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man sulla presenzaossessiva dei massmedia e del loro ruolo è di altri film, ora in modo

più interno (se il cinema è stato il principe dei mass- media, egli ne riesamina le norme e

lesottopone a operazioni di spiazzamenti parziali o totali nei film che ai generi si rifanno:

da MASH a I compari, da II lungo addio a Gang; ma anche California Poker, apparente-

mente più sfuggente a un collegamento di genere, non è infine che una commedia brillante

alla Hawks, con una coppia maschile alla Hawks, con una sotterranea misoginia alla

Hawks), ora in modo più dichiarato: la radio e la coca-cola onnipresenti in

Gang,

e so-

prattutto

Nashville

e

Buffalo Bili,

quest'ultimo che scava addirittura nelle origini del siste-

ma americano dei mass- media, ne ripercorre la storia più lontana e ne individua le origini

in quello scambio- connubio- fusione tra spettacolo e politica che

Nashville

mostra in tutta

la sua concretezza contemporanea.

L'ambiguità di Altman è però tutta dentro la contraddizione dello spettacolo, perché

vale anche per lui come per i grotteschi Henry Cibson e Barbara Harris del finale di

Nashville

(il primo che dice «Non siamo a Dallas... Che qualcuno canti!» e la seconda che

intona, pressappoco, «Potete dire che non siamo più liberi ma non ci importa»). «The

show — l'America — must go on!» Altman fa anche lui lo spettacolo dello spettacolo,

dell'America- spettacolo. Certo il suo film è ben diverso dalla canzone dell'ochetta Albu-

querque, egli è un intellettuale che sa osservare, capire, far osservare e far capire, con la

tranquilla immediatezza di un occhio splendidamente candido e acuto. Ma la sua scelta è

di star dentro a questo bailamme comprensibile (ed egli ci aiuta a comprenderlo più di

ogni altro artista americano contemporaneo) e di essere uno degli elementi del bailamme.

Questacoscienza è presente già nel modo stesso in cui egli gira, abolendo la distanza tra

film e vita, facendo scrivere agli attori di

Nashville

le canzoni che canteranno nel film,

raggruppando per

California Poker

bande di incalliti giocatori, facendo recitare se stessi

agli attori e lasciandoli liberi di improvvisare le proprie battute, o infine imbastendo spet-

tacolo nello spettacolo sullo spettacolo con la consumata perizia di chi sa che la gente che

ha intorno recita comunque una parte, o che inoltre basta spostare l'obiettivo da un per-

sonaggioprincipale a uno secondario e a una comparsa occasionale, per scoprire altre fac-

ciate di provvisoria originalità, perfettamente congrue e rapportabili a quelle degli attori

in quel momento centrali.

Egli accumula così materiali fondamentali per la comprensione della grande nevrosi

americana e della sua tragica e per il momento di nuovo vincitrice vitalità. Ha capito che

c'è da andare oltre la rilettura dei miti e dell'inconscio o della cultura collettivi, e se lo fa

«da dentro» ha anche la grande giustificazione•che da fuori ben poco c'è venuto di siste-

maticamente chiarificatore sulla specificità di quella cultura e sulla vitalità di quel sistema

(pensiamo alla immane carenza, alle superficialità degli intellettuali marxisti europei nello

studiarlo: altrettanti disorientati Geraldine Chaplin di

Nashville)

ed è ovviamente altret-

tanto insoddisfatto di come l'intellighenzia americana degli anni Sessanta ha saputo rap-

portarsi a quella crisi, Non possono soddisfarlo le proposte distaccate e ironiche (perdenti)

di un Bellow, i ricorsi alla droga, al misticismo, alla fantasy di tanti altri, la volgarità

aggressiva da «se è così, sarò più furbo di voi» di un Mailer che pure sa giostrare coi e

suimedia come pochi. Ha accumulato i personaggi degli evasori fallimentari dalla realtà

per incapacità e impossibilità ad affrontarla (le ali di

Anche gli uccelli uccidono,

i l gioco

di

California Poker,

l'assalto alle banche di

Gang,

la follia di

Images,

l'ironia come ven-

detta di

I I lungo addio

e come sopravvivenza di

MASH,

la droga del finale dei

Compa-

ri...)

e dopo il tentativo metaforico- fantastico di

Anche gli uccelli uccidono

ha scelto la

via di un pacato distacco sulla fiera di Nashville, con il regolato intreccio di storie che

nella capitale della sottocultura di massa (equivalente della Hollywood dei tempi andati,

ha detto) egli annoda e sdipana verso un finale sacrificale che libera dal fantasma vietna-

mita degli anni Sessanta e apre alla nuova e più volgare aggressività del dopo- Ford, an-

dando più vicino di ogni altro alla sempre frustrata ambizione degli intellettuali americani

al grande romanzo, alla storia che raccolga tutte le storie e dia sintesi artistica sia pur

provvisoria alla realtà di un'epoca.

Seè certo che

Nashville

(col suo simile- opposto sull'altra America, quella nostra di

Milestones)

resterà come il flim più vero sulla crisi recente degli USA, è anche probabile

cheessodebba restare anche come il primo romanzo storico americano.

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