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TE N D HA L
sta, si può
dire, nella capacità di tenersi allegra–
mente alla punta estrema del paradosso
per cui né il cosiddetto mondo esterno
- la società con le sue trame, gli
altri
con i moti imprevedibili del loro animo
- è reale, né i sentimenti e le immagi–
nazioni dell'individuo: reale è sempre e
soltanto lo scontro fra i due ordini di
fatti , e la
«
commedia di equivoci » che
ne scaturisce. Giacché è soltanto da tale
scontro che sprizza in tutta la sua labi–
lità, ma anche in tutta la sua vivezza, la
sola reahà che valga: la qualità dell'ani–
mo, la« sensibilità irragionevole» , l'« im–
previsto » infine, che è insieme il segno
della schiettezza con la quale un animo
giovane va incontro alla vita e della de–
lusione che l'attende . Giacché, nella pro–
spettiva di Stendhal, « realtà » significa
propriamente ciò che elude e delude gli
slanci dell'animo, ciò che non risponde
all'attesa o vi risponde a controsenso e
controtempo: la discordanza non sanabile
fra l'individuo e il mondo.
Tutto preso com'è dall'immediato,
Stendhal non solo non può credere a
una razionalità qualsiasi degli eventi, che
per lui si succedono senza mai somigliar–
si, ma non immagina neppure che una
tal cosa esista, tranne nelle elucubrazioni
dell'esprit de sérieux,
ecclesiastico, go–
vernativo o borghese che sia.
Certo, la battaglia di Waterloo quale
la concepl e condusse - o credette di
condurla - Napoleone non è l'evento ai
margini del quale vaga Fabrizio del Don–
go; il polverio d'incidenti in cui egli si
trova coinvolto non è la stessa cosa che la
mischia mortale da cui son scampati i
soldati che lo deridono; e questa mischia,
d'altra parte, non somiglia né alla bat–
taglia quale la combatte il maresciallo
Ney né a ciò che vede la vivandiera che
aiuta Fabrizio a cavarsi d'impicci. Water–
loo
fu
tutto questo insieme e separata–
mente, più infiniti altri casi e venture; e
fu
anche l'evento fatidico che decise la
fine dell'impero napoleonico. Stendhal,
il quale segul la Grande Armata fino a
Nicola Chiaromonte
Mosca e vide parecchie battaglie un po'
più da vicino che Fabrizio non veda Wa–
terloo, era certo cosciente di questa mol–
teplicità inesauribile e di questa unità
finale.
Ma che cosa sono, a ben considera–
re, questa molteplicità e questa unità
se non un vertiginoso gioco di specchi,
un labirinto di prospettive che si inse–
guono e si implicano l'una nell'altra al–
l'infinito? Esser cosciente di ciò vuol
dire, in ultima analisi, riconoscere l'esi–
stenza degli altri in noi e di noi negli
altri. Questo è il fondo, impervio a qual–
siasi sogno, della cosiddetta
«
realtà».
L'ironia di Stendhal deriva dalla coscien–
za irrequietissima che egli ha del fatto
che vivere significa avventurarsi su que–
sto terreno affascinante, folto di miraggi
e d'agguati : i suoi eroi (e lui stesso quale
si confessa nei suoi scritti autobiogra–
fici) sono abitati dalla preoccupazione
dell'esistenza altrui come da una specie
di terror panico.
Si è parlato di Stendhal come di un
« maestro d'energia». Certo, questo è il
sogno che egli sogna di se stesso e fa
sognare ai suoi personaggi: non lasciarsi
ingannare dai miraggi del sentimento, ren–
dersi padrone del gioco delle finzioni
mondane per forza di volontà, e quindi
mantenersi in qualche modo a un livello
eroico in un mondo su cui regnano i me–
diocri e gli ipocriti. Questo sogno, tutta–
via, è non solo continuamente interrotto
dalla delusione e dal fallimento, ma mi–
nato dall'ironia . Stendhal non ci crede,
come non crede, pur amandoli, ai sogni
di gloria e d'ambizione dei suoi eroi. Se
dunque c'è in lui una lezione d'energia ,
non è certo quella di dominare i propri
sentimenti e rendersi esperti delle vie
del mondo per procedervi con fredda si–
curezza. L'energia stendhaliana è, sem–
mai, altrove : nel saper egli sostenere con
tanto brio, e come dall'alto, la situazio–
ne ironica nella quale sa di trovarsi, ac–
cettando di giocare un gioco nel quale,
per dirla con Nietzsche, egli sa che i dadi
sono truccati.