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quello che la vecchia scuola dellavolpiana indicava con l'espressione di «astrazio-

nedeterminata»; è perfettamente legittimo il proporre la giubilazione del concetto

d'«ingiustizia» per spiegare il rapporto fra lavoro salariato e capitale, purché nel

frattempo si sia riusciti a produrre il concetto di «plusvalore»; se invece tutto

quello che si è riusciti a produrre è il concetto di «ofelimità» io mi terrò stretto

alla buona, vecchia e cara «ingiustizia».

Mi scusi Donolo, ma qui abbiamo a che fare con un contesto ancora peggio-

re, perché non si cerca neppure di elencare (come un Norberto Bobbio avrebbe

almeno fatto) i vari significati, intelligenti o stupidi, «tecnici» o allegorici, con i

quali il termine «revisionismo» è stato storicamente usato; si dà per scontato che

per compagni avvertiti il termine revisionismo è non solo un'insopportabile man-

canza di gusto, ma uno strumento del tutto inadeguato alla comprensione delle

nuove realtà sociali. Ma le cose non sono così semplici; vediamole da vicino, an-

chese in modo schematico.

Il termine «riformismo operaio» è veramente inadeguato; Donolo ha ragione

nell'osservare che sarebbe «un abito troppo stretto per un partito che si allarga a

coprire potenzialmente tutta la società»; i l vecchio riformismo operaio non ha

mai posto la propria candidatura all'«egemonia» complessiva, i n quanto ha

sempre visto nello stato una controparte sociale con cui fare «realisticamente» i

conti più che il terreno designato per «sancire» in modo privilegiato lo sposta-

mento dei rapporti di forza avvenuti al livello della società; il «riformismo ope-

raio» non è mai stato consapevolmente portatore di un «progetto complessivo»,

un progetto che a livello sociale si definisse in termini di «blocco storico» e a li-

vello politico in termini di «compromesso storico»: il termine è realmente fuor-

viante.

Anche il termine «socialdemocratizzazione» è cattivo, sia pure non certo per

le ragioni — a mio parere assurde — che Donolo porta. Donolo sembra pensare

che i l PCI sia dotato di un robusto impianto «culturale» strategico (grazie a

Gramsci, al fatto di aver sempre tenuto presente il problema del blocco storico e

dell'egemonia, ecc.) a differenza delle povere e pidocchiose «radici culturali su-

balterne, senza egemonia» della socialdemocrazia tedesca. Ma quello del PCI più

«colto» della SPD è solo un inspiegabile pregiudizio italiota frutto di un giober-

tismo di ritorno, che ricorda le tesi dei vecchi «bignami» secondo cui Rosmini e

Gioberti erano il Kant e lo Hegel italiani; che Sartre ed il «Nouvel Observateur»

abbiano intrattenuto questo equivoco nella Francia degli anni '60 è storicamente

giustificato dalle contingenze tattiche della lotta contro la falsa «ortodossia» del

PCF, ma che il bagaglio ideologico che Lucio Colletti (per una volta acuto e spi-

ritoso come era duecentocinquant'anni fa) definisce «costituito dai cascami di un

cattolicesimo di terz'ordine, come quello di Franco Rodano e dei suoi discepoli»

venga considerato in modo apodittico come «di alto livello» è sintomo del com-

plesso d'«inferiorità» verso i «grandi numeri» che hanno sempre avuto certi no-

stri intellettuali ansiosi di «referente reale»; nella mia settaria rozzezza continuo

apensare che Berlinguer non abbia affatto una dignità storica superiore a quella

di un Callaghan o di uno Schmidt, per non parlare di un Palme, i quali almeno

non fingono di «ispirarsi» alle «grandi idee» di Marx, Engels e Lenin. Mi rendo

conto che a favore di un'opinione opposta militano almeno due buoni argomenti:

il primo s'incentra sul ruolo oggettivamente positivo (vedi caso Biermann, ma

non solo) che il PCI può avere nell'aprire spazi di libertà contro la repressione

nei paesi dell'Est, il secondo s'incentra sul ruolo di «moltiplicatore» di un nuovo

«sensocomune», democratico e moderno, nel nostro clericale e controriformisti-

copaese di santi, poeti e navigatori. Si tratta certo di argomenti seri, e degni di

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