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zione o di documentazione «sulle migliaia e migliaia» di riunioni di base che sal-

verebbero comunque la democrazia in questa sacra rappresentazione. Oppure ci

si sente raccontare che la democrazia cristiana perse prestigio e potere all'epoca

del processo Slansky perché un suo alto dirigente fu accusato e condannato per

tradimento senza che ci si dica né che si trattò di una manovra, fatta in quel caso

contro un non comunista, né che invece quello lì era realmente colpevole, e nep-

pure che, certo, uno ha dei sospetti, ma che non si riescono a trovare documenti

né a favore della tesi della realtà né di quella della frode.

Con questi sistemi si scoprirà che forse ci sono differenze sociali tra i funzio-

nari di partito e i normali lavoratori il giorno in cui ci sarà una legge che dichia-

rerà che gli uomini nascono, o diventano, intrinsecamente diseguali (per la legge,

s'intende); affermazione alla quale a casa nostra, con l'insistenza sulla funzione

delle avanguardie, si è arrivati pericolosamente vicino.

Come già dicevo, molto sta però cambiando; un recente articolo (29/12/76)

di Romani sull'«Unità» muta finalmente il tono del commento sul mancato ri-

spetto delle libertà fondamentali in URSS, da quello della accorata e condolente

ammissione a quello della più aperta polemica e disamina. Naturalmente non ba-

sta: anche perché non si tratta solo di procedere a un'opera di denuncia; a quella

hanno già pensato altri senza attendere il nostro permesso. Si tratta di procedere

a un'opera assai più ampia di conoscenza e di studio, che riguarda un terzo ab-

bondante del mondo e non può essere lasciata ai nemici. Non basta smascherare,

bisogna contribuire a creare le consapevolezze per il mutamento perché quel che

si vuole non è aggiungere un caso di più alla storia dei dispotismi ma contribuire

a una trasformazione, come certo è difficile o impossibile per un privato (non

basta la tenace determinazione di Vittorio Strada) ma è possibile per un intera

cultura. E chi garantisce che il nostro sarà un contributo marxista? La storia fu-

tura naturalmente. Ma mi sembra una questione supremamente oziosa.

4. A proposito delle carenze di analisi sullo stato dei partiti marxisti del

movimento operaio devo però segnalare con sufficiente ampiezza due dissensi im-

portanti dall'autore.

Il primo riguarda l'ammissione di fatto della inevitabilità di cospicue buro-

crazie statali e partitiche, che viene ripetuta e alternata a quella della inevitabilità

dello stato. Non nego che il «paradosso» del crescere delle funzioni e quindi della

mole della burocrazia statale col crescerestesso dei diritti dei cittadini all'assisten-

za, sia reale. Però i modi di affrontare anche se non di risolvere il paradosso, so-

no numerosi: non parlo di idee e di progetti ma di alternative reali, storicamente

realizzate. L'Inghilterra non è la Germania, né quella di Kautsky né quella di

Schmidt; la Svezia non è né l'Italia né gli Stati Uniti. In ogni caso, all'interno di

tutti questi paesi si sono prodotti movimenti non velleitari che avevano come sco-

po l'inversione della tendenza. Questi movimenti non hanno per ora raggiunto al-

cunsuccesso pieno, misurabile in termini di diminuito numero degli impiegati o

diminuito peso della spesa pubblica nei settori assicurativi, ma è troppo presto

per affermare che la tendenza al gigantismo e al centralismo abbia definitivamen-

te trionfato. Un recente survey dell'«Economist» (l'ultimo numero di dicembre

1976) ritiene di scoprire in Inghilterra e negli Stati Uniti segni del contrario, dalle

grandi aziende alle grandi organizzazioni mediche. Non è una prova definitiva

naturalmente ma è interessante. Singolari sono però le voci che Bobbio cita a so-

stegno della sua tesi. Ecco Bernstein che afferma: «I sindacati inglesi (...) hanno

cominciato con la forma più elementare di autogoverno, e si sono praticamente

dovuti convincere che questa forma è adatta soltanto agli organismi più elementa-

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