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dovuto alla siccità del 1967 (800.000 tonnellate contro 1.200.000 che i l mercato

americano era disposto ad accogliere) ha provocato una perdita d i reddito

potenziale pari a sessanta milioni d i dollari.

Ma questo è proprio i l tipo di discorso che fanno gli industrialisti: basta

con l'agricoltura, vogliamo le fabbriche. I criteri con cui i l governo porto-

ricano e l'agenzia d i sviluppo governativa, « Fomento», por ta avant i i l

progresso industriale sono descritti, non si sa se con più incoscienza o spudo-

ratezza, dall'articolo citato dell' «Economist »: « La Unione Carbide, la Common-

wealth Oi l , l a Shell e l a Phillips sono sbarcate a Porto Rico e pagano i

salari più elevati che si siano mai visti. Ne l complesso, l e di t te protette

dal « Fomento » hanno dato lavoro a centomila persone e hanno esportato,

nell'ultimo anno finanziario, oltre un miliardo d i dollari d i prodotti, ol tre

il 95% dei quali verso gl i Stati Uniti. »

Ora, non c'è bisogno d i essere economisti per accorgersi della natura

dell'operazione. I n pratica, tanto per cominciare, i l volume delle esportazioni

che tornano verso gl i Stati Uni t i è quasi pari al volume degli investimenti

che questi fanno nell'isola (1,2 miliardi d i dollari nel 1967). Gl i americani

sfruttano il petrolio, le risorse turistiche, le altre risorse dell'isola, lucrano

la esenzione totale dalle tasse fino a 17 anni, frodano con tranquillità il

fisco di Washington, e si avvalgono di una

a basso costo ( i

manodopera

«salari mai visti » sono tal i anche ‘per le compagnie americane: negli Stati

Uniti pagano almeno t r e vol te tanto). L a direzione delle esportazioni è

asua vol ta indicativa: i n pratica, è un al tro elemento che s i aggiunge

aquelli che servono a •mettere Porto Rico in condizioni d i soggezione totale

verso gl i Stati Uniti.

E nel frattempo l'isola vede rapidamente esaurite le sue risorse naturali,

èprivata della possibilità di uno sviluppo industriale e tecnologico autonomo

che si svolga secondo i l suo ritmo naturale, senza creare degli squilibri, e si

trova con un'agricoltura i n crisi. E , quello che p i ù conta, è che questo

fantastico giro di miliardi di dollari i portoricani se lo vedono passare sotto

gli occhi senza poterlo toccare, perché è una gigantesca partita d i giro che

parte dagli Stati Uni t i e l ì ritorna sotto forma d i prodotti e d i profitti.

Gli unici che ci guadagnano sono Luis Ferré e i suoi amici industriali: non

c'è da stupirsi che siano tut t i a favore di un rafforzamento di questi legami.

Anche i n merito all'occupazione, i l solito alibi morale dei capitalisti, le

cosesono assai meno rosee di quanto si vorrebbe far credere. I centomila posti

di lavoro creati dalle di tte venute con l'operazione Bootstrap hanno tut ta

l'aria di un'esagerazione: l o « Statistical Abstract » ufficiale del governo ame-

ricano dà per i l 1967 una cifra totale d i 94.108 addetti all'industria ( d i

cui 22.380 a quella dei beni non durevoli, comprese per esempio le lavorazion;

dello zucchero, che già esistevano prima di « Bootstrap »), e anche calcolando

che nell'ultimo anno c i sia stato un aumento del 10%, par i a l r i tmo d :

crescita economica dell'isola, saremmo a meno di 105.000: ed è un po' difficile

credere che siano tut t i , senza eccezioni, nuovi posti d i lavoro creati dalle

ditte di recente immigrazione.

In realtà l a situazione è un po' diversa • l a disoccupazione, che era

calata da 88.1300 a 82.000 unità tra i l 1950 ed i l 1960 (grazie all'emigrazione:

nello stesso decennio i l numero dei portoricani negli USA aumentò del 148%)

è risalita ad 86.000 nel 1965 ed a 99.000 nel 1967, con un aumento quasi

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