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di stato nell'URSS di Stalin, ma non presentava ancora in quel contesto un carat-

tere «imperialistico» aperto. I l berlinguerismo del '77 compie un salto qualitativo

all'interno di questa «continuità» economicistica, perché lega direttamente al car-

ro dei successi della nostra Nazione nella competizione interimperialistica la stessa

possibilità di un effettivo rilancio dei consumi sociali.

Donolo ha ovviamente tutto il diritto di respingere da cima a fondo un'anali-

si di questogenere; può sostenereche il «riformismo imperialistico» è un concet-

to privo di senso, oppure non sufficientemente esplicativo, ecc. ecc. Ma è obbli-

gato a darci almeno gli elementi fondamentali di una

nuova

teoria dell'imperiali-

smo, visto che

tutte

quelle che noi conosciamo (e sono almeno una decina) preve-

dono il terreno di coltura nellemodernemetropoli imperialistiche di un «moder-

no riformismo» la cui «revisione» del marxismo è solo l'ideologia giustificativa

ex-post delle suescelteeconomichestrategiche, che vanno in direzione

opposta

sta qui il problema — a quella, comunque definita, della «transizione».

4.

Sul la transizione.

Si tratta di un concetto da usare con estrema sobrietà;

èinvece filtrato nel linguaggiocomune dando una specie di ebbrezza a chi lo usa,

che ricorda un po' i l modo in cui in un certo Settecento si usava il concetto di

«ragion sufficiente». Così come tutto ciò che avviene non può che avvenire nel

migliore dei mondi possibili, così tutto ovviamente non può che «transire» da

uno stato all'altro. Stupisce che compagni tanto scrupolosi e precisi nell'uso dei

termini pensino poi di cavarsela con la tautologia che la «transizione è l'inizio di

una fase (la cui durata ovviamente non è prevedibile, ma certo molto lunga) che

porta fuori dalla formazione sociale capitalistica». Si può anche sostenere che la

transizione alla morte, la cui durata ovviamente non è prevedibile, è una fase che

inizia il primo giorno di vita. Ma Donolo (pag. 5) pretende anche di darne «due

indicatori empirici» che non sono poi né indicatori né empirici, perché uno si ba-

sasu di una vaga «possibilità di istituzionalizzare» i nuovi rapporti di forza fra le

classi, l'altro sulla «possibilità di distinguere» (possibilità che viene da Donolo

curiosamente definita necessità) fra «elementi di socialismo.., che potrebbero co-

munqueessere tutti in astratto riassorbiti nei rapporti sociali capitalistici... ed ele-

menti di socializzazione che sono comunque richiesti dai nuovi livelli del capita-

le». Si resta trasecolati se si pensache vengonodisinvoltamente chiamati «indica-

tori empirici» concetti vaghissimi carichi di significati ideologici ed usurati da fre-

netici abusi del mercato culturale. Si può chiamare «indicatore empirico» qualco-

sache si afferma «essere del tutto in astratto riassorbibile» e che comunque non

viene affatto neppure definito? Si può chiamare «indicatore empirico» la «istitu-

zionalizzazione», concependo pure il materialismo storico nel senso più lato pos-

sibile? Molto meglio ammettere che si definisce «transizione» ciò che convenzio-

nalmente si stabilisce debbaesseredefinito «transizione».

5.

Su l futuro della «nuova sinistra».

Donolo è contrario ad usare il termine

di «rivoluzionari» per i componenti, i militanti, i dirigenti e i simpatizzanti della

«nuova sinistra». Qui io sono in parte d'accordo, ma anche qui bisognavedere in

qualemisura e perché. Nel linguaggio-Pdup il termine «nuova sinistra» è sempre

stato usato dai più consapevoli in esplicita polemica con chi si autodefiniva in

modo a volte un po' presuntuoso «sinistra rivoluzionaria»; autodefinizione che

implicitamente collocava il PCI nel mondo del «revisionismo», mentre i «rifor-

misti» diventano invece solo i passatisti un po' tetragoni al «nuovo». Linguaggio

cheda un lato mette in ombra il carattere realmente

nuovo

della politica del PCI

(un riformismo imperialistico che abbia in prospettiva una base politica di massa

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