

svalore, e non quello che rappresenta un investimento (invece di un consumo) del
sovrappiù. In altre parole — e in termini molto «impressionistici» — l'aspetto sul
quale Marx fa leva è quello del rapporto salario-profitto, invece di quello consu-
mo-investimento. Naturalmente, da un punto di vista fenomenologico, i due mo-
di di definire danno risultati in larga misura coincidenti: i l lavoro impiegato in
modo capitalistico quasi sempre è subordinato a propositi di accumulazione, e
quello impiegato in modo non capitalistico sovente comporta un «consumo-
spreco» del sovrappiù. Ci sono però delle eccezioni, rispetto a questa normale
convergenza, e su queste dobbiamo far leva per comprendere il vero significato
della distinzione marxiana.
Un coltivatore diretto, un artigiano, in ispecie (ma non soltanto) nella misura
in cui oltre a ricostituire il fondo di esercizio estendono la loro attività e quindi
accumulano, sono ovviamente dei lavoratori produttivi per A. Smith, che ha di
mira i l fenomeno dell'accumulazione ed è meno attento alle modalità storico-
specifiche entro le quali esso ha luogo. Per Marx, che solo su queste pone l'ac-
cento, l'artigiano e i l contadino stanno fuori della categoria produttivo-
improduttiva. E vi stanno fuori perché la categoria riguarda lo scambio di lavoro
contro denaro: è produttivo il lavoratore che scambia la sua
forza-lavoro
contro
denaro-capitale (dunque che è acquistato da un capitalista e produce plusvalore),
mentre è improduttivo i l lavoratore che scambia i l suo
lavoro
contro denaro-
reddito. Nel caso dei contadini e degli artigiani, questi si presentano come vendi-
tori di merci e non come venditori di lavoro o di forza lavoro: si presentano dun-
quecome produttori, ma non come produttori capitalistici. Di qui l'inapplicabili-
tà della distinzione nel loro caso.
Il maestro di una scuola privata, la cantante, la prostituta, sono ovviamente
lavoratori improduttivi per A. Smith, sia perché normalmente i loro servizi sono
comprati dal reddito e non dal capitale; sia, e più fondamentalmente, perché l'ac-
quisto dei loro servizi sottrae fondi al processo di accumulazione. Marx è invece
sensibile al primo aspetto della definizione, ma del tutto indifferente al secondo.
Per cui, quando il maestro è un lavoratore dipendente, e imbottisce le teste degli
scolari per un padrone che ne ricava un profitto, esso è produttivo nello stesso
modo in -cui lo è l'operaio che imbottisce salsicce per il padrone di una fabbrica
di salumi: si tratta pur sempre di forza lavoro che si scambia contro denaro-
capitale, per quanto futile sia il risultato — il valore d'uso — che il servizio ren-
de. Donde l'esempio ben noto del sarto, i cui servizi possono incorporare lavoro
produttivo o improduttivo a seconda che siano gestiti da un capitalista che —
smerciandoli — ci ricava un profitto o prestati direttamente al cliente dal sarto.
Una simile distinzione sarebbe impensabile per A. Smith.
Sesi ha presente la forza con la quale Marx insiste sulla sua definizione prin-
cipale, anche sfidando una tradizione teorica da lui altamente considerata, si può
meglio apprezzare il senso dell'esclusione operata nei confronti dei costi puri di
circolazione. Marx deroga dalla definizione principale per i contabili o gli addetti
aservizi di compravendita, anche se questi non soltanto sono lavoratori dipen-
denti, ma anche sono «comprati» da denaro-capitale. Perché non vi deroga, per
lostessomotivo (in quanto, cioè,
non produttori di valore in generale),
anche per
la cantante scritturata da un impresario o per il maestro di scuola? Sono questi
produttori di valore...mentre il contabile non lo è?
In proposito sono possibili tre spiegazioni.
La prima, meno plausibile, è che quando stendeva le note su Smith e il lavo-
ro produttivo (ora raccolte nelle
Teorie),
Marx non avesse ancoramesso a fuoco
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