

•
•
.
•
venga esaminata come tale, invece d i essere considerata come una parte,
spesso non l a principale, del
modo d i produrre
d i un determinato intel-
lettuale. Si può notare qui incidentalmente che nel possesso della cultura
si verifica i n modo più evidente un fatto che riguarda in realtà qualsiasi
know how
teorico-pratico: i l sapere come dominio conoscitivo, quando
venga vissuto più specificamente come privilegio, determina un atteggia-
mento
naturalmente
autoritario in chi ritiene di esserne privilegiato, e faci-
lita quindi
l'imposizione
del prodotto culturale.
In realtà questo intellettuale tradizionale
non esiste: sia
in quanto rap-
presenta una piccola élite che non dice quasi più nulla, sia in quanto è di
fatto fuori gioco, se non nella misura in cui continua a detenere un certo
potere.
Ma in realtà gli intellettuali sono moltissimi, non pochi: sono tecnici a
medio e alto livello, impiegati, professionisti nelle arti « liberali », insegnanti,
studenti, quadri burocratici, lettori generici d i carta stampata, magistrati,
specialisti di tutti i tipi con e senza laurea, e così via. Non costituiscono una
categoria omogenea, e ovviamente non ha alcun senso identificarli in virtù
del loro intellettualismo, stabilire graduatorie rigide di maggiore o minore
intellettualizzazione, discriminare f r a ruol i cognitivi, elaborativi, esecutivi,
e distinguerli e separarli da chi non è titolare di cultura: anche se è sempre
possibile identificarli
grosso modo,
ancora oggi, rispetto ai .contadini e agli
operai. Non ha importanza stabilire chi è intellettuale e chi non lo è, quanto
piuttosto stabilire se tecnici, impiegati e professionisti possano identificare
la contraddizione di classe in quella che è la loro collocazione nell'industria
e nelle organizzazioni e istituzioni della nostra società, e in rapporto all'inse-
gnamento ricevuto, che l i identifica come produttori specializzati.
Se questo tipo d i analisi è corretto, è evidentemente necessario rive-
dere in modo critico l a concezione leninista tradizionale del rapporto f ra
l'intellettuale e l e masse. Non c i occuperemo d i questo problema (che
segue la
linea delle considerazioni tenute fin qui, ma non ne è compreso) se
non per accennare al fatto che a nostro avviso, secondo l'impostazione che
abbiamo dato, i l problema della avanguardia rivoluzionaria come avanguar-
dia esterna alle masse proletarie non si identifica affatto con i l problema
del
dover essere
di tutti i professionisti, impiegati e tecnici. Può darsi (ma
non è detto!) che questa avanguardia debba venir prodotta necessaria-
mente dalle categorie tecnico-professionali di cui ci stiamo occupando, rrin
è chiaro che ciò riguarda una minoranza di persone, e non l'insieme delle
persone che conducono lotte politiche a livello studentesco, impiegatizio,
tecnico e professionale.
Il problema dell'impotenza pratica dell'« intellettuale », dunque, in par-
ticolare quando egli si trovi collocato fuori dall'industria e dai luoghi tradi-
zionali di lotta, non deve essere un problema individualistico, come opzione
personale d i tradire l a propria classe, ma deve porsi -fin dall'inizio come •
problema collettivo, cioè come ricerca, nella prassi politica, delle contrad-
dizioni di classe che passano
attraverso
la sua pronria collocazione profes.
sionale, nel suo luogo di lavoro. Più un professionista è isolato, meno è age-
vole questa presa d i coscienza, e si comprende come i l rifiuto individua-
listico dell'integrazione nel sistema borghese rimanga i n questi casi pr i -
gioniero della stessa cultura borghese che l 'ha generato, e sfoci i n atteg-
giamenti anarcoidi, o in sempre nuove edizioni del pessimismo marcusiano,
163