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la società; e lo corrode. Benjamin ha ragione di rammentarci ad esempio, che

il 'piacere' artistico si inalza sull'« orrore » della oppressione (non più d i

quanto, bisogna però aggiungere, ogni libertà si inalzi su di una repressione):

ma, paradossalmente, è proprio l'orrore della oppressione quel che gli avver-

sari del la oppressione, gl i avversari « professionali », non svelano intero.

Leggano, i nostri giovani e anche alcuni dei nostri coetanei, certe straordinarie

pagine degli scampati a Stalin, dove si ammira quale nube di ideologia, nel

senso di menzogna accettata per verità, avvolgesse, nel corso degli interro-

gatori, che so, torturati e torturatori, nobilitando, velando, trasfigurando. Per

quanto è della oppressione capitalistica, non fa bisogno di letture, natural-

mente. I giovani poi, con la loro continua sete di un po' di virilità supplemen-

tare, assorbono i l cinismo indotto dai padroni e si illudono che una qualche

misteriosa funzione lo tramuti in sano odio di classe... Temono di sapere che

le catene degli uomini non sono solo quelle celate dai fiori della religione

e delle altre ideologie della classe dominante; ma che altre ve ne siano oltre

quelle e anche più tenaci o dolorose. E che la lotta non abbia mai fine. E se

pure lo dicono, vogliono non si dica troppo o troppo spesso, perchè temono

scoraggi i combattenti e, fra i primi, se stessi. I l solo rivoluzionario che que-

ste cose le abbia dette, ma con molta ironia ed entrando in contraddizione

con se stesso è, naturalmente, Mao Tse-tung; un aspetto del suo insegnamento

che, temo, sarà i l primo ad essere dimenticato dai suoi discepoli.

Mi si risponderebbe: «ma la parzialità di cui accusi i rivoluzionari, sono

cent'anni e più che ne è loro fatto rimprovero ed essi la conoscono e la pro-

clamano. Tant'è vero che tutta quella parte dell'uomo che noi passeremmo sotto

silenzio, come tu dici, è stata benissimo vagliata dalle scienze umane e sociali

degli avversari d i classe. Tale parzialità e deformità è, appunto, quel che

definisce l a classe sulla quale gravano tutte l e altre ». Questa risposta si

completa, in genere, con l'affermazione di una superiorità « scientifica » del

sapere di classe, elaborato nel corso della lotta, sul sapere onnilaterale del-

l'avversario; e di qui segue la semisecolare disputa sulla esistenza del cosi-

detto « punto d i vista operaio », sul significato de l «pensiero negativo »

e simili.

Non serve a nul la dilungarsi i n imprecisi enunciati pseudo-filosofici.

Ma l a domanda cui manca risposta è pressante, è quotidiana, l a mancata

risposta consuma forze ingenti, prepara giorni disonorevoli. Ed è questa:

i l

movimento che nel nostro paese si organizza, come « sezione » d i un movi-

mento mondiale, per la tramutazione della società, può continuare a rimuo-

vere dalla propria esistenza la necessità di una idea di che cosa gli uomini

siano, siano stati o possano essere, insomma d i una antropologia, diversa

da quella che, sotto nome di « marxismo », pare portare in sè una non neces-

saria e paralizzante e corruttrice contraddizione?

Se mi si chiedesse di rispondere, breve e svelto, direi che l'idea di una

«parzialità necessaria » — ossia la coscienza della diminuzione umana indotta

negli sfruttati e subalterni•e quindi della necessità di fare, proprio di quella

diminuzione, i l « sapere » di classe e i l punto archimedico del rivolgimento,

perchè « gli ultimi sono i primi » — quell'idea, quanto più sembra separarsi

dalla ideologia nemica, tanto più le è strettamente avvinghiata, d'una congiun-

zione immobilizzante, d'una dialettica impoverita. Solo l a riaffermazione

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