

Fabririo a Waterloo
esprime
il
senso della sua avventura, il
quale non può consistere né nei sogni
a occhi aperti di Fabrizio, né nella bana–
lità degli incidenti in cui si frantuma
l'evento storico, né tantomeno in un sup–
posto significato complessivo dell'evento
medesimo,
il
quale non è sperimentato
né sperimentabile da nessuno, giacché
tutti, da Napoleone all'ultimo soldato, ne
sono parte, e tutti, quale che sia l'impor–
tanza della parte che vi recitano, ne sono
travolti e trascesi.
Quello che importa, dunque, e che so–
lo è vero in senso proprio, è l'incontro
e lo scontro fra l'animo dell'individuo
e la violenza dell'evento; la quale, co–
munque, non si offrirà mai all'esperienza
altro che come incidente più o meno as–
surdo:
il
cadavere apparso di colpo at–
traverso la strada, le zolle di terra che
una forza invisibile fa sprizzare in alto,
il cavaliere vestito di blu abbattuto da un
colpo di fucile tirato alla cieca, sono
simboli di quest'assurdità intrinseca del–
l'evento quale realmente si manifesta al–
l'individuo che vi partecipa .
In
questa
assurdità si rivela, quasi crudelmente tra–
fissa dall'occhio fermo del romanziere, la
sola realtà che veramente interessi Sten–
dhal:
«
Questo dono scomodo, padre di
tante e cosl ridicole azioni, che si chiama
anima» .
Questo è il fatto che egli vuol
mettere in risalto sullo sfondo, più che
ostile, indifferente della vita reale, la quale
è
sempre soltanto
«
vita quotidiana ».
Che si tratti di battaglie o di vita or–
dinaria, la differenza non
è
grande : lo
scarto fra gli slanci dell'anima e la real–
tà comune - il mondo quafe gli uomini
tutti insieme lo fanno - rimane lo stes–
so. La vita reale è sempre vita quotidia –
na, sedimento fatale del gioco degli in–
teressi, dei calcoli utilitari (fondati su
quella visione lucida della trama sociale
che distingue il barone de la Mole o il
conte Mosca), del filisteismo e degli or–
pelli di cui il filisteismo si addobba. Di
questo è fatta la realtà, nemica di ogni
moto spontaneo. Ma senza questo, il mon–
do non sarebbe che favola inconsistente.
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L'ironia stendhaliana è fondata sulla co–
scienza attiva - sempre sveglia e mai
romanticamente indulgente - di tale fat–
to. Essa, dunque, opera continuamente a
doppio taglio: non risparmia la sponta–
neità e l'ingenuità, destinate come sono
alla sconfitta appena vengano a confronto
con la vita reale; ma neppure perdona al–
le finzioni mondane e alla mondana sag–
gezza, che non si ottengono se non a
prezzo della rinuncia a ogni spontaneità
di sentire e d'agire, cioè insomma ven–
dendo la propria anima (non senza l'il–
lusione di poter giocare con la vita un
doppio gioco
il
quale tuttavia non può
trovare dignità che in una fine tragica,
come nel caso di
J
ulien Sorel).
Q
u
A N T
o alla battaglia di Waterloo
e alla sua importanza storica, abbia–
mo un documento di ciò che Stendhal
pensasse del grande evento che mise fine
alla carriera di Napoleone in una nota da
lui aggiunta al testo della
Chartreuse:
«
Pensate a quello che saremmo oggi noi
tutti se Napoleone avesse vinto a Water–
loo! Non avremmo liberali da temere,
è vero: l'Imperatore avrebbe dato una
seconda edizione della monarchia, e avreb–
be potuto darle una tal sembianza
d'uti–
lità
che essa avrebbe benissimo potuto
continuare per un secolo; ma oggi i so–
vrani delle antiche famiglie non potreb–
bero regnare se non dopo aver sposato
le figlie dei marescialli dell'Imp eratore,
parecchi dei quali stanno attualmente ri–
velando che razza di mediocri essi fos–
sero...
»
Siamo qui molto lontani dal mito di
Napoleone portatore della Rivoluzione at–
traverso l'Europa , il Napoleone eroe del–
l'antifili steismo nel quale credono i gio–
vani eroi di Stendhal , e aveva creduto
a suo tempo Stendhal medesimo. Siamo
anzi al polo opposto: a un Napoleone che,
se avesse vinto a Waterloo e potuto quin–
di ristabilire fermamente le sue fortune ,
avrebbe fatto proliferare in tutta Euro–
pa delle monarchie alla Louis Philippe,
il re borghese per antomasia, così disprez-