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Si possono trovare tracce di un atteggiamento simile nelle persone migliori e

più diverse, da chi (come il corrispondente di «Le Monde» da Pechino) in passa-

to con grande semplicità sosteneva che doveva essere vero per forza che Lin Piao

era la destra, dato che si era opposto a Mao, che era ovviamente la sinistra (cioè

il positivo); ad Alto Natoli su «La Repubblica».

A me non riesce di condividere le emozioni nè per la morte di Mao, che cer-

to con una lunga gloriosa compiuta vita si era guadagnato più della maggioranza

degli uomini il diritto e il dovere di morire, e della morte già da tempo recava nel

corpo i segni; nè per i fatti che son seguiti alla morte, che non mi sembrano se-

gnare una discontinuità, per il bene e per il male, rispetto al modo tenuto in pas-

sato in Cina di dirimere le controversie politiche: modo fondato sulla impossibili-

tà di scindere gli uomini dalla funzione, certo non democratico nè socialista nel

sensoche questi termini hanno per noi, ma neppure (per quanto se ne sa) partico-

larmente efferato.

Temo però che da un lato si tenda a spezzare, insieme alla follia e alle illu-

sioni,anche i motivi profondi, i fallimenti, i dissensi, le critiche che avevano por-

tato molti a fare della Cina la materializzazione di una utopia, «sostanza di cose

sperate ed argomento delle non parventi», cioè nel senso pieno e rigoroso del ter-

mine, una

fede;

dall'altro, che la volontà di difendere ad ogni costo, almeno per

il passato, l'esperienza cinese trascini a ripercorrere il cammino delle ammissioni

amezza bocca, delle dissociazioni conniventi, delle critiche e delle ammissioni in

ritardo già percorso purtroppo dai comunisti italiani per quanto riguarda l'URSS

eper giunta per cose e situazioni di cui non hanno alcuna colpa. Si perderebbe,

come si è in parte già persa, l'occasione di studiare le Cina per quel che è, di non

scommettere sul suo futuro e di fondare la critica all'esperienza russa e le propo-

steper la lotta politica in Italia su una analisi attenta della realtà.

La Cina della sinistra italiana

«In Cina, leggo, fame. Raccolti cattivi, / errori politici L . ] / E cori inaugu-

rali ai monumenti / che nelle città nostre onoreranno i per noi / nelle guerre di

fame spariti infiniti cinesi / figli e nipoti -canteranno un giorno / schierati tra

stendardi. Intanto stride / l'evo, parla Togliatti di storicismo e di voti, / parla di

voti il Papa, e di Gesù; / ma alcuni verbi in carta dispongo io qui / con ironico e

grave ambiguo ritmo. Lunga / vita alla Cina comunista repubblica». I versi, di

Fortini, sono del 1961. E certo l'autore, tra i più consapevoli della natura insieme

di simbolo e di realtà della Cina degli italiani, l i ripeterebbe oggi, con la secca

contrapposizione del futuro alla storia. E ripeterebbe il disprezzo del commento

«Nulla sapete voi, cari amici, / e capite poco». Chi scrive le lettere persiane non

si fa distrarre da rade notizie di viaggiatori sulla Persia (foss'anche lui il viaggia-

tore), anche se il distacco può diventare pericoloso o impossibile se i viaggiatori

arrivano abbastanza in fretta da portare ancora fresca la frutta colta nei giardini:

sele comunicazione e gli scambi rendono reale e ineliminabile la contemporaneità

e la compresenza. È infatti impossibile considerare futuro e speranza ciò che è

contemporanea e compresente realtà: o almeno è altrettanto complessomantenere

l'ambiguità tra l'altro e il medesimo chemantenerla per la realtà in cui si vive.

L'interesse per la Cina di una parte della sinistra socialista (ed anche della si-

nistra liberale) comincia ben prima del 1961: almeno col numero de «Il ponte»

del 1955 e con i primi viaggi. È l'interesse e la speranza per la ripresa di una ci-

viltà antica, esotica, empirica: un'etica senza metafisica; una politica senza teo-

crazia; una religione senza monoteismo. E poi un socialismo senza industria e le

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