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meglio, contro ciò che del concittadino Freud ha fatto l'America. Tutto questo

(unito alle battute sferzanti di Hecht, e a una citazione milestoniana, il manifesto di

All'ovest niente di nuovo,

ead altri riempitivi gustosi) ha un fine: l'accentuazione del-

l'antipatia edel livore dimostrati da Wilder per la categoria dei giornalisti, per il loro

rapporto alienato col mestiere, nei suoi legami con la politica econ la manipolazione

dell'opinione. Livore che era già stato dimostrato da molti personaggi minori della

filmografia wilderiana e soprattutto da quello, centrale, di Kirk Douglas ne

L'asso

nella manica.

Si direbbe anzi che i giornalisti vengano nelle idiosincrasie wilderiane

perfino prima dei poliziotti, dei politici e dei padroni. Unici simpatici di questo film

sonouna vecchia inserviente, una prostituta, un estremista confusionarioepatetico.

Figurine, certo, convenzionali e miserelle, sopra e contro le quali si accanisce

unpotere ottuso e una stampamascalzona. Perché la galleria dei giornalisti è invece

variata e brulicante di ceffi vecchi e nuovi, a dimostrare il comune abominio della

categoria. Questa rallegrante, rinfrescante antipatia è in qualchemodo datata: quel

giornalismo è il giornalismo americano a sensazione degli anni Trenta; ma, sembra

dire Wilder, il dopoèpeggio (e

L'asso nella manica

conferma). Il modocomequesto

formidabilemestiere è gestito in una società dichiaratamente capitalistica e dichia-

ratamente classista è, in definitiva, ancora lo stesso. Le eccezioni, che ci sono, con-

fermano la regola ancora oggieanche da noi, che stiamo entrando soloda poco in un

periodo di «quarto potere» paragonabile alla lontana con quello americano degli

anni Trenta. E il film «funziona» per noi proprio per questo, perchè, senza avere i

vantaggi della stampa americana di oggi (cioè del suo pluralismo, cioè della suaspre-

giudicatezza—che si neutralizza magari da sè i suoi effetti positivi, ma che almeno

esiste), stiamo invece entrando in una fase di ambigua ristrutturazione che lascerà

spazi sempre più poveri e mortificati alla verità di classe.

Wilder, per conto suo, continua imperterrito a sputare nel piatto dovemangia,

ea fustigare sapidamente il sistema in cui vive, cercando spazi minimi di solidarietà

fra gli sfasati o, come altrove, tra gli innamorati sotto il sole europeo. Poco, pochis-

simo di affermativo; il compito che si è scelto e in cui eccelle non è però stato mai

quello di affermare, ma di negare.

«Sugarland Express» di Steven Spielberg

Spielberg ha debuttato a ventisei anni con

Due!,

un film di notevole maestria

chesi giovava di un lineare e ricco congegno narrativo di Richard Matheson, abile

inventore di racconti di fantascienza. Nella lotta tra un Uomo qualunque (Mister

Mann!) e un camion lungo le strade americane, in un viaggio che porta da una

mediocrità all'altra e sotto il segno della viltà ossequiante verso il padrone (Mister

Ford!), era la concretizzazione di tutte le paure e le angosce notturne a scatenarsi

contro il piccolo-borghese, antipatico e frustrato. Un po' quello che succedeva ai

tempi della grande crisi con

King Kong

(ma qui con ben minore poesia), i l

camion-cisterna dall'aspetto antico e minaccioso è, può essere, molte cose: tutte

quelle che l'inconscio dello spettatore americano è capace di proiettarvi. Simbolo

polivalente della violenza e dell'insicurezza americana, concentrato irrazionale di

unNemico (che è Violenza, Morte, ma anche, perché no?, Diversità incombente,

Rivoluzione), non si dice cosa rappresenti (al contrario dei camionisti di

Easy Rider,

per esempio), e la sua connotazione fantastica, onirica, non fa che ampliarne il por-

tato di angoscia e di suspense.

La sua irrazionalità puòancheessere, non spiegata, una razionalità chesfugge

alla comprensione dell'uomo americano. Che però, per gli autori, deve pur vincere. Il

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