è tedesco chi ha sangue tedesco Il terzo punto è che nel mondo l'ineguaglianza esiste. E' possibile sviluppare un'idea di eguaglianza? Se noi troviamo un modo economico-democratico per aiutare il mondo cosiddetto sottosviluppato, allora servono ancora circa dieci anni per far sì che uno che vive in Africa o nell'Est dell'Europa non senta il bisogno di andare a vedere se la vita in Germania è meglio. In questo tempo abbiamo emigrazione, che po11erà a una società multiculturale, multietnica: una società, cioè, con al suo interno livelli di storie, di consenso sociale, molto differenti. Quando, negli anni' 80 o '90, un marocchino o un turco arriva in Germania ha una storia completamente differente da quella di un tedesco. Non ha gli stessi punti di riferimento di vita sociale, di vita familiare, e non voglio dire migliori o peggiori, ma solo che sono diversi. E I' attenzione politica e sociale di una società multiculturale deve essere rivolta a trovare il modo per sviluppare insieme unmodo di vivere incomune che sia accettabile dai tedeschi e dagli immigrati turchi e marocchini. A questo punto uno dei problemi centrali della società tedesca è che la definizione del tedesco è una • Disinfestazioni - Derattizzazioni - Disinfezioni B ■ Allontanamento colombl da edifici e monumenti ■ Disinfestazioni di parchi e giardini ■ Indagini naturallstlche 47100Forfi - •iaMeucc~24 (:ùlnaIndustriale) Te/.(0543)722062 Telefax(0543)722083 I Come conciliare l'heimat, che è il posto dove si vive in pace, con la babilonia della multietnicità, che fa anche paura, è la scommessa del futuro europeo. La necessità di normalizzare il rapporto della Germania col resto del mondo. Pubblichiamo un intervento di Cohn Bendite definizione etnica. InGermania per essere un tedesco, uno deve avere sangue tedesco. E' tedesco chi ha genitori o una parte di sangue che viene da tedeschi. Ecco perché c'è stata la possibilità per 15 milioni di profughi di venire in Germania come tedeschi, perché hanno antiche discendenze tedesche. Hanno diritto di venire in Germania perché la Costituzione tedesca dice che chi ha sangue tedesco ha diritto di venire inGermania. Questo complica molto le cose perché I' immi- ~~ grazione di lavoratori, iniziata alla fine degli anni '50, pur essendo diversa dal!' emigrazione tradizionale -quella verso la Russia e l'America, quella per restare- e motivata invece dalla necessità di fare soldi per due o tre anni per poi tornare via, è diventata duratura. I due o tre anni sono diventati 25-30 anni. Italiani, marocchini, turchi. jugoslavi, tutti sono arrivati inGermania con l'idea di fare i soldi e di partire, ma questa idea non ha mai funzionato. smetterla con una definizione etnica Sono rimasti in Germania e oggi in una città come Francofone il 27% della popolazione -più di un qua110 della popolazione- è costituita da immigrati. Alle ultime elezioni a Francoforte il 32% della gente che aveva diritto a votare aveva più di 60 anni. Cioè a dire che, se la struttura del la società a Francoforte fosse la struttura della gente che vota, la società non potrebbe neanche funzionare: non ci sarebbe nessuno per lavorare, per far funzionare l'aeroporto, le fabbriche, le banche. Tutta la ricchezza di una città come Francoforte non può funzionare con la struttura della popolazione tedesca che vive a Francoforte. E' chiaro che l'immigrazione rimane in Germania e che, dopo 30 anni, la seconda e anche terza generazione di italiani, turchi, marocchini che vivono a Francoforte, che sono nati qui, sono sempre stranieri, perché non hanno sangue tedesco. E allora la Germania, con questa definizione etnica, di sangue, ha una responsabilità molto grande perché formula un modo di vivere, un modo di esistenza, sulla idea della permanenza dello straniero. Uno che è nato in Germania rimane straniero fino alla morte e questa situazione provoca nella società rotture e tensioni molto, molto pericolose. gente che piange tutta la giornata Allora per noi il problema dell'immigrazione in Germania diventa il problema della definizione della Germania. Noi dobbiamo smetterla con una definizione etnica della Germania, smetterla con la definizione di una società e di uno Stato tedesco "per i tedeschi". Occorre definire la Germania come una società repubblicana, in cui ci stiano dentro lutti quelli che sono nati nel paese o da genitori tedeschi. Questa è la sola possibilità politica per accettare l'immigrazione. Questo è il punto più importante delle lolle degli ultimi due o tre anni. Se noi prendiamo questi due punti -che l'immigrazione esiste e che la Germania non ha la possibilità di avere una gestione politica delle differenze, di integrare queste differenze nel suo sviluppo storico, nella sua idea repubblicana- andiamo nel problema centrale della Germania oggi. Dopo la riunificazione, noi abbiamo visto la mobilitazione di gruppi e di una grande parte della popolazione della Germania Est che, con il senso etnico di essere tedesco, ha avuto la reazione del tutto logica di dire: "finché i nostri problemi non sono stati completamente risolti, non vogliamo avere degli immigrati turchi", eccetera, eccetera. li problema è che in tutta la Germania Est non esistevano immigrati! A Francoforte vivono più di 180000 stranieri, in tutta la Germania Est, compresi i profughi, vivono 180000 mila stranieri. lo stesso numero che a Francoforte. a Rostok vivono solo 500 stranieri A Rostok. dove ci sono stati gli scontri, vivono 500 stranieri, di cui 250 zingari, cioè lo 0,08% della popolazione. Allora il vero problema non è quello della immigrazione, ma come possa esistere, al pari dell'antisemitismo senza ebrei, un razzismo senza stranieri. Il problema diventa quello dell'impossibilità, da parte della società tedesca, di gestire l'immagine dell'immigrato singolo. Questo è per me il grande problema non solo della Germania, ma di tutto il mondo moderno. Noi non siamo capaci di dare alla gente dei punti di riferimento per superare delle situazioni complicate. I popoli del mondo moderno, capitalista, sviluppato, sono fatti di gente che piange tutta la giornata e, prima fra tutti, c'è la popolazione della Germania Est, che piange tutta lagiornata "perché loro nonhanno soldi", perché "dopo quattro anni di riunificazione il livello di vita non è quello che c'è a Francoforte", eccetera, eccetera, eccetera. Allora siamo in situazione di rivendicazione permanente nei confronti dello stato, dei politici, della gente.C'è la convinzione che la società dei consumi risolverà i problemi di tutti, prima dei tedeschi, poi degli italiani, dei francesi e se potremo anche dei turchi. Ma questa situazione non ha mai funzionato. Se oggi ci sono 3 milioni di persone che non lavorano inFrancia, così in Germania, così in Italia, siamo in una società che non ha sensibilizzazione della disoccupazione. Nella immaginazione della società la disoccupazione, la sensazione di perdere qualcosa, determina una grande paura nella gente. Se questo è vero il problema, diventa come passare da una civilizzazione della paura della disoccupazione a una civilizzazione della solidarietà. Questo è un problema difficile perché. per la maggioranza della gente, questi immigrati - pur non essendo la ragione della paura- raddoppiano il sentimento di paura, il sentimento -molto difficile da vincere- che noi dobbiamo dividere qualcosa. accettazione della paura Qui è importante trovare un discorso di acce11azionedella paura, nel senso di dire "sì, la gente ha paura" e non di dire che •'ècompletamente folle avere paura". Dobbiamo cioè trovare un linguaggio politico di accettazione della paura e dimostrare che l'emigrazione non è stato solo un problema, ma anche una necessità per la società. Eche esiste una possibilità di gestione democratica, di solidarietà, della necessità dell'immigrazione. Riuscire a fare, cioè, una politica attiva del1 'emigrazione nelle scuole, nei quartieri, nelle strade. nella cultura, eccetera, per accettare i momenti più belli dell'immigrazione, ma anche i problemi difficili che l'immigrazione comporta. Vorrei dire un'ultima cosa. La Germania non va verso il fascismo. li pericolo di rottura, a livello istituzionale, fascista autoritario è per me più grande in Italia che in Germania. Questo non vuol dire che non esistano gruppi fascisti in Germania: esistono; non vuol dire che non ci sia un sentimento di xenofobia in Germania: esiste; ma esistono anche 45 anni di tradizione democratica. anche a livello dei padroni tedeschi, anche a livello di tutte le istituzioni che fanno funzionare questa società tedesca. E se uno vuol vedere la differenza fra i tedeschi dell'anno 1945 e i tedeschi dell'anno 1993 va a vedere la differenza fra la Germania Est e la Germania Ovest. Nella Germania Est c'è il tedesco autoritario che viene da due esperienze totalitarie: il fascismo e lo stalinismo. In Germania Ovest c'è una popolazione anche autoritaria, ma dopo 45 anni di democrazia e di movimento sociale democratico, di lotta sociale e democratica. Anche per questo l'unico paese dove c'è stata una reazione di massa di una grande parte della popolazione contro i crimini dell'estrema destra è stata laGermania Ovest. Più di 2 milioni di persone sono scese in piazza. Quando c'è stato l'attacco dei cimiteri ebrei a Parigi c'erano 100.000 persone con Mitterand, ma a Parigi è una città di 4 milioni di persone o 5 milioni. Ci sono state a Monaco più di 200.000 persone e a Francoforte più di 100.000, a Berlino più di 200.000, ad Amburgo più di 150.000. Questo vuol dire che oggi la società tedesca ha una capacità di reagire, ma se i problemi politici in Germania sono forti, non vuol dire che questa situazione duri un'eternità. è fascista dire "siamo fieri di ••• "? Noi dobbiamo trovare inGermania una soluzione ad un problema molto difficile: quando c'è un atto di xenofobia e di aggressione razzista in Germania, il mondo reagisce pensando "ecco i tedeschi'', "Auschwitz!" e dà una cattiva coscienza al laGermania. Ma con la formulazione di una cattiva coscienza non è possibile aiutare la gente a capire i problemi. E se oggi, un maestro di scuola di sinistra vuole parlare dei problemi del nazismo, di Auschwitz, a un ragazzo di 1314 anni, dicendogli: "tu sei come me, noi siamo responsabili per quello che è stato fallo 50 anni fa•·, gli dà solo una cattiva coscienza, il giovane non può capire. E la prova sta nel fallo che è l'unico paese dove la frase ·'siamo fieri di essere tedeschi" suona fascista. Una frase che Millerand, Pertini, Berlinguer, possono dire tranquillamente, ma in Germania no. Noi dobbiamo ridare la possibilità ai tedeschi non di essere fieri di essere tedeschi, che a me interessa relativamente, ma di normalizzare la loro relazione con la propria sto1ia.Normai izzare non vuol dire dimenticare, vuol dire smettere di vedere la Germania come il punto di riferimento del1• orrore del mondo. Fra l'altro una parte della destra tedesca può usare questa situazione, in periodi difficili anche economicamente, per fare un discorso non solo di nazionalismo tedesco, ma anche di sopravvivenza dell'essere tedesco. i tedeschi non sono differenti Noi dobbiamo dare ai tedeschi, e questo è una lotta molto complicala perché la storia esiste, la possibilità di dire: "noi non siamo un paese differente dagli altri''. I tedeschi non sono differenti. i pericoli politici in Germania sono gli stessi dell'Italia, della Francia, dell' America, dell'Inghilterra, né più né meno. Questo è il grande problema, oggi, per la Germania: l'integrazione della Germania, e anche dell'esercito tedesco, nel ruolo di tutti gli altri paesi. Vuol dire avere un rapporto con il mondo normale. -

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