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Fabrizio a Waterloo

Insomma, più che nella ricerca meti–

colosa e complicata del piacere egotisti–

co (la quale è piuttosto la commedia di

Henri Beyle e dei suoi personaggi che

non la loro verità), la lezione

di

Sten–

dhal consiste nella buona fede con la

quale egli affronta la situazione d'incre–

dulità in cui si trova chiuso una volta

che ha riconosciuto da una parte l'incon–

sistenza dei miraggi sentimentali (

«

Capl

di essersi sbagliato in tutto ... », la con–

clusione di Fabrizio), dall'altra la falsità

delle finzioni che la saggezza mondana of–

fre come surrogato degli entusiasmi e

dei sogni giovanili.

A partire da una tale buona fede e

da una tale ironia, non è certo possibile

credere né all'epopea né a un lieto fine

qualsiasi della breve storia che è una

esistenza umana né, tanto meno,

al

do–

vere di obbedire all'imperativo dei tem–

pi moderni:

«

La massima felicità del mag–

gior numero», bersaglio favorito dei sar–

casmi stendhaliani.

Che cosa rimane dunque a quest'incre–

dulo? La chiusura nella vita privata:

«

Io

non so chi sono. Ma so benissimo quali

sono le cose che mi causano pena o mi

fanno piacere, quelle che desidero e

quelle che odio » dice Henri Brulard.

Non è molto.

Rimane però anche che né su Stendhal

né sui suoi eroi ha presa la lezione del ge–

suitismo moderno. La quale, come si legge

nella

Chartreuse,

consiste nel

«

dare

il

coraggio di non fare attenzione a cose

che sono più chiare della luce del gior–

no» .

e '

È

e

H

r , come Stendhal, non può

fare a meno di vedere quello che gli

sta davanti agli occhi, e c'è chi ha bisogno

di vedere a ogni costo quello che non

c'è.

Nel maggio 1861, quarantasei anni do–

po che

il

marchesino del Dongo era ac–

corso sul campo di battaglia

di

Waterloo

e non vi aveva trovato che una serie d'in–

cidenti sconnessi, uno scrittor e francese

allora al colmo della gloria, Victor Hugo,

23

si recò in pellegrinaggio sullo stesso cam–

po, spinto dal bisogno

di

avere una vi–

sione d'insieme della fatale battaglia; e

difatti l'ebbe. Se ne trova la descrizione

nei

Miserabili.

La differenza principale tra la descri–

zione di Victor Hugo e quella di Sten–

dhal è che, mentre per Stendhal la bat–

taglia di Waterloo nel suo insieme non esi–

ste, o comunque rimane inafferr\ibile,

per Victor Hugo, invece, essa deve a ogni

costo aver esistito, e posseduto la dignità

di evento unico e fatale. Per Fabrizio del

Dongo, si potrebbe dire, la battaglia di

Waterloo non può esistere nel suo com–

plesso per la ragione molto semplice che

egli la vive nel presente e ne è parte,

quindi non può vedere che i frammenti

che ne sprizzano fino a lui. Victor Hugo,

invece, l'ha tutta davanti come un fatto

compiuto e passato da far rivivere; per

lui, Waterloo è un fatto necessariamente

carico di tutta la grandiosità che conviene

all'evento che segnò la decisione irrevoca–

bile di Dio e della Storia nei riguardi del

grand'uomo Napoleone Bonaparte.

Nei diciotto capitoli dei

Miserabili

de–

dicati a tale evento, Hugo dipinge a

gran tratti un quadro storico che com–

prende tutte le vicende salienti della bat–

taglia, dal piano di Napoleone alla carica

di corazzieri di Ney contro le fanterie di

Wellington , fino all'arrivo di Bliicher in–

vece di Grouchy che, secondo gli storici,

decise delle sorti della gran mischia. A

questo, si aggiungono naturalmente le

considerazioni ideologico-storiche del poe–

ta intorno all'evento, le quali sono anzi

l'anima della rievocazione.

Victor Hugo non ritiene che

il

corso

di una battaglia sia un seguito coerente

di fasi ben distinte guidate dalla chiaro–

veggenza dei condottieri. Al contrario ,

il

caso, per lui, interviene già all'inizio:

«

Se

nella notte dal 17 al 18 giugno 1815 non

avesse piovuto, l'avvenire dell'Europa sa–

rebbe stato mutato. Alcune gocce d'acqua

in più o in meno hanno fatto vacillare Na–

poleone». Tuttavia - e

il

trapasso

è

caratteristico della visione

di

Victor Hu-