

la confusione della vicenda dai moventi incerti, dalla morale ambigua, dalle psicolo-
gie contorte e indecifrabili, con le sole certezze della violenza e della morte. A distan-
za, in questo genere detestato da Adorno per la sua confusione, è possibile discer-
nere i segni di un disagio che non riusciva ad esprimersi altrimenti, nell'America
degli anni Quaranta, ma che è oggi più rivelatore che non i film di denuncia, di
stampo ancora rooseveltiano, di quegli anni: specchio di un disagio di cui si colgono
gli effetti, ma i cui misteri e le cui angosce non sono ancora estricabili per la
coscienza americana del tempo.
Rivisitare oggi il genere vuoi dire accoglierne nonostante tutto questo clima,
per i Boorman (Senza un attimo di tregua),, gli Smight (Detective's Story), gl i
Altman
( I l lungo addio),
e valorizzarne, accentuando questo o quell'elemento, la
tradizione. Comunque, cercando di analizzare un po' di più. Per Polanski, che a
scuola è stato obbligato (anche se magari gliene fregava) a studiare Marx, questa
rivisitazione è diversa, e porta obbligatoriamente a una certa chiarezza. L'intelli-
genza della sua operazione sta nel fatto che questa rilettura rispetta tutti i canoni e i
luoghi comuni del genere, ma
l i spiega
con sovrana padronanza dei suoi mecca-
nismi, in un connubio di adesione-distacco perfettamente calibrato. Ci sono la
bionda fredda e insoddisfatta, gli ambienti lussuosi e quelli oscuri, le psicologie con-
torte, il detective che le busca, e tutto i l resto.
Ma alla fine il filo è rigorosamente chiaro: in un intreccio di motivi economici
(la natura capitalistica e borghese dei conflitti) e sovrastrutturali (la cultura ameri-
cana e le sue ossessioni). I l capitalista, il male, sintetizza e estremizza etica ebrai-
co-protestante (si chiama Noah Cross, cioè Noè Croce!) e capitalismo, a un livello di
falsa coscienza tale da permettergli di stuprare figlia e nipote senza rimorsi e sentirsi
sicuro dei suoi fini, sintetizzati nella dichiarazione di fare ciò che fa per «comprare
l'avvenire». La donna è bionda cattiva nevrotica perché tale l'ha resa il padre, cheè il
capitale. E il destino si ripete, lo stupro si ripete, si ripete la precedente esperienza di
Gittes a Chinatown. I l Detective si aggira nel film mutilato al naso (una simbolica
castrazione), a preludio ed esemplificazione violenta (e ironica) della sua sconfitta:
tanto più che a mutilarlo è Polanski in veste di attore. Da Chinatown non si fugge, e
Chinatown è il sistema nel suo complesso e nel suo orrore di giungla e di barbarie.
La padronanza perfetta, l'intelligenza con cui Polanski disvela qui l'America
(ricordiamo in particolare la accuratissima collocazione storica degli avvenimenti,
in un contesto di città in espansione ricostruito con minuzia documentaria e archi-
vistica) indicherebbero in Polanski, un regista che non ci ha mai incantato troppo,
un modo più adulto di raccontare e descrivere. Ma pensano a smentirci le dichiara-
zione del regista, che considera
Chinatown
un'opera meno personale, in qualche
modo minore, e fatta per potersi permettere un'altra divàgazione sul tipo di
Che?
o
un'altra impresa alla
Macbeth.
Ciò non toglie a
Chinatown
nessuno dei suoi meriti,
ma illumina la trista figura di Polanski di una luce più nevrotica e sballata, già nota
ergo coerente.
Questo allievo di Wajda aperto al paradosso e alla discettazione nell'assurdo,
ha dapprima applicato la sua verve a demistificazioni interne e un tantino sadiche
dell'uomo-medio e dell'intellettuale società socialista, poi ha scelto l'Occidente e
dopo un brillante tirocinio europeo è entrato trionfalmente nella Mecca americana.
Ma questa mecca l'ha punito (con la strage famosa) lasciando tracce in un
Macbeth
la cui violenza non sa farsi mai veramente pregnante e moderna, odierna, e in un
gioco che si vorrebbe scombinatamente volterriano in
Che?
In realtà, Polanski ha
perfettamente capito l'orrore del mondo che si è scelto e l'altra faccia dei vantaggi
che si è scelti, cioè del denaro e della «libertà», ma non sa nè vuole rinunciarvi. Nei
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