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le linee di personale poetica che sorreggono questo film, girato da Pasolini

in buona grazia dopo gli orrori di

Porcile

e

Medea.

Esso è nettamente diviso in due parti, che hanno ciascuna un personaggio

a blando legame. I l primo, ser Ciappelletto, muore i n terra straniera i n

un'ultima malefatta, ma forse riscattato e salvato dalla sincerità reale del penti-

mento quando egli rimpiange le offese fatte alla madre come suo unico vero

peccato; i l secondo è un allievo di Giotto, impersonato dallo stesso Pasolini,

artista di una società imrnaginaria in cui borghesi, clero, popolo e garzoni ap-

plaudono la sua opera, in una sorta di utopia regressiva. E' la continuità di

colpa e grazia cui Pasolini ci ha abituato da tempo, fatta stavolta ancora meno

dialettica in due incarnazioni al nero e al bianco. E tuttavia, mentre Ciappel-

letto commuove, è Giotto a lasciar freddi e distanti, con quella sua frasetta

finale di presunta profondità e reale banalità e insignificanza (« perchè realiz-

zare l'opera se è già così bello sognarla? »), specialmente per un così prolifico

fabbricante d'opere. Non crediamo molto, insomma, alla dichiarata felicità

dell'artista che ritenendosi vecchio crede oggi di potersi considerare esente

dalle responsabilità della storia e dai pesi della biografia, in una aurea e

vagheggiata impunità d i « reazionario d i sinistra ». Nè evidentemente c i

crede lo stesso artista. L'impunità che vuole affermarsi è troppo venata anche

in Ciappelletto di tragica solitudine per portare alla felicità, ed è rinviata per

questo a un mitico ieri, a un mondo in cui l'artista aveva i l suo libero e

onorato posto in un'armonica società. Tra i funerali da santo concessi al pec-

catore i l cui unico vero peccato egli ritiene essere stato la bestemmia alla

madre (dove madre vuol dire anche natura) e la festa della chiusura d'opera,

l'artista ha però tempo per rivivere con rara e sintetica semplicità alcune

delle più belle novelle del Boccaccio ( le più belle, qui, sono forse quella

dell'« usignolo » e quella, che appassionava i romantici e che Pasolini ha trat-

tato secondo illimpiditi schemi romantici, di Isabetta).

La freschezza del f i lm g l i deriva indubbiamente dall'aver trasferito

quella della borghesia del Boccaccio al popolo campano. Ma questo popolo,

così visto, ha un senso? Nel cinema di Pasolini e nella sua poetica, esso

sembra sostituire ancora per molto, se già lavora a Chaucer e si prepara

alle

Mille

e

una notte, il

suo ben noto sottoproletariato. Del sottonroletariato

di Pasolini non convincevano certo le tante implicazioni ideologiche sovrap-

poste, ma è indubbia la parziale verità di cui erano esempi. Quel sottopro-

letariato, insomma, benchè dilatato in modi insostenibili, esiste. E fa anche

parte della storia, lo sappia e voglia o no. Si può dire lo stesso del popolo di

questo film? Esso ci sembra ben diverso da quello delle panoramiche italiane

delle

Ceneri di Gramsci

e perfino da Quello, ancora con reminiscenze gram-

sciano-togliattiane, d i

Uccellacci

e

uccellini:

è un popolo tutto contadino

emeridionale, anzi dell'entroterra napoletano, e ne ha l'estro ed i l fascino.

Come Napoli, sta scomparendo, e delle contraddizioni di questa metamor-

fosi, del suo intricarsi nelle fabbriche del Nord o dell'intricarsi della sua

economia con lo sregolato sviluppo e la perenne crisi del Sud, dei modi in cui

questo enorme processo avviene perlomeno dal '60 i n avanti o delle sue

prospettive, a Pasolini non sembra importare molto. Canta dunque un popolo

di ieri, una forma di «gioia di vivere » naturale, rilegge Boccaccio con gli

occhi di Basile. ( E d'altronde ci sarebbe qualcosa da osservare anche sul-

l'aspetto un po' rousseauiano di questa visione nel ristretto campo della

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