

1973 è in atto una radicale inversione di tendenza per quanto riguarda la percen-
tuale del reddito da lavoro dipendente sul prodotto.
Il rapporto
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nel modo iii cui è stato calcolato da Fuà è quindi insignifi-
cante se manca una valutazione precisa del margine d'errore del valore aggiunto
nei nostri conti nazionali, in sè e in rapporto a quello degli altri paesi. Si potreb-
be dire che il conto del valore aggiunto aggregato di una contabilità nazionale ha
un grado di attendibilità• pari al grado di efficienza nell'accertamento fiscale. Non
si tratta di un paradosso; il valore aggiunto in Inghilterra viene calcolato princi-
palmente in base ai ruoli delle tasse; in Italia si pensa forse che le aziende rifac-
ciano la contabilità per rispondere esattamente al questionario dell'Istat sul valore
aggiunto?
Il problema della sottostima del valore aggiunto nei conti nazionali (sottosti-
ma del numero degli occupati, della produttività di una fascia di aziende, dei pro-
fitti ricavati dai bilanci aziendali) è quindi un problema che non riguarda qualche
irrilevante percento, ma che può riguardare differenze dell'ordine delle decine per
cento, e su cui è impossibile sorvolare facendo confronti con altri paesi.
Aggiungo, per completezza, circa la discrepanza tra i l calcolo di Fuà sul
margine di profitto e le non sospettabili indagini sui bilanci aziendali su cui fonda
lesue considerazioni Carli, che se si ricavano le stime implicite nei conti nazionali
per il 1974, facendo la differenza con l'indagine sul valore aggiunto, si scopre che
l'Istat ha improvvisamente deciso per quell'anno di non mantenere più la coeren-
za tra coefficienti per la stima del valore aggiunto e coefficienti per la stima del
reddito da lavoro dipendente: i lavoratori che hanno mangiato più di quanto ab-
biano prodotto sono quelli delle piccole aziende. I l salto nella distribuzione del
reddito tra lavoratori e capitalisti dipende anche dal mutamento immotivato della
stima dell'Istat. Per questi calcoli rimando a un articolo di prossima pubblicazio-
nesu «Inchiesta».
4. I l modo in cui è stato accolto il libro di Fuà, nonostante che l'approssi-
mazione dei calcoli e dei ragionamenti renda del tutto impossibile trarne conclu-
sioni fondate, deve indurre a qualche riflessione sul contesto in cui si svolge at-
tualmente il dibattito economico, che è, almeno apparentemente, e certo dal pun-
to di vista della creazione di un clima di opinione, i l dibattito politico di questi
mesi. Esistono oggi in Italia presumibilmente due soli centri di elaborazione eco-
nomica, uno governativo e uno padronale: la Banca d'Italia e la Confindustria, o
lesue diramazioni locali. E molto probabile che solo in queste due sedi si abbia
un'idea precisa, per aspetti diversi, della situazione economica reale. Non esisto-
no invece centri di elaborazione autonoma (per esempio universitari), o forse
«elaborazione» non è la parola giusta, perché di modelli e di teorie se ne fanno,
ma di descrizioni e analisi di mutamenti reali se ne vedono poche, e si vedono
anchepoche valutazioni e controlli dei dati aggregati su cui si ragiona (sul valore
aggiunto l'unica a mia conoscenza è quella di Indovina). Sono inoltre scarsissime
le analisi empiriche provenienti da ricercatori legati ad altre parti politiche e so-
ciali, per esempio al movimento operaio. Così chi si tenga volutamente o meno
nella linea di analisi tracciata dai due centri egemonici ha buone probabilità di es-
serecreduto. Ragionare contro le opinioni correnti e unanimi è sempre difficile,
edè difficoltà da cui non si esce con la buona volontà. Da dove possono proveni-
re dati alternativi? Solo le organizzazioni di massa sarebbero in grado di avere
una rilevazione autonoma dei mutamenti di alcune grandezze economiche, per
esempio i salari, l'occupazione, e di alcuni mutamenti dell'organizzazione del la-
voro, che permettessero di tarare i dati ufficiali. Da un sindacato che intende
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