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che sopravvive al la sua ar te ( i l caso non è raro) e su cu i ormai c'è

ben poco da sperare. I l suo, p i ù che uno « straniero », è u n vero e

proprio sonnambulo, sperso i n una Alger i da Pepé-le-Moko e appesan-

tito da d i f f i c i l i digest ioni e cont inue pennichelle. Musica toni truante,

processi i n st i le Per ry Mason, voce o f f per esprimere quel che l e im-

magini per certo non esprimono, ed una bellissima e fuor i posto Anna

Karina. Insistere è inut i le e crudele; passiamo ad altro.

ritmo i nterno al l 'opera, e non la sbr igat ivi tà d i una regia e d i u n

montaggio che non hanno control lato e padroneggiato un mater iale

già povero.

I l f i l m andrebbe visto ne l suo insieme, ma i suoi squi l ibr i sono

Corpo presente

La bel la cassa (prologo ed epilogo) del l 'Epido

Re

d i Pasol ini non

basta a conval idare quest 'al tra impresa, d i necessità discut ibi le, ma

che è comunque più giustificata, se non al t ro biograficamente, rispetto

alla tematica dell'autore. I l ripiombare nel mito, durante la lunga parte

intermedia de l f i lm, avrebbe guadagnato ad essere r idot to, pe r corr i -

spondere al le esigenze stesse dell'assunto, ad un mero riferimento, che

durasse ad esempio poco p i ù del prologo e dell'epilogo. L a sua preva-

lenza sbilancia i l f i lm verso una noia costante, grazie anche alla povertà

di realizzazione. Tu t t a questa parte è decisamente scarsa d' invenzione

cinematografica, e nonostante l e giapponeserie e i l « preistorico-arbi-

trario » — impresa i n cui s i mostrano più eff icient i ta l un i

Maciste

ogni invenzione è anzi esaurita al l ivel lo delle scenografie e dei costumi.

E' r ipet i t iva e mediocre, non abbastanza solare nè abbastanza cupa da

risultare tragedia, come è i n f a t t i sol tanto i n al cuni passi degni del -

l'autore c o n f r o n t o t r a i servi , g l i amplessi consumat i quando i l

dubbio già accende i protagonisti, i moment i f inal i . No n c i convince,

infine, la pretesa ad un t ipo di narrazione elegiaca e soffusa, che avreb-

be al lora richiesto una maggiore elaborazione formale, l a ricerca d i un

così evidenti, che c i sembra p i ù giusto vederlo nel suo meglio, soffer-

marci soltanto sul suo epilogo. I l cantore cieco, Edipo, guidato dal suo

vivace Ange l o (custode) sottoproletario — un i co ve r o contat to con

la v i t a — suona i l f lauto su l l e por te de l Duomo d i Bologna pe r l a

borghesia che non lo ascolta; poi , per i l proletariato, una nenia r ivolu-

zionaria, e ancora inuti lmente. Inf ine, egl i torna a i luoghi dell ' infanzia

e i v i conclude che « la vi ta finisce dove comincia ». L' intensi tà poetica

delle rade immagini di questo brano è altissima e ci sembra un peccato,

un'occasione mancata, che questa dichiarazione d i sconf i tta s i a stata

così poco approfondita e preparata da l comodo e rischioso ricorso a l

mito, cosi poco cr i t ico nonostante le opinioni a posteriori, inut i lmente

razionalizzatrici, de l regista. L a cupa concentrazione d i questa f i ne

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