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I

R I N A S C I T A

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industriale, non altrettanto poteva dirsi del volume degli

scambi commerciali intereuropei, essi accusarono di ciò

principalmente la Gran Bretagna, per la pratica, da essa

largamente seguita,' degli accordi bilaterali, che impe–

divano la lìbera trasferibilità dei saldi formatisi nelle

singole biiancie dei pagamenti; e proposero d i conse–

guenza la trasferibilità delle valute europee quando si

t rat tò d i rinnovare raccordo per i pagamenti intereuro–

pei in sede O.E.C.E. Questa proposta fece scoppiare i l

primo bubbone. Tutte le difficoltà i n cui sì trovava la

Gran Bretagna vennero alla luce. Se la proposta ame–

ricana fosse stata accettata, i paesi europei creditori

dell ' Inghilterra avrebbero preferito dirigere i loro acqui–

sti altrove, mentre un paese, i l Belgio, non avrebbe avuto

difficoltà ad accogliere valute europee convertibili in

sterline, poiché, per accordi precedenti, le sue sterline,

oltre un certo limite, avrebbero dovuto

essere

convertite

in dol lari . Nello schieramento dei paesi europei, cioè,

i l Belgio avrebbe rappresentato per l ' Inghilterra una

breccia attraverso l a quale poteva verificarsi un de–

flusso delle sue riserve in. dol lar i . La strenua difesa da

parte dell 'Inghilterra delle sue posizioni mise in luce

l a sua maggiore difficoltà, cioè i l crescente deficit verso

Tar-eia del dollaro, reso evidente dalla costante diminu–

zione delle sue riserve di oro e dollari.

Quando si andarono a ricercare le cause d i ciò, i l

r

problema si a l l a rgò : si vide cioè che le difficoltà inglesi

erano la prima ripercussione della depressione ameri–

cana. Secondo i l rapporto Snoy-Marjolin sugli aiut i

E.R.P. 1949-50, tale depressione ha provarato l f l pochi

mesi una caduta delle importazioni americane dall'Eu–

ropa di circa

i l

30%, e chi ne ha sofferto, in termini

relat ivi e assoluti, più d i tut t i è stata l'area della ster–

lina. L' Inghi l terra ebbe partita vinta sulla questione dei

pagamenti intereuropei, ma allora non sembrò che gl i

americani avessero rinunciato alle loro intenzioni. In–

fatti che essi volessero mantenere ancora l'istanza della

abolizione delle « barriere commerciali », si deduceva

facilmente dal fatto che essi, come correttivo a provve–

dimenti in questo senso, che avrebbero minacciato le

esportazioni inglesi, continuavano a proporre una sva–

lutazione della sterlina.

Orbene, quando noi esaminiamo gl i argomenti che Ja

Gran Bretagna aveva opposto alla svalutazione, comin–

ciamo a comprendere i contrasti di fondo che travagliano

gl i Stati capitalistici. I n sostanza l ' Inghilterra ha soste–

nuto per lungo tempo che, poiché essa importa dall'area

del dollaro beni

a

domanda rigida, anche ammettendo

che in conseguenza della svalutazione aumentino le

esportazioni e quindi le entrate in dol lari , questo au–

mento non farebbe altro che pagare,

-e-

anche incomple–

tamente, l'aumento dei costo delle importazioni. Perciò

la bilancia dei pagamenti non. ne avrebbe alcun van–

taggio e sd avrebbe inoltre un aumento dei costi e dei

prezzi interni . Quest'ultimo fatto poi da un lato aumen–

terebbe i l costo della vita, dall 'altra aumenterebbe i costi

industrial i , con gravissime conseguenze sulla possibilità

di affrontare la concorrenza americana sui terzi mercati.

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E non si creda che i l problema interessi solo l a Gran

Bretagna o solo l'area della sterlina: interessa tutta

l'Europa occidentale; i l che appare chiaro ove si pensi

che prima della guerra la prosperi tà europea poggiava

in buona parte sul fatto che la Gran Bretagna usava i

saldi at t ivi del suo commercio oltremare per importare

dall 'Europa e che attualmente l'indebolimento economico

dell'Europa dipende i n gran parte dall'indebolimento

della Gran Bretagna.

L'assoluta strapotenza degli Stati Uni t i d'America in

seno al mondo capitalistico, e la necessità dell'appoggio

americano considerato essenziale dai laburisti per conti–

nuare la loro politica di compromesso con gl i interessi

della borghesia inglese hanno fatto sì che la Conferenza

d i Washington abbia al la fine deciso per la svalutazione,

e per una svalutazione di proporzioni ingentissime; ma

i l peso d i considerazioni politiche (importanza della

Gran Bretagna nel Patto atlantico) ha consigliato di

soprassedere alla convertibilità venendo incontro alle

necessi tà inglesi di valuta forte con provvedimenti che

si manifesteranno sì, con ogni probabilità, nei fatti,

niente più che dei pal l iat ivi , ma che comunque vengono

a costituire un particolare bì lateral ismo anglo-americano

in seno al mondo capitalistico. La sconfìtta inglese viene

quindi a ottenere un qualche compenso, e ciò. a veder

bene, del tutto a danno delle economie degli al t r i paesi

europei, che sono messe in difficoltà anche dal coeffi–

ciente altissimo della svalutazione inglese. Mentre l'Ame–

rica viene ad ottenere le condizioni necessarie per poter

dare sviluppo a una ingentissima esportazione di capi–

tal i purché puntellata dallo Staio.

Da questi pr imi avvenimenti però noi possiamo già

trarre le prime conclusioni di carattere generale, anche

so i fatti sono di tale importanza che sarà opportuno

ri tornarvi sopra con maggior calma ed ampiezza.

I contrasti scoppiati, e che sopra abbiamo descritto

nella loro genesi e nella loro conclusione dimostrano

che, malgrado i l trasferimento di reddito, de l resto

relativamente assai modesto, rappresentato dal piano

Marshall, comincia a divenire sempre più pesante i i

fondamentale squilibrio, già preparatosi prima della

guerra e dalla guerra stessa portato al limite, tra l'eco–

nomia degli Stati Uni t i e l'economia del resto del mondo

capitalistico, squilibrio che appare enorme -o

-

ve si pensi

che nel 1948 gl i Stati Uni t i con unà popolazione eguale

al 6 % di quella mondiale, avevano una produzione

industriale pari al 50 %. Questo squilibrio, che riproduce

su scala mondiale le contraddizioni della produzione

capitalistica, comincia ad avere effetti disastrosi per gl i

stessi Stati Uni t i ohe, in un periodo d i depressione che

minaccia una crisi di sovra produzione, tentano i n

qualche modo di scaricarne i l costo sull ' Inghilterra e

l'Europa. Cha questo, a scadenza più o meno lunga, non

faccia altro che aggravare lo squilibrio è cosa evidente,

per quanto sembra che gl i americani lo abbiano capito,

per ora, soltanto sul terreno politico.

La stessa insistenza americana par una « liberalizza–

zione » del commercio interaazionale, attraverso l'aboli–

zione degli ostacoli (tariffe e contingentamenti) e !a

convert ibi l i tà delle varie valute, si dimostra oggi del

tutto priva di senso politico-economico, mentre con

buona pace dei social-democratici e democristiani no–

strani che pappagallescamente la ripetono, non ha altro

valore che di un'arme di pressione per gl i U.S.A. nei

suoi rapporti con l'impero Britannico. Infatti voler oggi

stabilire una • sana • divisione internazionale del lavoro,

in base al principio dei costi comparati, non significa

altro che cristallizzare gl i squilibri esistenti. Perciò ogni

manovra monetaria non è oggi che un palliativo di

fronte alla contraddizione di fondo che travaglia l'eco–

nomia capitalistica. E in- real tà, malgrado le dichia–

razioni, è bene, i n sostanza, questa l a preoccupazione

effettiva dagli americani, che di fatto sempre più insi–

stono, per superare la loro crisi, su questi a l ' r i due punt i :

le esportazioni di capitali (e -la svalutazione infat t i può

senz'altro essere considerata come essenzialmente i l

grande tentativo di abbassare ì salari reali europei,

creando quindi in Europa condizioni di tipo coloniale

per un opportuno investimento politico dei capitali ame–

ricani), e i l programma di riarmo, connesso alla politica

bellicistica del Patto atlantico. È appena necessario

aggiungere che sono queste le due strade classiche del–

l'imperialismo per esportare la crisi.

Inutile dire che nulla, di tutto ciò, ha capito i l governo

italiano, i l quale continua a correre dietro al mito della

abolizione degli ostacoli al commercio internazionale,

senza menomamente preoccuparsi di impiantare una

polìtica economica che sfruttando tutte le risorse in–

terne, garantisca la massima occupazione dej fattori

produttivi. In tal modo esso perde Tunica occasione che,

pur in una certa misura, si avrebbe di sottrarre l ' I tal ia

alle contraddizioni del sistema capitalistico mondiale.

E, sempre riferendoci alla situazione italiana, è bene

aggiungere ancora una cosa. La politica delTon. Pella

fu sempre, a veder bene, una politica meramente finan–

ziaria e non una politica economica: i n real tà essa man–

teneva la stabilità del solo

segno monetario,

assicurando

invece i l colto e l ' incl i ta di mantenere la stabi l i tà della

moneta.

Di questo ieri era forse difficile accorgersi: se

ne accorgevano soltanto i l proletariato attraverso la