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nascita del fascismo» (23). Nè pare tesa sul terreno dell'originalità la seconda

idea-guida dell'analisi defeliciana dell'avvento fascista, strettamente dipendente da

quella della centralità del rapporto ceti medi-fascismo («in caso contrario» ha

scritto De Felice, cioè se si rinuncia a codesta centralità per spiegare il successo

fascista, «si perde la possibilità di cogliere la novità e la differenza (...) del fascismo

rispetto ai vari movimenti e regimi conservatori e autoritari che lo precedettero, Io

accompagnarono e lo hanno seguito») (24). Mi riferisco alla distinzione, sempre

nella fase che va dall'armistizio alla marcia su Roma, tra due fascismi, susseguentisi

cronologicamente, dei quali il

primo

rappresenterebbe il predominio di tendenze di

sinistra,

mentre il

secondo

costituirebbe il manifesto frutto del prevaler della

destra.

De Felice (25), distinguendo un fascismo urbano da un fascismo agrario, con-

trappone temporalmente e politicamente l'uno all'altro, ipotizzando come segue: il

fascismo nasce in città (nel Nord, e Milano è la sua patria d'elezione vera, non già la

Romagna «rissosa» e «violenta») su di un terreno specificamente «di sinistra». I l

suo programma è confuso, malcerta la sua collocazione, le delimitazioni che si dà

sono vaghe; ma si muove nell'ambito dello scontento diffuso generato dalla guerra,

dalla «vi ttoria mutilata», dal le mancate promesse d i giustizia sociale, dagl i

accresciuti bisogni economici. Gli equivoci si scioglieranno nel volgere di un anno e

mezzo, precisamente intorno alla seconda metà del 1920, a cominciare dall'ultima

sconfitta proletaria (l'occupazione delle fabbriche: manco a dirlo, il Nostro carica la

mano sul tratteggio dell'insuccesso, minimizzando il significato di forza operaia che

il settembre del '20 esprime). Da allora programma politico, composizione di classe,

fini strategici del fascismo si chiariscono a destra. Su questa strada—sto sempre

esponendo l'interpretazione di De Felice —il fascismo urbano viene incoraggiato e

sospinto dall'improvviso sbocciare del fascismo rurale, che—questo si—è fin dagli

esordi foraggiato dagli agrari. Il fascismo rurale, «per la sua imponenza», si afferma

sul fascismo urbano: Mussolini e i fascisti della prima ora, «un po' per calcolo politi-

co, un po' per non perdere la direzione del movimento, un po' per un complesso di

altre circostanze e necessità [...] ne adotteranno i metodi e le finalità» (26): con la

pena nel cuore, sembra di poter aggiungere. Scendendo nei particolari, lo storico col-

loca nella tragica giornata bolognese di Palazzo D'Accursio (21 novembre 1920, «la

scintilla che mise in movimento la reazione antisocialista che covava sotto le cene-

ri») (27) il momento di «svolta» del fascismo, ovvero la nascita del fascismo di mas-

sa. Sovvenzionato e armato dai capitalisti agrari, il fascismo inizia il cammino con-

trorivoluzionario che lo porterà a Roma, comportandosi fino alla conquista del

potere come una guardia bianca.

Come si accennava, questa analisi sembra trovare conforto nei giudizi di più di

un contemporaneo della nascita del fascismO: per menzionare qualche esempio, in

campo socialista Turati e lo Zibordi, tra gli «indipendenti» Guido Dorso eGaetano

Salvemini, Luigi Sturzo per i cattolici (28). Ma va rilevato che questi osservatori

insistono sul carattere demagogico e ingannatore del «primo fascismo», facendone il

punto caratterizzante della sua fisionomia. Sugli stessi elementi di giudizio vertono

quelle analisi degli studiosi odierni che, in varia misura, accolgono il dualismo nella

nascita del movimento mussoliniano (29). In altre parole, quello che nessuno discute

più è la malafede di Mussolini e del suo movimento politico, il carattere controrivo-

luzionario non solo oggettivo ma soggettivo della sua strategia. Il fascismo, e Benito

Mussolin , non furono mai né «rivoluzionari» né «di sinistra» (30): tale la pura verità

storica.

Con questo non si vuole — ha scritto al proposito Nicola Tranfaglia — del resto,

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