Una città - anno III - n. 22 - maggio 1993

nario, con la parte maschile, può favorire nei tìgli, soprattutto maschi, l'insorgere di fenomeni psicotici e l'incapacità di uscire da un rapporto troppo stretto e castrante con la figura materna e femminile. E' giusto che i figli sperimentino il limite al loro desiderio: questo permette di avvertirne la mancanza, e li stimola a cercare e a spezzare il legame infantile. Infatti ci sono figli che non raggiungono mai l'autonomia dalla madre e questa vive la vita depredandoli della loro; e questo è il contrario di quello che chiamiamo amore, è volere inglobare un altro a tal punto che non c'è più distinzione. Queste madri spesso, e più nei confronti del figlio maschio, mettono in atto pulsioni erotiche. Ma mentre verso le figlie femmine queste pulsioni vengono tenute sotto controllo e negate, nei confronti del maschio la madre ha un atteggiamento subdolo nel controllarle e in tal modo controlla l'autonomia del figlio. E' come se la madre pensasse: ·'Io sono una femmina, quindi senza possibilità; mio figlio è l'altro da me, è quello che io non sono mai riuscita ad essere". Questa è la perversione più grossa che una madre può attuare verso il figlio. Il femminismo è una pratica valida contro il razzismo? Rispetto al problema del razzismo, non so se il movimento delle donne possa costituire una soluzione. Una cosa è certa, per il fatto di avere vissuto sulla nostra pelle una emarginazione, a volte voluta, e una possibilità di liberazione, abbiamo un grande rispetto delle altre culture. Ho l'impressione chela critica dell'etnocentrismo, che è stata una grossa battaglia della sinistra, andasse più nel senso del rendere tutti gli altri uguali a noi, oppure immaginarli migliori di noi. Invece seciascuno rimane nei suoi confini simbolici e culturali, mantenendo ben salda la propria identità, questa si modificherà nel rapporto con I' altro in virtù della relazione che si instaura e non per dettato di legge. il diverso non è poi così diverso da me Carissimi amici, La lettera di Alfredo Rosetti, pubblicata sul numero 21 del vostro giornale, mi ha procurato non poca amarezza. Donde tanta violenza e tanto disprezzo? Non era mia intenzione, invero, provocaresconvolgimenti in nessuno, ma solo cogliere un'occasione per una riflessione libera e sincera. Rileggendo, mi accorgo di aver detto cose povere e incerte - ma che ripeterei senza alcun indugio. Cosa dire dei due «meri fatti» che ignorerei? e dell'ipotesi secondo cui riposerebbe proprio in questo ignorarli l'origine delle mie «ambiguità "speculative"» - denunciate ma, molto ingenerosamente, non indicate? Francamente, nulla. Nulla finché non ci si risollevi dall'equivoco, finché non vengano dissipati pregiudizi e sospetti. Giacché proprio questo è il punto. Mi pare che Rosetti abbia equivocato ogni cosa. Egli riesce a "scoprire" degli errori nel mio discorso solo perché non si cura per niente del quadro argomentativo e intenzionale entro il quale mi muovo. D'altronde, la mia intervista non assume affatto quei supposti errori come premesse generali - risultato cui può giungere chiunque non abbia deciso caparbiamente di non ascoltare. Via, chi non conosce la cronologia della seconda guerra mondiale? Chi non sa del terrore e della distruzione che i nazisti hanno disseminato ovunque siano giunti, guidati da questa loro convinzione di essere la razza dei padroni! Ciononostante è necessario ancora precisare. 1. In relazione alla prima questione: Certo, la bomba atomica è stata sganciata innanzitutto contro l'irriducibile Giappone - ma come si fa a negare che questo evento sia stato, almeno inizialmente, vissuto come un che di appartenente al dolorosissimo, necessario processo di "fermata del nazismo", dei suoi alleati e delle loro ideologie? Le virgolette alte (che sono state giustamente apposte dal redattore) intendono segnalare una distanza dall'espressione; quest'ultima è assunta unicamente in quanto indica una convinzione comune, poco discussa, che all'incirca suona: se non fossero giunti sulla terra il nazismo e la sua macchina bellica, forse non ci sarebbe stato bisogno di alcuna bomba atomica. Resetti ha invece creduto che io esprimessi in quel modo una mia convinzione, una mia tesi; insomma, ha creduto che io volessi così indicare la causa finale dello sganciamento della bomba ... donde l'equivoco. Ma al di là di ogni fraintendimento, al di là di ogni esattezza cronologica (la cui importanza è comunque innegabile), rimane, con un rigore unico nel suo genere, la questione se sia o no nostro obbligo tentare di pensare liberamente il senso più essenziale di quell'evento. Ho sempre più l'impressione che cose come "cause" e "ragioni" rimangano fondamentalmente inadeguate alla portata del destino in cui siamo finiti. Che cosa vuol dire che l'uomo occidentale (e con questa espressione non si intende affatto abolire le differenze oggettivamente esistenti tra storie e tradizioni e responsabilità dei vari popoli dell'Occidente) giunge a "costruire" la bomba all'idrogeno? Non si tratta solo di fare dei conti, di calcolare delle possibilità, di dar conto e di rendersi conto, ma innanzitutto di meditare il senso (la direzione e la portata storica) di un'umanità cui sia toccato di "scoprire" l'energia atomica; l'energia atomica innanzitutto, ma anche l'industria alimentare meccanizzata ed i campi di sterminio, tutti i campi di sterminioladdove, naturalmente, ciascuno "pratica", e ha praticato, la distruzione e l'annientamento asuo modo (non sono infatti divenuti, a loro modo, dei luoghi di sterminio quei paesi ridotti alla fame, ai quali accenna "la piccola frase"?). Si tratta allora di meditare tutti questi fenomeni nella loro medesimezza, che non significa affatto uguaglianza, come crede il Rosetti, ma co-appartenenza dei differenti; co-appartenenza il cui segreto essenziale non mi pare sia stato ancora svelato chiaramente da nessuno. Del resto, chi e che cosa potrebbero convincerci che il pensiero sia solo una questione di calcolo e di sagacia intellettuale, di penetrazione analitica e di descrizione, owero debba risolversi, proprio come pensiero in atto, in uno «sforzo potente di costruzione teorica»? Chi, posto che rimanga attento ai segni inquietanti della nostra epoca, chi può mostrare, e in modo inequivocabile, che i campi di sterminio non appartengono alla nostra storia, alla nostra storia europeo-filosoficoscientifico-occidentale, ma provengono da un altro mondo e da un'altra storia? E quest'altro mondo storico da dove sarebbe mai piovuto? Stiamo attenti a non commettere l'errore in cui cade Resetti -se comprendo bene- quando dice: «... le mediazioni e le specificità di Auschwitz sono molte ed essenzialmente intrecciate alla storia tedesca e alla cultura tedesca, sia l'alta cultura, sia il germanico folclore (corsivi miei)»: ecco, infatti, rispuntare il pregiudizio della colpevolezza collettiva, basato sull'immagine dello "spirito maligno" del popolo tedesco, della sua storia maledetta... Una posizione, ahimé, fatalmente vicina alla logica perversa di ciò contro cui si schiera, e cioè proprio il biologismo razziale nazista e la sua pretesa di assolutezza. 2. In relazione alla seconda questione, dirò solo questo: Non ho mai inteso affermare che il crimine nazista contro il popolo ebraico non abbia di fatto superato i confini di Buchenwald, Dachau, Mauthausen, Auschwitz ... Anche qui, mi pare, e spero di non fraintendere a mia volta, opera un equivoco: si è voluto ritenere che io abbia ragionato in tal modo al solo scopo di costringere questo crimine, alla luce «della famigerata categoria del moderno», entro lo schema della «tecnologia». Sarei dunque guidato da una perversa volontà di sminuirlo? Insomma: mi si accusa di superare l'orrore e la condanna servendomi di strutture concettuali "fredde" e, in fondo, comode, ossia deterministiche. Posso opporre a questo genere di sospetti solo il mio lavoro{cheècomunquepocacosa): non ho mai impiegato né mai impiegherei termini come «moderno» o «tecnologia», così, alla leggera e in modo scontato o strumentale, giacché, per me-e lo imparo ogni giorno da Heidegger-, l'essenza {il dispiegarsi, l'accadere, la struttura) della Tecnica moderna rimane un enigma che non ha in sé nulla di "tecnologico". Rimane qualche doverosa considerazione finale. Non si capisce come mai il mio tentativo di delucidazione, definito confuso econfusionario, puro fumo, sia poi capace di scatenare simili reazioni; né si può comprendere la velocità con cui viene liquidata la "piccola frase", interpretata come «fatuamente cinica» e come il segno della volontà di far «affondare i campi di sterminio e le camere a gas nella hegeliana notte di vacche nere di unfenomeno mondiale come !'"industria meccanizzata" ...». Ma come può Resetti essere così certo di quello che dice? Possibile che non sia stato colto, neppure per un istante, dal sospetto che queste sue osservazioni potessero essere venute in mente anche ad Heidegger? O bisogna ritenere che quest'ultimo sia stato in fondo un emerito imbecille oltre che un criminale nazista? Un imbecille nazista ignaro di dialettica speculativa e invaghito unicamente della sua patria germanica? Ma tant'è! L'equivoco in cui cade Rosetti è molto comune ed anche molto comprensibile. A nulla servono purtroppo le chiarificazioni e le testimonianze (senza contare i corsi universitari tenuti tra il '34 e il '45, la cui lettura mostra chiaramente come Heidegger sia stato un critico totale del regime hitleriano). Si tratta dell'effetto di un riflesso condizionato che blocca ogni riflessione. Nella prefazione all'edizione italiana (incorso di stampa da EGEA) del suo libro sul cosiddetto affaire Heidegger, François Fédier osserva ad un certo punto: «... l'indignazione che ogni persona onesta prova semplicemente nell'evocare la realtà della tirannia nazista si riversa automaticamente su tutti coloro di cui si può sospettare che ne siano stati i complici. La terribile potenza della maldicenza non ha altra origine: è sufficiente suscitare il più piccolo sospetto per provocare infallibilmente un riflesso di antipatia a partire dal quale la maldicenza troverà, per un curioso effetto di feedback, un nuovo slancio. Potrei fornire dozzine di esemdibattiti pi di ciò che bisognerebbe chiamareuna proliferazione anarchica della maldicenza, unicamente causata da questo riflesso condizionato di antipatia». Insomma: siccome si sospetta sommariamente che Heidegger sia stato e sia rimasto, "in fondo", un nazista, per molti è assolutamente obbligatorio denigrarlo in ogni modo (si pensi alla falsa storiella riportata da Rosetti sullo Heidegger che si presenta in abiti tirolesi -sic!- all'università di Bologna), e/o dare del suo pensiero rapide letture, poche cose colte qui e là, senza molto rispetto o rigore: non è esso solo un'accozzaglia di «vaghe metafore, crepuscolari e notturne»? e non sono i suoi epigoni soltanto uno «sciame fastidioso»? ... Resta in ogni caso da capire che cosa mai significhi essere epigoni di Heidegger. Mi fermo qui. Tutta questa ira avrà certamente le sue ragioni. E, per quanto mi riguarda, intendo rispettarle. Infatti il discorso di Resetti, udito al di là del suo tono, accenna a qualcosa, io credo, di cruciale, e cioè alla necessità di chiarire, sempre di nuovo, i nessi profondi tra il tentativo heideggeriano di pensare la Tecnica come modo del rendere manifesto l'ente (e quindi nel suo divenire un «destino della verità dell'essere che riposa nell'oblio») e la concezione marxiana della storia - concezione che, come è sottolineato da Heidegger stesso nella Lettera su/l'umanesimo, rimane, in virtù della dottrina dell'alienazione, «superiore ad ogni mera storiografia». Rimandiamo allora la parola ad un tempo più propizio. Il duello e il dialogo sono più profondi della rissa. Più di tutto, però, possono il colloquio libero e l'abbandono. Con rinnovata amicizia, Gino Zaccaria. Per me, come donna, il diverso, se lo riconosco, non è poi così di verso perché ci leggo quello che più mi assomiglia, nel senso della esclusione, della difficoltà di vita, della difficoltà di essereuna persona e di essere insieme agli altri in una società che spesso non favorisce lo scambio. Secondo me si è fatto del moralismo sul problema del razzismo: l'integrazione vuol dire che gli altri si adeguano a noi e non viceversa. E' giusto che a Roma i mussulmani abbiano la moschea. ma quanto sia uguale, simbolicamente, a quelle dei loro paesi, questo non so. Noi abbiamo sempre avuto un concetto di ·'altro" come diverso da assoggettare; gli aztechi non avevano questa cui tura del I' altro, tanto che quando l'hanno visto, non l'hanno riconosciuto come un nemico e invece lo era. Rispetto alle donne mussulmane possiamo solo pensare se quelle donne in quella cultura così lontana dalla nostra si sentono integrate e soddisfatte. A noi l'uso del chador o la 1 'IRRIDUCIBILll'A' DELL 'ALl'RO pratica della infibulazione sembrano cose vecchie e anche violente, invece tutto va ricondotto al senso che loro vi danno. Infatti il corpo, in quanto tale, non è un dato oggettivo, ma è significativo culturalmente. Pensaad esempio al signi ficato attribuito nella nostra cultura alla verginità. E così nella cultura mussulmana, l'infibulazione permette alla donna l'accesso al mondo adulto. E sarebbe un errore impedirla perché sarebbe violazione al loro vissuto. Nello stesso modo lo chador, in tempi recenti, è stato utilizzato per esempio in Iran, come un ritorno alle proprie originie di fine dell'influenza americana. Comunque il vero nemico è dentro di noi, dentro noi c'è una parte aggressiva, che se non èben analizzata e contenuta, può esseredistruttiva. Penso al nostro rapporto con la natura così aggressivo. La violenza esige contrapposizione: o tu o io. Invece è meglio mantenere le distanze. - Cari amici di "UNA GITTA"', vorrei tornare sull'intervista a Gino Zaccaria e sulla famosa frase di Heidegger. Per Heidegger l'oblio dell'essere è alla base dell'incapacità dell'uomo di capire la tecnica e di sottrarsi al suo dominio. L'identificazione fra ente ed essere consegna l'ente, privo di fondamenti e non più in rapporto con l'autentico essere, alla tecnica totalizzante. L'ente senza più fondamenti è determinato dal prodotto fino a diventare esso stesso prodotto. L'uomo moderno non può più quindi criticare la tecnica perché, abbandonato l'essere, non ha alcun riferimento per uscire dalla circolarità della tecnica. A questo punto Heidegger diventa astratto e confonde l'impotenza della specifica ragione moderna legata al capitalismo con l'impotenza della ragione tout court. Non è assolutamente possibile negare l'evidenza della produttività dell'uomo e di come un certo tipo di mondo costruito dall'ente umano ha modificato i rapporti fra gli uomini e le loro strutture B1bl1otecGa ino Bianco sociali. Bisogna capire allora quali sono i momenti della storia dell'Occidente che hanno portato all'immensa oggettivazione della tecnica e qual è il progetto che sta alla base dei vari passaggi storici. Non possiamo in alcun modo rinunciare alla possibilità di capire in che cosa le varie epoche si differenzino l'una dall'altra e quale rapporto vi sia fra la culture, le forme di pensiero e le strutture sociali. Gli storici che mi sono stati maestri all'Università mi hanno insegnato a cercare sempre le persone, gli uomini e le donne in carne ed ossa, anche ad uno ad uno se è possibile, a indagare sulle loro esili tracce con amore e comprensione, a capire e denunciare le loro ferite, il loro dolore e da dove nasceva la loro sofferenza. Da padre Ernesto Balducci ho imparato a guardare con compassione le culture del passato, e non solo quella occidentale, per una solidarietà biologica ed etica con gli sforzi di tutti gli uomini e le donne della terra per preservare la vita e per creare dei valori normativi che formassero una società. Allora ogni paesaggio, coi suoi ponti, filari, centuriazioni, case, badie ecc., mi parla non di arcaici ritorni all'essere ma di uomini e donne, comunità che hanno lavorato per vivere e per donare ancora vita ai propri figli, che hanno creato spazi per decidere, per incontrarsi e per avere autocoscienza, unici fra i viventi, di sé, della propria società e degli altri. Ripensavo in questi giorni a Leopardi, al Leopardi della Ginestra che Cesare Luporini, da poco scomparso, mi ha insegnato a leggere come portatore di una visione del mondo democratica, razionalista e internazionalista nata dalla compassione per gli uomini e le donne alle prese con la natura matrigna e dal sogno del libero consorzio umano capace di battere la logica delle guerre e dei confini nazionali. La proposta di Heidegger è invece quella del ritorno alla casa dell'essere, cioè di liberarsi definitivamente dall'alienazione originaria che ci ha condannati a fare, a produrre, a bruciare energia e volontà, laddove possono regnare pace e silenzio, ascolto e interrogazione. Come ci spiega anche Zaccaria in questo caso le parole libertà, responsabilità, progetto, progresso, non avrebbero più senso come sarebbe anche inutile cercare torti, ingiustizie e sofferenze. Mi sembra che in realtà ci sia già troppo essere nella nostra società. Il soggetto è già stato completamente destrutturato e un essere smisurato e onnivoro non lascia più spazio all'irriducibilità dell'altro. Penso che il problema allora sia quello non di affidarsi all'essere ma di rifiutarlo in nome del soggetto e della sua capacità di creare universi simbolici, cultura, progetti, resistenza contro il male, desideri, conflitti. Bisogna rifiutare il fare della tecnica oggettivante e alienante, ma non quello del progetto, dell'operare e del patire insieme, della cooperazione e della strutturazione simbolica di una società. E' allora la questione dell'altro, delle differenze, della partecipazione di tutte le culture, anche quelle passate e scomparse, a divenire fondamentale in questa discussione. L'altro è l'umano che rivendica la propria specificità e irriducibilità, è l'operaio frastornato dall'insensatezza delle operazioni al computer, è il giovane che limita la propria esperienza e linguaggio a quello della TV e delle videocassette; l'altro è la storia sociale di tutti coloro che hanno abitato il pianeta, è la considerazione delle vicende umane al di là di tutte le astrazioni come fare umano collettivo che produce molteplici orizzonti e forme di vita non deducibili dall'essere naturale o dalla pura razionalità: «sul terreno storico-sociale -ha scritto P.Barcellona-si radica ogni società istituita che, in quanto creazione di significati immaginari e di orizzonti di senso, esprime un progetto di vita e struttura il nomos attraverso cui si realizza la specifica forma di socializzazione e il criterio di misura che rende comprensibili gli individui di una determinata società». Allora deve essere chiaro che l'era della tecnicizzazione assoluta si critica non a partire da un apriori trascendente o da una presunta natura umana, ma da un progetto normativo di uomini e donne che si uniscono per contrastare la società istituita. Claudio Bazzocchi UNA CITTA I , ,

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