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lo scienziato si trova pur sempre, ripeto, in una situazione privilegiata in senso

attivistico, perchè egli programma la sua ricerca, sceglie i propri oggetti d i

esperienza o almeno i l loro ambito, e quindi, in un certo senso, è produttore

della propria esperienza. Ben diversa è la situazione i n cui spesso si trova

l'uomo comune, cioè l'uomo nelle sue esperienze di vita quotidiana (e quindi

anche lo scienziato stesso in quanto uomo comune). Nella vita quotidiana la

realtà esterna, la situazione di fatto, si presenta spesso non programmata nè

desiderata, come accadimento esterno che perturba e impedisce altre esperienze

conoscitive o pratiche che i l soggetto intendeva compiere.

Consideriamo un caso estremo, e quindi particolarmente chiaro. La malattia

ha un ben diverso significato per i l clinico o i l patologo che la considera con

interesse scientifico (e quindi sceglie di occuparsene, la inquadra in un proprio

programma di ricerca, la « domina intellettualmente » anche nel caso in cui

non riesca a guarirla) e per il paziente, che la sperimenta solo come ostacolo ad

altri suoi interessi, ad altre esperienze che egli appunto a causa della malattia

non può compiere. Non s i trat ta evidentemente solo d i una differenza d i

esattezza conoscitiva ( i l paziente che i n quanto « profano » s i distingue da

colui che sa), ma di una differenza di rispondenza ai propri bisogni e interessi:

tant'è vero che anche i l clinico o il patologo sperimenta la malattia su un piano

ben diverso quando è egli stesso i l paziente.

Ho fatto l'esempio della malattia solo per la sua particolare evidenza, ma

sarebbe un grosso errore credere che le esperienze in cui i l soggetto si trova in

un rapporto di potere sfavorevole nei riguardi della realtà esterna si riducano

alle malattie o ad altri accidenti biologici i n senso stretto. Anche nella sfera

dei rapporti affettivi, e così pure in quella della vita sociale e politica l'uomo si

trova molto spesso a dover vivere tali esperienze. Sarebbe quindi anche erroneo

identificare semplicemente i l livello biologico col regno della passività e della

necessità, i l livello economico-sociale col regno dell'attività e della libertà. Su

tutti e due i piani vi sono situazioni di fatto in cui gli uomini si troyano e vi

sono sforzi degli uomini per modificarle a loro vantaggio. Su tutti e due i piani

questi sforzi a volte riescono (per esempio si riesce a debellare una malattia,

arovesciare un rapporto politico-sociale oppressivo), a volte no. Per quel che

riguarda certe prospettive a termine relativamente breve, v i sono situazioni

politico-sociali altrettanto « bloccate » quanto alcune situazioni biologiche. El i-

minare l a schiavitù all'epoca d i Spartaco, o attuare i l comunismo agrario

all'epoca di Babeuf, era press'a poco altrettanto impossibile quanto eliminare

la vecchiezza o la morte. La differenza è invece notevole nelle prospettive a

lungo termine, le quali sono più oitimistiche per quel che riguarda i l « male

sociale» che per quel che riguarda i l « male fisico ». Mentre, cioè, è possibile

prospettarsi un futuro in cui l'oppressione dell'uomo sull'uomo sia eliminata

(anche se sulla sicurezza di questa prospettiva non è lecita alcuna oziosa fidu-

cia), non appare immaginabile un futuro in cui la sofferenza causata dal contra-

l'umanità cerca via via di chiarirlo e dominarlo». Queste osservazioni sono tanto più signi-

ficative i n quanto provengono da un filosofo della scienza che ben difficilmente potrebbe

essereaccusato di « realismo ingenuo » e che al materialismo è arrivato da una fremazione

scientifico-filosofica molto lontana da ogni empirismo semplicista. Esse chiariscono anche,

mi sembra, i n che senso s i debba distinguere t ra « metodo» e « risultati » della ricerca

scientifica (cfr. « Q.P. », 28, p. 81 sg.): non nel senso di una dogmatizzazione dei risultati,

ma nel senso d i un rifiuto di ridurre la scienza alla propria metodologia.