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TRE TEMPI DELLA GUERRA DI CLASSE

I l libro di Romano Bilenchi

( I l bottone di Stalingrado,

Vallecchi, L. 2.800)

cade in modo inatteso e infine provocatorio nel miserabile panorama delle lettere

italiane, adagiate nei più comodi ghirigori del sistema, servili sino alla stupidi-

tà, sempre incapaci di comprensione del reale sino alla catatonia o alle sue ma-

scherature da TV o terza pagina. Cerchiamo di spiegare da lettori generici le

ragioni di interesse. Non fosse che a noi stessi.

Bilenchi ha un suo "mito" che, rivisitato, è persino irritante. Dal toscani-

smofascista del "Selvaggio" e di

Pisto

al toscanismo austero, tozziano, che a

quello rudemente fa da contraltare (e la cui matrice resta secondo noi molto cat-

tolica), teso i l secondo i scoprire le realtà dell'anima e della vita ma attraverso

scavi di paesaggi e di fatti visti in un costante, lodevole, talvolta di eccezionale

resapoetica, rifiuto di psicologie e naturalismi, Bilenchi ha abbandonato la let-

teratura col '40. A essa ritorna solo oggi, dopo l'esperienza della guerra e della

resistenza, dopo l'adesione al PCI, dopo aver diretto per dieci anni uno dei po-

chi esempi decenti di quotidiano che l'Italia abbia avuto ( "Il nuovo corriere")

affossato dopo l'Ungheria dal compagno Palmiro, dopo essere uscito dal PCI,

dopo aver curato

da

allora a pochi mesi fa la terza pagina del giornale degli

agrari e dei calamari toscani, dopo esser rientrato nel seno ( avvizzito come quello

di una vecchia zitella) del partito. Con un libro che, come vedremo, è implicita-

mentemolto più a sinistra del "partito". Questa vicenda è appunto "austera",

di privata moralità che fa i conti più con se stessa e con l'eterno che con la

storia e la rivoluzione (che è concetto ardito, troppo ardito per un devoto a

Luzi ). Ma basta con l'autore. Diciamo solo che, dei suoi racconti vecchi, oggi

quelli che più ci interessano sono i l gruppo del

Capofabbrica

assai più che i ri-

sultati definiti giustamente "classici" da molti, come quelli che egli stesso ha

trascelto per uno struzzo einaudiano,

I l processo di Mary Dugan.

I n questi ul-

timi infatti l'ambiente e i personaggi di minuta piccola-borghesia toscana e di

infanzie e adolescenze, si restringono a un rigore di costante riferimento-nega-

zione a una latente "sentimentalità" la cui concretezza dialogava troppo poco

con la concretezza della storia e le cui azioni rinviavano a qualcosa d'altro

che è più realtà castrata che realtà-vita. Insomma, d i quei racconti ci puzza

un'essenzialità certo raggiunta, ma rispetto alla quale ci vien fatto d i grida-

re: viva i l barocco del ducato in fiamme.

I l capofabbrica,

prova giovanile di

complessa e irrisolta pretesa, era invece l'ambizione a un quadro storico di una

società che ingloba i destini individuali in giochi più vasti di cui essi solo par-

zialmente sono consci — giochi storici e no, provvidenziali e no — attraverso

unasmozzicatura di capitoli autosufficienti, una struttura per volumi spesso ai

limiti dell'astrazione, una derivazione da certi rifiuti ancora imperfettamente pronti

auna nuova forma e a una nuova misura chenascevano dalla impossibilità di far

romanzocome se nulla fosse, come, cioè, se la storia non avessedrasticamente

macinato i l macinabile e proposto disarmonie più reali rispetto alle passate con-

sistenze borghesi e romanzesche. All'autosufficienza della misura degli scritti

successivi,

I l capofabbrica

e oggi I l

bottone di Stalingrado

oppongono a diversi

livelli di maturità una secca tensione di irrisolte e

irrisolvibili,

e più che mai in

letteratura, contraddizioni.

I l bottone di Stalin grado

ci interessa soprattutto come indicazione per un

tipo di "romanzo" per forza "storico", che è forse l'unico possibile ai nostri

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