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anche le importazioni, mentre le imprese saranno stimolate a cercare all'estero gli

sbocchi che vanno riducendosi all'interno. I l punto che va discusso è piuttosto un

altro, e cioè se la deflazione rappresenti uno strumento efficace contro il disavanzo

della bilancia commerciale, non solo come risultato immediato ma anche in una

prospettiva più estesa. A prima vista, si dovrebbe dire di no; purtroppo, nel caso del-

l'economia italiana, è possibile che si debba invece dire di sì.

Per intendere questo risultato a prima vista poco credibile, basta un ragiona-

mento molto semplice. Se l'economia italiana rallenta il proprio sviluppo, diciamo,

per un anno, o addirittura riduce i l livello della propria produzione industriale,

mentre gli altri paesi proseguono nel loro sviluppo, essa diviene per così dire più pic-

cola rispetto agli altri paesi industriali. Di conseguenza, i l volume di esportazioni

necessario a pareggiare i conti con l'estero sarà una quota minore del commercio

mondiale. Per assicurarsi una quota minore delle esportazioni mondiali è sufficiente

un grado di competitività minore di prima. Quindi, a recessione compiuta, anche se

l'industria italiana non avesse guadagnato in competitività, i conti con l'estero

potrebbero tornare in pareggio. Per i paesi che vogliono crescere tanto quanto gli

altri, progresso tecnico e aumento di produttività sono condizioni imperative; tali

paesi devono correre continuamente per non perdere terreno rispetto agli altri. Ma i

paesi che si accontentano di crescere meno degli altri, se vogliono progredire,

devono fermarsi di tanto in tanto. A questo si aggiunge che, nei periodi di recessione,

l'industria trova occasioni favorevoli per compiere progressi organizzativi e realiz-

zare guadagni di produttività; nei casi in cui sembra opportuno effettuare concentra-

zioni, la presenza di numerose imprese in crisi ne facilita l'assorbimento; se vice-

versa si vuole battere la via del decentramento, il fatto di avere licenziato o ridotto

l'orario di cospicue masse di lavoratori, o anche semplicemente il blocco delle assun-

zioni, precostituisce la disponibilità di mano d'opera necessaria per l'allestimento di

lavorazioni esterne. I periodi di pausa, che sarebbero sufficienti a ristabilire l'equi-

librio nei conti con l'estero anche in una situazione stazionaria, lo sono ancora di più

se coincidono con operazioni di razionalizzazione.

Accettiamo dunque l'idea che la politica della recessione sia qualcosa di più di

un rimedio immediato, e che possa rappresentare uno strumento di governo ricor-

rente, per un paese come l'Italia, immerso in un contesto europeo fortemente dinami-

co. Questo risultato non deve far dimenticare il punto da cui siamo partiti, e cioè che

il disavanzo della bilancia commerciale italiana è costituito da almeno tre partite

principali (petrolio, capitali, merci) e che la politica della recessione ricorrente può

essere uno strumento valido tutt'al più verso i movimenti di merci. Se le autorità si

sono lanciate in una politica di deflazione, coinvolgendo nell'uso dello stesso stru-

mento anche problemi che con esso hanno poco a che fare, ciò significa che quello

che si voleva era non tanto porre riparo al disavanzo petrolifero (problema che

investe molti altri paesi e non soltanto l'Italia), non tanto frenare le fughe di capitali,

ma soprattutto provocare un rallentamento dell'attività produttiva per consolidare il

settore industriale. Del resto, se fosse necessaria una prova ulteriore, basta ricordare

la cronologia degli eventi: le prime misure deflazionistiche vennero prese dal

governo Rumor-La Malfa nell'estate del 1973, prima che la crisi del petrolio avesse

inizio. La crisi del petrolio ha fornito un'occasione eccellente per giustificare ed

accentuare una linea che era stata già decisa.

La strategia del padronato

Seè vero che i problemi maggiori che stanno alla base della crisi italiana sono

problemi interni e non problemi esterni, dobbiamo analizzare con maggiore det-

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