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categoria del totalitarismo è un utile, quanto vacuo, denominatore comune che tutto

spiega e tutto risolve, accomunando, quel che più conta, in un abbraccio mortale i

famigerati «due estremi». La democrazia liberale, in questa concezione, è la fonte di

verità che il fascismo, proprio come il comunismo, ha tentato di oscurare. Non si

può negare che il Nostro abbia risentito delle suggestioni di simili posizioni, le quali

hanno per così dire lavorato nel profondo della sua mente, e più che affiorare evi-

denti lungo le sue trattazioni storiche— in particolare nel

Mussolini

, ne permeano

il sostrato filosofico e ideologico.

Ma De Felice è tra quelli che intendono privilegiare gli aspetti nazionali dei

diversi fascismi, i quali «nacquero da situazioni eda esigenze in larga misura diverse

eognuno di essi ebbe e mantenne in larga misura tali peculiarità che appare difficile

in sede storica parlare di un fenomeno effettivamente unitario» (8). Dunque, per quel

che concerne il fascismo mussoliniano, la sua tesi di fondo è che esso vada spiegato

nel quadro dell'analisi della «rivolta» anticapitalistica dei ceti intermedi nel primo

dopoguerra. Ispiratori del Nostro sembrano essere, oltre agli autori già menzionati,

ed ad alcuni altri stranieri che del fascismo hanno capito non molto, fermandosi ad

alcune apparenze che lo mostravano ai loro occhi abbagliati come un «fenomeno

piccolo-borghese» e basta, quanti in patria hanno adoperato la chiave di volta della

piccola borghesia per introdursi nel mondo-universo del fascismo: Missiroli, Salva-

torelli, Dorso, per fermarsi ai nomi significativi (9). È in particolare l'analisi che

dalle colonne della «Stampa» di Torino Luigi Salvatorelli conduce di pari passo

all'affermarsi del movimento di Benito Mussolini, che appare al Nostro come un

dato insostituibile per chiunque voglia comprendere davvero la natura e il senso del

fascismo italiano (10). La famosa definizione dell'editorialista torinese secondo cui

il fascismo «rappresenta la 'lotta di classe' della piccola borghesia, incastrantesi fra

capitalismo e proletariato, come il terzo fra i due litiganti»

(11)

è, nella sostanza, la

vera base finale sulla quale De Felice ha avviato la edificazione del suo monumento

storiografico (l'aggettivo esornativo oramai ufficialmente abbinato a l termine

biografia è «monumentale»: si confrontino le

manchettes

informative di tutti i libri

defeliciani).

2. Fascismo e ceti intermedi

È lontana da me l'idea di cancellare il nodo dei rapporti tra classi medieemovi-

mento fascista tra il 1918 (anzi bisognerebbe forse analizzare gli atteggiamenti e la

condizione del ceto intermedio almeno a partire dallo scoppio della grande guerra) e

il 1922. L'importanza del problema d'altronde fu rilevata già negli anni Venti da

troppi seri commentatori qualificati della vita pubblica perchè si possa ignorarlo. Un

Tilgher, un Mondolfo, un Fovel (12) posero certamente al centro della loro indagine

sulla formazione di quel movimento politico

nuovo

la questione dei ceti medi; per

tacere, poi, dell'analisi gramsciana (13) che, pur disuguale e talora contraddittoria,

non trascura di certo i l posto occupato dalla piccola borghesia nella nascita del

fascismo. Non va parimenti dimenticato che lo stesso fascismo, nei suoi dirigenti, nei

suoi propagandisti e, poi, nei suoi storici-apologeti, la pose costantemente al primo

posto, nella determinazione (che, naturalmente, il più delle volte è tutta di comodo)

delle forze sociali sulle quali il movimento si fondò e si resse. Ma fare del rapporto

ceto medio-fascismo l'asse privilegiato di una interpretazione complessiva risulta

oggi inaccettabile: è un'operazione che non regge sul piano storico, ed è sospetta su

quello politico.

,Ciò che era lecito al cronista degli anni Venti non lo è più allo storico dei giorni

nostri: soprattutto quando lo storico tende a passare nel dimenticatoio un altro dato

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