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siastoricamente (nel quadro, cioè, dell'evoluzione che dalla materia inorganica

haportato alla vita e quindi al pensiero), sia attualmente (nel quadro di uno

studioscientifico delmeccanismoconoscitivo, dei suoi organi e funzioni).

Di fronte a questeesigenze, del tutto inadeguata è la formula cara a Jervis

(eanche a Ciafaloni, che pure per altri aspetti polemizza efficacemente con

Jervis): « La prassi come fondamento dell'attività conoscitiva ». Inadeguata

anchecome sempliceprogramma di una futura indagine, perche contiene già

unatendenziosità di fondo nel modo di impostare il problema.

Sobene che la parola « prassi » esercita oggi una forte suggestione, a cui

contribuisce la suastessa indeterminatezza e pluralità di significati, il confluire

inessa di echi delle

Glosse

a

Feuerbach,

del pragmatismoamericano, del gram-

scianesimo e magari di certeconseguenzefilosofiche che si è creduto di poter

trarre dal principio di Heisenberg. In particolare, il richiamo alla prassi costi-

tuiscespesso, in campomarxista, un modo di non parlare o di parlar poco di

materialismo. Quegli stessi che oggi seppelliscono frettolosamente Gramsci,

accolgono di Gramsci proprio l'aspetto più legato alla contingenza culturale

dell'ambiente in cui visse: l'attenuazione del materialismo, che si è espressa,

fra l'altro, nella definizione del marxismocome « filosofia della praxis » (defini-

zionenon dovuta, come è ormai riconosciuto, soltanto alla censura carceraria,

edel restopreesistente allo stessoGramsci).

Ora, bisogna prima di tutto chiarire che il riferimento alla prassi ha ben

diversi significati a secondache si denunci l'insufficienza del puro pensiero per

rendere libero e felice l'uomo (« i filosofi hanno interpretato il mondo, si tratta

invece di trasformarlo »), o che si dichiari che la conoscenzastessa è, senza

residuo,prassi. In questosecondocaso, poichè

conoscere la realtà

è

già trasfor-

marla,

si regredisce dal marxismoall'idealismo, cioè ad una filosofia del

pensiero

comeprassi,

che fa apparire superflua l'azione. Nel primo caso invece, pur non

inunziandocerto ad approfondire it « lato attivo » della conoscenza e pur nor

racciandoalcuna distinzione assoluta tra conoscere e fare, si ammette che1.4

conoscenzanon fornisce da sola un pieno dominio della realtà e una vera libe-

razionedell'uomo: la vera liberazione è raggiungibilesolocon la trasformazione

pratica della realtà. Ebbene, ciò equivale a negare che la conoscenza sia pura-

mente e semplicementeprassi, a riconoscere perciò quell'elemento di passività

chespiace tanto a Jervis. L'identificazione immediata del conoscerecon l'agire

nonè marxismo: è, nella sua forma più coerente, gentilianesimo, cioè una filo-

sofiaugualmente aperta ad un attivismo irrazionalistico e ad un misticismo del

pensieropuro. D'altra parte, ogni distinzione (distinzione empirica e non cone

trapposizionecategoriale) traconosceree agirenonpuònonbasarsi, in definitiva,

sul carattere più ricettivo, meno integralmente attivo, del conoscere rispetto

all'agire. Servono di controprova le difiicoltà insuperabili in cui s'impigliòCroce

quandovolle distinguere, controGentile, laconoscenzadall'azione pur rimanendo

sul terrenodell'idealismo e intendendo, perciò, la conoscenzacome pura attività.

Una volta liberato dalle sue estrapolazioni ideologiche, i l problema della

conoscenzadiviene unproblemascientifico, cheriguarda in primo luogo la neuro-

fisiologiae le scienze ad essacollegate, dalla biochimica alla cibernetica. Questa

affermazione1/4«Q.P. » 28, p. 80) è sembrata a Jervis «una deliberata ingenuità

metodologica». Non so se egli coinvolga in questo sbrigativo giudizio le appli-

cazioni della cibernetica allo studio dei processi conoscitivi. La lettura dei saggi

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