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consistenti strati di donne, se per tutte le altre non cambia nulla, se il ciclo si ri-

peteuguale a sestesso, e produce, in una catena di fatiche e solitudini, altri cor-

pi, altri oggetti da immettere sul mercato. Siamomerce anche per questo; perché

divise e in vari modi ancora in concorrenza, e soprattutto incapaci di affrontare

l'intreccio delle contraddizioni di sesso e di classe, che attraversano la storia e la

vita del corpo e ne fanno un terreno di totalità.

Così la lotta per l'appropriazione del corpo, che è e continua a essere la ca-

pacità di conoscere e gestire la sessualità, la maternità, la salute, di costruire un

rapporto nuovo con tutta la realtà, deve saper ripercorrere il ciclomateriale e cul-

turale che lo ha prodotto, le fasi separate e le donne separate che ci hanno lavo-

rato, deve riconoscere quanto l'oggetto corpo ci ha divise e ci divide per linee di

classe, generazioni e cultura, quanto ancora esso fa da filtro negativo al nostro

rapporto con la realtà. Perderemo un falso emblema d'identità, una sintesi di

eguaglianze fittizie, per guadagnarne in consapevolezzache la nostra liberazione è

davvero quella più indivisibile.

Il diversocome forza

Il problema della forza e delle sue articolazioni, fino all'uso diretto della vio-

lenza, è stato a lungo vissuto dentro il movimento come il rapporto con il diverso

per eccellenza, con un regno esclusivo del maschile, separato e da separare dalla

nostraesperienza. La denuncia di qualsiasi forma di aggressività, le incertezze sul

modo di affrontare le tensioni, il disagio con cui subiamo lo scontro politico du-

ro, sono ancheespressione di un approccio al terreno della forza rimasto ancora

parziale e subalterno.

Senzadubbio, nella prima fase di crescita del movimento, il rifiuto di ade-

guarsi e di mischiarsi alla pratica e all'ideologiamaschile della forza, largamente

presentenelle organizzazioni in cui molte di noi militavano, ha segnato un punto

di partenza obbligato per gettare le basi di una nostra concezione: questo rifiuto

era una rottura positiva, che però doveva ancora fare i conti col riflessospeculare

di quella pratica e di quella ideologia, cioè con la teoria della debolezza femmini-

le e della «natura» pacifista che da essaderiverebbe: una teoria che percorre la

nostra storia più lontana e che la borghesia ha ereditato, perfezionato e utilizza-

to, trasmettendola anche al proletariato come immagine «naturale» della donna.

Al di là delle vistosemanifestazioni storiche di questa ideologia, non è un caso

chemolti compagni, spesso tra i più attenti a cogliere le articolazioni di classe in-

terne alla condizione femminile, a sottolineare le distinzioni tra borghesi e prole-

tarie, si siano dimostrati e si dimostrino ancora convinti che la donna è debole, la

donna è paurosa, emotiva, in sostanza inadatta alla pratica della forza, se non in

un ruolo secondario, guidato e controllato dall'esterno.

La storia s'incarica di smentire questa ideologia. Le donne hanno lavorato

17ore al giorno nelle fabbriche, nelle campagne e nelle miniere, ma nessun pa-

drone si è mai fatto problemi di infliggere loro una fatica «maschile»: il mito del-

la fragilità serviva a pagaremeno le operaie, a licenziarle più in fretta. La forza

fisica e il lavoro delle proletarie erano anzi la condizione indispensabile perché

quel mito potesse trovare la propria incarnazione in quelle donne delle classi do-

minanti che lo subivano a tal punto da convincersi di esseremalate e inabili a

qualsiasi attività. Allo stessomodo tutte le polizie della storia non si sono mai

fatte problemi di pestare, ferire, assassinare le donne; al contrario, agli obiettivi

soliti se ne aggiunge un altro, quello di farle tornare indietro, di metterle «al loro

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