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pi di sole donne, rifiuto di ciò che è identificato con il maschile), con la credenza

cheèpericoloso attraversare i confini vietati.

Questemanifestazioni rituali della nostra forza e solidarietà hanno espresso

una carica liberatoria e provocatoria che spezzava anche visivamente la nostra

storia di isolamento e di passività, e che faceva dei nostri girotondi e travestimen-

ti dei riti di riappropriazione di noi stesse e di aggressione verso l'esterno, i l

maschile, il potere. Ma oggi il rito è diventato ripetizione e contemplazione di se

stesso, spettacolo per chi vi assiste, mentre molte di noi cominciano a sentire e a

vivere con disagio l'esaurimento della carica liberatoria di questi momenti. Spes-

so, in quest'ultimo periodo, le manifestazioni, i giochi, i balli in piazza, i canti

nondànno tanto un'intensitàmaggiore alla nostra unità di contenuti, ma finisco-

no piuttosto per mascherare la nostra difficoltà di far compiere passi avanti al

movimento e di essereunite e forti. Molto menosono provocatori e molto di più

fanno sorridere benevolmente chi ci guarda dall'esterno, che altro nen aspetta

che di contribuire a svuotare questeespressioni e canalizzarle nel costume tradi-

zionale, a farne forme stereotipate e accettate di questomercato di beni di consu-

moborghesi.

Questo impoverimento della nostra creatività riassume uno dei nodi centrali

che il movimento deve oggi affrontare, cioè il pericolo della perdita della nostra

autonomia rispetto all'approvazione maschile, che in una prima fase era stata

raggiunta. La «femminista», la donna collettiva, sta per essereuna figura sociale

accettata, che si aggiunge agli stereotipi tradizionali nei quali viene catalogata

ogni donna (madre, amante...). Da più parti si parla con compiacimento del mo-

vimento femminista, si comincia a guardare con «comprensione» ai modi di vive-

re riconducibili ad esso: la tattica è quella di cambiare qualcosa, prima di essere

costretti a cambiare tutto, il disegno è quello di darci un po' di spazio in più, di

riconoscerci il diritto di svolgere un altro ruolo oltre a quelli già assegnati, ma

anch'esso imprigionato nel ricatto dell'approvazione esterna.

Il diverso come cultura

In questi anni non ci siamo mai poste fino in fondo la domanda di come si

possacostruire un punto di vista femminista sul rapporto con la cultura, da noi

storicamentevissuta come estranea e maschile. Questamancanza di chiarezza ha

portatospesso le donne a posizioni di rifiuto della cultura e di competitività nei

confronti di quelle che la possedevano, mentre queste ultime sonostate spinte dal

lorostesso rapporto con la cultura ad adottare metodi e modelli che le hanno

poste, rispetto alle altre, su un piano di distacco e di isolamento.

Questa situazione di confusione e di conflitto nasce da problemi reali che

stannodentro la nostra storia, e cioè dal fatto di esserestatesempre più oggetto,

argomento di cultura, che soggetto partecipe. Non solo le donne delle classi su-

balterne, infatti, ne sono stateescluse e insieme condizionate, ma anche le donne

delleclassi dominanti, pur godendo del privilegio di stare in un mondo in cui la

cultura veniva prodotta, non ne sono quasi mai state creatrici o realmente parte-

cipi. È la cultura stessa che ci ha sempre negate: i miti dell'incapacità storica

femminile alla logica e alla concettualizzazione razionale, provocando in noi sen-

sazioni di sfiducia e d'inadeguatezza, ci hanno portatospesso a forme di subordi-

naziane e di passività culturale. È una cultura che tradizionalmente ha sostenuto

che la donna, identificando, a differenza dell'uomo, pensiero e sentimento, è in-

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