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aquel punto è i l loro mestiere. Un collettivo o una classe, per ribellarsi,, non ha

bisogno di legittimazioni. In un certo senso è stata di questo tipo la rivolta stu-

dentesca degli anni scorsi, e lo è ancora in America; è di questo tipo la rivolta

operaia alla FIAT di questi giorni, o quella degli immigrati nei quartieri, anche

seper ora mancano, e non crediamo solo a noi, i dati per valutare quanto di

questa rivolta sia carica eversiva e quanto sia l'inizio di un rivendicazionismo di

tipo anglosassone, che è poi quello che ha portato a parlare in quei paesi i n

un giro di anni abbastanza breve — di classe operaia integrata.

Il discorso è ben diverso quando si cerca di costruire i l « partito-program-

ma» d i Lenin, l'avanguardia « intelligenza della rivoluzione », perchè allora si

devepossedere o una buona teoria di cosa è rivoluzione, o un buon metodo per

arrivare a scoprirlo per via, e bisogna sapere (o possedere i l modo per arrivare

asapere) cosa esattamente dell'esistente si vuole rovesciare, e in quale ambito,

geografico e sociale; con quali classi si sta e contro quali; quali sono i tempi

della lotta. Bisogna anche sapere, dell'universo politico rappresentativo, cosa

si accetta e cosa si rifiuta.

Non è lecito parlare di rivoluzione come se fosse una metafora. I l socialismo

in un solo paese è « riuscito » una volta, in Russia, che era un gran pezzo di

mondo, durante una guerra, con un esercito

già armato,

contro una aristocra-

zia e un'alta burocrazia statale e industriale ben distinta dal « nopolo ». Ed è,

diciamo noi, fallito. Fare la rivoluzione in Italia non significa farla solo in Italia;

significa farla in Europa, in Russia e in America; e fare un qualcosa che non

sappiamo ancora cos'è, sappiamo solo che di sicuro non sarà una ripetizione del

'17. Nè per le forme, nè per i contenuti. Nè, speriamo, per i risultati dato che

ormai, bene o male, male per l'esattezza, in Italia una società industriale c'è già

enon c'è bisogno di una rivoluzione per renderla possibile. I l prezzo dell'accumu-

lazione primitiva lo abbiamo già pagato e di sicuro non vogliamo pagarlo di

nuovo.

Questo, per dire, in breve, una cosa che tut t i dovrebbero sapere, ma che

non tutt i sanno: che Lenin è morto.

E' morto Stalin, per cui lo « stalinismo », che è stato a suo tempo

Realpo-

litik

(scelta dell'unità nella forza piuttosto che di libertà nella debolezza; scelta

discutibile certo, ma reale), è ora solo mito. Ma è morto anche Lenin, e prima di

Stalin. Cioè, quel che resta di Lenin, oltre ai suoi libri, che però sono libri di un

- capo rivoluzionario e non di un intellettuale (sono cioè pezzi dell'azione

di allora),

ed oltre alla sua mummia, nel mausoleo sulla Piazza Rossa, è

lì, da Berlino

al Pacifico,

ci piaccia o no. Una gran cosa, una grande rivoluzione ed oggi si

chiama Breznev. E in Italia PCI.

E perchè siamo fuori dal PCI? Diciamo, per essere rozzi e brevi, per due

motivi: 1) per la contraddizione tra ciò che dice e ciò che fa; tra la « rivolu-

zione» ancora predicata a parole e la politica di inserimento in Italia e di equili-

brio di potenza nel mondo perseguita di fatto; 2) perchè in un universo produt-

tivo e sociale la cui contraddizione di fondo ci sembra essere non più quella

tra chi giuridicamente possiede gli strumenti per produrre e chi produce, ma tra

chi determina le condizioni del produrre e chi produce, o addirittura, si potrebbe

dire, tra chi dirige e chi è diretto, un partito come questo sembra essere esso

stesso elemento della contraddizione piuttosto che strumento adeguato a risol-

verla. Un partito come questo, ma anche un partito che gli faccia i l verso rimet-

tendo l'orologio indietro di una dozzina di anni, o anche semplicemente un'orga-

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