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Il movimento di quei giorni è stato definito « rivoluzione », « insurrezione

comunista », « distruzione caotica della american way of life » dall'amministra-

zione accademica, dalla stampa, dal governo e dall'opinione pubblica. La maggio-

ranza degli studenti che partecipavano al movimento hanno recepito queste

definizioni che sono entrate a far parte della loro autocomprensione; i n una

situazione conflittuale concreta essi hanno assunto una denominazione attr i -

buita loro dall'esterno, con la quale sono cresciuti esplosivamente e si sono poi

presto dissolti. Tale definizione era del tut to inadeguata alla realtà, infatti:

1.

non solo non si ottenne, ma non si rivendicò neppure una profonda modifi-

cazione istituzionale dell'università. 2. La direzione politica della rivolta non

disponeva di una concezione politica unitaria, i l che permise un rapido gonfiarsi

del movimento ma impedì l'elaborazione e l'affermazione di un programma poli-

tico. 3. Gl i obiettivi politici del movimento si esaurirono nel chiedere che i

diritti civili garantiti dalla costituzione avessero vigore anche nel campus. Solo

gruppi radicali marginali tentarono di andar oltre, ma senza incidere sostanzial-

mente sul decorso degli eventi. Nonostante i l massiccio intervento poliziesco

sollecitato dalle autorità accademiche, la sostanza politica genuina del movi-

mento è stata modesta.

La partecipazione, seppure solo per un breve periodo, di più della metà dei

27.000 studenti di Berkeley, spinge poi a chiedersi quale sia stato i l peso della

motivazione politica in coloro che hanno partecipato al movimento e la poli-

ticizzabilità e i l grado d i politicizzazione effettivamente raggiunto nel corso

dell'azione di Berkeley. Questa parte dell'analisi si rifà alla serie di pubblica-

zioni d i sociologi (Lipset, Kaplan ecc.) apparse dopo quegli avvenimenti, le

quali hanno spiegato l a rapida ascesa e l'altrettanto rapido dissolversi del

movimento sulla base del

ruolo

attribuito allo studente nell'università americana.

«Dobbiamo prendere tanto più sul serio queste spiegazioni, in quanto la rivolta

ha effettivamente avuto una conclusione "non politica" e si è insabbiata proprio

quando avrebbe dovuto entrare nella seconda e decisiva fase, vale a dire quella

della

continuità politica

e dell'escalation. E dobbiamo prendere molto sul serio

queste spiegazioni sociologiche, perchè dobbiamo imparare a prevenire, negli

sforzi che noi stessi compiamo, le conclusioni di questo tipo, e inoltre a dare un

contenuto politico portante alle motivazioni inizialmente non politiche di una

protesta ». Nell'università americana lo studente si trova di fronte a una

situa-

zione

chiusa nella quale, tranne rare eccezioni, esistono due modalità di com-

portamento socialmente accettate:

a )

l'assunzione positiva del ruolo d i stu-

dente con tutte le limitazioni che esso comporta;

b)

lo studente può anche rom-

pere, temporaneamente o definitivamente, con questo ruolo accettandone più

omeno volentieri o più o meno acriticamente, un altro che la società gli fornisce

come alternativa al primo: quello di beatnik, di hippy, di combattente per la

libertà sessuale o addirittura quello del comunista rivoluzionario isolato dal

contesto sociale e operante all'interno di un gruppetto ristretto. In questa situa-

zione bloccata, la possibilità di una presa di coscienza politica e la capacità di

distanziarsi dal proprio ruolo socialmente attribuito, da cui dipendono in misura

decisiva le possibilità di operare all'interno delle istituzioni di cui si è compresa

la necessità di una trasformazione, sembrano non essere date.

La rivolta di Berkeley pare aver assunto la sua improvvisa quanto fragile

espansione a causa della transitoria assunzione da parte della maggioranza degli

studenti della seconda possibilità d i comportamento socialmente ammesso. Si

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