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time. Sono anzi convinto che definizioni di «tipo smithiano» siano oggi più utili:

per propositi politico-critici, naturalmente, e non scientifici). Ma anche un pro-

getto fallito. Nelle sue linee teoriche generali il motivo di questo fallimento è sta-

toesposto nella recensionesu «Rinascita». A Lippi ovviamente interessa di meno

ciòche invece è stato subito rilevato da coloro che avevano un'attenzione esclusi-

vaper le categorie di lavoro produttivo e improduttivo: e cioè che è praticamente

impossibile circoscrivere in modo convincente e comunemente accettabile questi

impieghi di lavoro che sono specifici del modo di produzione capitalistico e non

propri della produzione in generale. Da un punto di vista teorico si tratta di una

difficoltà di second'ordine, dati i propositi critici della teoria del valore, da cui è

assurdopretendere quella corrispondenza ai fenomeni che potrebbe motivare un

calcolo numerico. Va tuttavia osservato che i caratteri specifici della formazione

storico-sociale hanno oggi compenetratocosì profondamente sia i valori d'uso sia

i modi di produrli da rendere totalmente impensabile il progetto di ritrovare negli

impieghi effettivi del lavoro la

struttura essenziale

del produrre in genere; e quin-

di quasi bizzarro il progetto di ricavare da quest'ultima proprietà fondamentali

della prima. Quando si è tentato di contrapporre all'esistente una diversa struttu-

ra (come in Baran e Sweezy), ciò è stato motivato da un disegno politico, e non

da un progetto scientifico, come avveniva in Marx.

Sele definizioni marxiane di lavoro produttivo e improduttivo sono subordi-

nate al progetto scientifico che abbiamo sinora discusso, si può ben capire come

siano forzate e incongrue quelle letture chepretendono di trovarvi indicazioni uti-

li per un'analisi delle classi sociali: eppure è ben difficile leggere un'analisi «mar-

xista» del settore terziario o delle classimedie che non contenga un diffuso riferi-

mento alla trattazione di Marx del lavoro produttivo e improduttivo. Si tratta di

letture che, per l'incomprensione del progetto scientifico d'insieme, si presentano

anchesprovviste di un solido fondamento testuale, e sono costrette ad accentuare

oad omettere in modo arbitrario singole affermazioni di Marx. Per esempio, un

tipicomodo di procedere è quello di non dare importanza alla esplicata esclusio-

nemarxiana dei lavoratori dipendenti che operano nel settore della circolazione

dal novero dei lavoratori produttivi, per concludere che in Marx sono produttivi

tutti i lavoratori comprati dal capitale. Lo scopo, ovviamente, è quello di poter

includere nella classe operaia anche i lavoratori di questi settori che, negli ultimi

cent'anni, si sono molto ampliati rispetto alle dimensioni che avevano al tempo

di Marx. Quale sia l'utilità di questa inclusione francamente non capisco: Marx

nondice praticamente nulla sul modo in cui un lavoratore diventa un attivo rivo-

luzionario; e si dovrebbe ormai aver inteso che è del tutto inutile cercare in Marx

un'analisi

generale

dei modi in cui una classe

in sé

si trasforma in una classe

per

sé (da come incomincia,

si può facilmente arguire che il famoso capitolo finale

non scritto del

Capitale

non avrebbe detto nulla in proposito). E non dicendo

nulla circa il rapporto tra specifica posizione nel processo lavorativo e coscienza

rivoluzionaria, non si vedeperché un addetto al commerciodovrebbeesseremeno

consapevole di un attrezzista o di un tecnico di una fabbricameccanica: la distin-

zione tra lavoratori produttivi e improduttivi non ha nulla a che vedere con que-

sti propositi. Naturalmente possonoesserci buoni motivi per sostenere che un

bancario o un contabile incontra maggiori ostacoli di unmetalmeccanico nell'ac-

quisire una coscienza anticapitalistica: ma allora si tirino fuori questi motivi e li

sidiscuta per quel che valgono.

Più in generale, si dovrebbe aver presente che

proprio per il suo tentativo di

usare in modo rigoroso

e

scientifico

i concetti di lavoro produttivo e improdutti-

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