

posto», di far loro pagare una doppia violenza. Altrettanto tranquilli i medici nel
rimandare in fabbrica una donna incinta e ammalata: perché produca e perché al
tempostessosconti il peccatosessuale e subisca fino in fondo il proprio destino
di subalternità. Diventa chiaro allora come dietro all'ideologia della debolezza sta
la volontà di espropriare le donne dell'uso della loro forza, che tanto meno è ri-
conosciutacome tale, tanto più è oggetto di sfruttamento selvaggio in fabbrica,
in famiglia, nella società. È la volontà di espropriare le donne di ogni potere indi-
viduale o collettivo, è un'articolazione centrale dell'antifemminismo, che facendo
leva sulla specificità anatomica e biologica delle donne, tende a tenerle separate
dal pubblico, dalla politica, dai rapporti sociali, presentati come violenza oscura
eimmodificabile.
C'insegnano fin da piccole a reprimere l'aggressività, a trattare i conflitti con
gentilezza, persuasione e furbizia, ci spiegano che questa è la nostra natura, la
nostra vera forza, e chequestesono le nostre armi. Ed è vero che siamo in gene-
rale meno forti, che abbiamo più paura, ma perché fin dall'infanzia siamo
espropriate della nostra forza fisica, che non viene impiegata, sviluppata, valoriz-
zata nelle sue peculiarità; perché non ci è concessoneppure su questo terreno di
conoscere il nostro corpo, di preparare la nostra intelligenza ad affrontare questa
prospettiva. Abbiamo paura perché siamo deboli, e siamo più deboli perché ab-
biamo paura, una paura aggravata dalla minacciasessualecontenuta in ogni vio-
lenza contro le donne.
Ma tutto questo non vuol dire se non che per noi la forza è un fatto ancora
più conflittuale, una contraddizione chespessovede a un polo la paura, all'altro
la temerarietà e l'esibizione eroica: tutt'altra cosa dunque che il pacifismo come
rifiuto immobile della forza. La realtà è che non siamo affatto separate, material-
mente e psicologicamente, dalla violenza, non soloperché la subiamo nei rappor-
ti personali, nel lavoro, nella società, ma perché la esercitiamo noi stessenella fa-
miglia, contro altre donne, contro i bambini, ritorcendola in vari modi verso chi
èaltrettanto o più debole.
Lecontraddizioni che il nostro atteggiamentoesprime nei confronti della for-
zapoggianodunque non solo sul caratteremaschile e separato della pratica e del-
l'ideologia oggi ancora prevalenti, ma su basi materiali, culturali e ideologiche
precise, che vanno analizzate con gli strumenti della storia e dell'autocoscienza,
confrontate nelle articolazioni diverse che hanno assunto e iassumono per strati
diversi di donne. In mancanza di tutto questo, rischiamo di vivere un episodio di
lotta «pacifista» o, al contrario, un momento di scontro violento, non come scel-
tenostre, articolazioni di una nostra concezione della forza, ma come sintomi di
subalternità al mito della nostra debolezza o, viceversa, dell'irruzione del maschi-
le nella nostra esperienza. Rischiamo di non vedere quante potenzialità, quanto
«nuovo» sta dentro il nostro conflitto suquesto terreno.
Nell'esperienza delle donne, più che in qualsiasi altra, la concezione e la pra-
tica della forza codificate dalla borghesia sonovissute come violenza, come stru-
mento di subordinazionemateriale e ideologica. Se distruggere quella concezione
equella pratica deve diventare un obiettivo generale di tutto il proletariato, per
noi si tratta di qualche cosa in più: di una lotta specifica contro l'oppressione
maschile e al tempo stesso della condizionenecessaria per costruire le basi della
nostra forza. Solo a partire dalla nostra esperienza e solo dentro il percorso del
femminismo, questo terreno può rivelarsi nel suo intreccio con i ruoli sociali im-
posti, con le condizioni culturali e materiali, con le ideologie uguali e contrarie
della forza e della debolezza. E non per caso è nata da noi l'esigenza di sottoli-
neare il rapporto e la distinzione tra la forza, come capacità d'imporre i nostri
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