Una città - anno II - n. 18 - dicembre 1992

dicembre------------- un centro di studio e iniziativa contro il razzismo e per fa memoria. Pubblicltiamo il manifesto dei promotori. In seconda. RADICI, ETNIE, IDENTITAE' DIVERSITA'. Sul tema della cosiddeffa "accoglienza dell'altro" lo scefficismo di Vittoria Sanese, psicologa e donna di fede. In seconda. Epoi la preoccupante situazione in Europa e fa speranza nei fanti "buoni soldati Svejlc" clte fa popolano, nella seconda puntata dell'intervista ad Alex Langer. In terza. Nella stessa pagina, su Bossi e il suo fascino, "lo scrondo" di Rocco Ronclti. POLITICA. Un'intervista a Asor Rosa: i tentativi falliti non rendono fallimentare fa ricerca. Epoi "nicltilismo trasversale" di Ivan %affini. E un intervento di Giorgio Calderoni sul faffo clte il comitato dei familiari di Ustica lta finito i soldi. In quarta. DIBAfflTO. E' giusto legalizzare la droga? lnfervenpono Giuseppe Muratori, impegnato nell'associazione dei genitori e il giudice Carlo Sorgi. In quinta. IL LUOGO di questo numero è un campo nomadi della periferia di Bologna. L'intervista è a Floriano Debar, zingaro sinti, a capo di una numerosa famiglia clte da veni' anni circa risiede in Emilia. In sesta e settima, insieme all'intervento "E' lui clte è nero" di don Sergio Sala. IL PUNTO è sui meninos de rua: milioni di bambini-adulti clte popolano le strade delle megalopoli del Sudamerica. Un problema terribile clte però noi riscltiamo di vedere deformato. Ce ne parla Ana Gomez, ricercatrice dell'Università clte lta lavoralo con i bambini di strada. IMPRESSIONI DI VIAGGIO. Libero Casamurafa ci scrive delle galapagos giganti delle Gafapagos. Rodolfo Galeotti, dalla sua zona sperduta dell'Etiopia, ci manda una pagina di diario. Di Piero Rinafdi fa lettera da Franz Josef, Nuova Zelanda. Infine Sergio Camporesi ci racconta come nel '5 2, andando a Cannes in vespa, riusci a incontrare Cltagall. In decima e undicesima. VIAGGIO SULLEVIA DELLADROGA. "Ritorno al presente" è l'ultima puntata della storia di Giovanni Di Santo. In dodicesima. VIVERECONLAMALAfflA. Don Piero Morigi, da 29 anni affetto da sclerosi multipla ci spiega come diflnità personale e l'amicizia siano fa miglior medicina per fa sua mafaffia. In tredicesima. PROBLEMIDI CONFINE. Come fermarsi? E' la lunpa intervista a Vito Fumagalli, storico del Medioevo. Con un intervento di Franco Melandr, sui trapianti e uno di Roberto Marcltesini sull'animale transgenico. In quattordicesima e quindicesima. ~,~Y,N~~ "Finalmente una stanza per me" è il racconto di Daniela Ciani, femminista.

Su questo giornale, fin dai suoi inizi, ci siamo impegnati a ricordare le vittime dell'odio razziale, contro una dimenticanza che ci sembrava colpevole, disonorevole e miope. Ma non potevamo mai immaginare che prestissimo avremmo ricominciato, ne/l'Europa del dopo muro, a contare le vittime di quell'odio. Ora, per rendere permanente questo impegno, alcuni redattori del giornale, con altre amiche e amici, hanno deciso di promuovere un centro di studio e iniziativa di cui pubblichiamo qui sotto il manifesto. 11 CENTRO11A ROSIMBAUM Xenofobie e rauismi, guerre civili e guerre religiose. L'antisemitismo che ritorna da un passato rimosso, dimenticato o reso sterile dalla retorica. Nell'insicureua di un presente e di un futuro sempre più confusi e difficili, ebrei, neri e zingari tornano a essere, in Europa, capri espiatori a cui 4a,rela caccia. E questo nell'indifferenza a cui ormai siamo abituati. Sul finire del secolo le cose non vanno bene. Nell'impossibilità di avere altri punti fermi all'infuori della ripulsa di ogni prepotenza, ci proponiamo di incontrarci nella curiosità e nellafrancheua, di discutere efar discutere. Di tornare a leggere. Di tentare di rendere produttiva la propria confusione mentale. Di volgere lo sguardo indietro per combattere la smemorateua. A partire dai "campi", l'esperienza estrema, segno distintivo del secolo. Per tentare di capire quel che ci è successo. Per riascoltare, "liberi da ogni tradizione", chi nel secolofu inascoltato. Raccontarsi storie, raccogliere testimonianze,/ ar circolare qualche libro, discuterefra giovani, meno giovani eanziani. Un piccolo centro della memoria. Nel nome di Lea Rosembaum, perseguitata ignota, che dopo aver attraversato l'Europa e un mare, fu risospinta verso il centro del gorgo. E si fermò da noi. Forlì 5 settembre, 17settembre, 1944 ... P.articolannentetoccante è la vicenda dei coniugi polacchi Israel Amsterdam e Lea Rosembaum. I due nel 1940, si erano imbarcati a Trieste per raggiungere,via Siracusa, Bengasi.L'idea era di incontrarsi conaltri fuggitivie organizzareda là una partenza verso la Palestina tentandodi aggirare il blocco navale inglese che impediva lo sbarco agli ebrei provenienti dall'Europa. Il gruppo, che contava 302 persone, rimase purtroppobloccatoa Bengasi a causa dell'entrata in guerra del- · l'Italia e, alla fine di settembre del 1940, fu portato in Italia nel campo di concentramentoperebrei stranieri di FerramontidiTarsia. Daqui, gli Amsterdamfurono trasferiti al nord in internamentoa Forlì e, successivamente, imprigionati nelle locali carceri (la sorte volle invece che quanti rimasero internati a Ferramonti fossero tra i primi ad essere liberati e salvati dalle truppe alleate in avanzata, a metà settembre del 1943). dal Libro della Memoria, di Liliana Picciotto Fargion, Mursia Germania. L'ostello dove sono morte bruciate vive le due bimbe turche e la madre un centro di ricerca e studio, di documentazione e di iniziativa sul razzismo e la • memoria. PROGRAMMA DI AfflVITA' -Una biblioteca circolante, con raccolta di riviste e articoli, sala lettura e rassegna stampa. -letture periodiche di testi letterari e saggistici -l'organizzazione di dibattiti, piccoli seminari o incontri con autori -un'attività di videoforum - l'organizzazione di iniziative pubbliche, cittadine. -offrire un punto di riferimento, a insegnanti e studenti, per tentare di combattere nella scuola la retorica e rendere vivo un ricordo che serva anche a una riflessione sui problemi di oggi. Il centro avrà sede in p.zza Dante (del Vescovo), 21 e sarà aperto tutti i giorni dalle 17 alle 19. Chi volesse essere informato delle sue attività può telefonare al 21422 (0543). ... L'innegabile perdita della tradizionenon implicaaffattounaperdita del passato, poiché tradizionee passato non sono la stessa cosa, come vorrebbero farci credere quanti credono nella tradizione da un lato e quanti credono nel progresso all'altro: per cui finiscecon l'essere indifferente che i primi deplorino questo stato di cose e i secondi se ne rallegrino. Perdendo la tradizione abbiamo perduto il filo che ci guidava sicuri nel vastodominiodel passato. Ma questo filo era anche la catena che vincolavaogni generazionesuccessiva a un determinatoaspetto del passato.Forsesoltantoadesso il passatoai apredavantia noi con inattesa freschezza,per dirci cose che nessunofinoraavevaorecchieper ascoltare. Ma non si può negare che senza una tradizione saldamente radicata (e tale saldezza si è perduta già da alcune centinaia di anni) l'intera dimensione del passato risulta compromessa. Corriamo il rischio di dimenticare: e questo oblio, a parte i contenuti che potrebbero andar perduti, equivarrebbe,umanamenteparlando,a restareprivi delladimensione della profondità nell'esistenza umana. Infattimemoriae profondità sono lastessacosa, omeglio, l'uomo può raggiungere la profondità soltanto attraverso la memoria. lune,li .28 dicembre ore .20,30 "Tra passato e futuro", Hannah Arendt, Garzanti CO LEffURE DA PRIMO LEVI con Alfredo RoseHi lune,li J 8 gennaio ore .20,30 DIBAff'ITO: "antisemitismo e questione palestinese". Partecipano Andrea Canevaro e Milad Basir 10 ru 01· sul tema dell' "aécoglienza dell'altro" un'intervista a Vifforia Sanese, psicologa A una conferenza sul tema dell'accoglienza dell'altro lei ha fatto un discorso tutto incentrato sull'accoglienza di sé. Credo che parlando di accoglienza noi tocchiamo il nocciolo dell'esperienza di ogni uomo. Infatti l'accoglienza implica non solo un sentimento (di generosità, apertura, disponibilità), ma una relazione con l'altro in cui la totalità della mia persona, così come quella dell'altro, si trovano ad essere coinvolte. Dire relazione, io e un altro, io e tu, è dire persona. Al ' origine della nascita di una persona, anche solo da un punto di vista biologico c'è una relazione. Ed anche tutto il processo di crescita psicologico avviene attraverso la relazione con i propri genitori, una relazione che sarà dapprima di attaccamento, poi di separazione per potersi individuare come persona ed entrare in rapporto con se stessi. Ecco, siamo arrivati al punto cui faceva riferimento lei nella sua domanda, l'accettazione di sé. Io penso che il primo, fondamentale, compito che come uomini ci troviamo addosso sia la responsabilità nei confronti della propria persona. Ognuno di noi infatti può rispondere realmente solo di sé, può esercitare solo la propria libertà e senza questa capacità di stare di fronte a se stessi è un'utopia parlare dell'accoglienza del- !' altro. Certamente non è questo lo sguardo che la cultura di oggi porta alla persona. Nella cultura dominante la persona non esiste come relazione, ma come individuo, oppure come una struttura simbiotica, un rapporto fondato sulla uniformità, sulla censura di tutto ciò che è diversità. Ma vorrei essere più esplicita su questo punto perché è troppo importante. Da una parte noi abbiamo un'immagine di individuo, definito non già da una relazione, ma dalla sua assoluta autonomia, che vive nell'assenza di limiti, in un immagine di sé onnipotente, tanto fantasiosa e illusoria quanto ormai affermata. E contemporaneamente, dal!' altra parte, consciamente o inconsciamente, serpeggia un'immagine ideale di uomo, di vita, di relazione come simbiosi, equilibrio, armonia del rapporto dove tutto deve coincidere. Mentre, invece, l'unità nella relazione è l'esaltazione drammatica e costruttiva della diversità. Nella coppia di oggi questo è evidentissimo, così come nel rapporto coi figli. Per esempio, bisogna pensarla allo stesso modo, e per affermare un simile ideale (che è falso), si devono tagliare via tantissime cose reali della vita. Quindi oggi l'uomo è diventato potentissimo, ma ha perso la forza dell'esistere. Il suo esistere non ha più una dimensione drammatica, non è più dentro quell'orizzonte infinito, in cui, appunto, diventa drammatico l'essere vivo, l'essere creatura, l'essere limitato. E infatti oggi l'ideale non è mai drammatico. Cosa intende per dramma? Il dramma di essere "uno e uno", e contemporaneamente strettamente legati. L'eliminazione del dramma è l'eliminazione di una delle parti in conflitto. O siamo uno, ognuno con la sua libertà, eccetera, o siamo totalmente condizionati, siamo insieme, diventiamo un "due", un "noi" magmatico. Il famoso "noi" di madre e figlia, il "noi" della coppia, che è simbiotico, patologico ... Il dramma c'è quando l'io e il tu sono insieme e distanti nello stesso tempo, quando si è, come anche noi qui, assolutamente familiari e assolutamenteestranei. Mentre il "due", il "noi" ci spostano sempre da un'altra parte. Lo dico alle coppie che vengono da me: la coppia non esiste. Esistono un uomo e una donna che liberamente scelgono di costruire un particolare tipo di relazione. Non esiste un "noi", l'unico "noi" concreto è il figlio: questo_è il suo dramma e anche, immediatamente, quello del genitore. Allora questo dramma di apertura e chiusura, di estraneità e familiarità c'è sempre, è ineliminabile. Forse io sono deformata dalla mia professione, però nel rapporto madre-figlio, che è archetipo di ogni relazione, mi spaventerebbe molto una madre costantemente capace di grande apertura, sarebbe una madre intrusiva, che non sa stare al dramma della vita, che non saprà affrontare il limite della malattia, è una madre protettiva. Invece una madre vive il dramma del proprio limite, accetta di sbagliare, accetta di sentirsi chiusa anche a capire il proprio figlio, non ha come progetto di essere una brava madre, ma di essere con il figlio dentro la vita ... e accetta di non dire menzogne. Secondo me, per esempio, la protezione del piccolo, la protezione che fanno le mamme di oggi, è una grandissima menzogna. Ecco allora che il problema del!' accoglienza del!' altro diventa innanzitutto un problema di accoglienza di sé: un uomo che in rapporto alla propria vita sa reggere, sa leggere il significato del dolore, della malattia, del dramma, della propria esigenza di essere amato: quindi un uomo che accoglie la propria esistenza, con tutti gli elementi che definiscono il suo esistere, compresa la morte. Ma siamo abituati a pensare che dovremmo farci responsabili degli altri, quasi come una virtù civica ... L'altro nel suo bisogno ci commuove, ci muove verso il suo bisogno, nel momento in cui siamo commossi, mossi verso il nostro bisogno. Invece normalmente, io che sono grande, capace, ho soldi, eccetera eccetera, devo anche diventare un cittadino bravo, che aiuta gli altri, fa dei gesti di solidarietà, perché gli altri ... Che è già un livello buono nel marasma di individualismo in cui siamo immersi oggi, però se vogliamo guardare alla struttura della relazione, della responsabilità di rispondere al bisogno che gli altri hanno, credo che dobbiamo saper riconoscere in maniera molto precisa che questa relazione ha origine nella coscienza di sé. Da qui ci sono molte scelte e molti modi con cui si è guardato a questo problema. A me viene di proporlo così: siccome l'uomo non ha in sé il fondamento del proprio essere, perché non si è fatto da solo, allora se nella relazione di aiuto all'altro, si dimentica il passaggio che dicevamo, c'è il rischio che si muova come se dicesse: "io so chi sono, tu non lo sai". "Tu no, tu non sei, e allora io ti aiuto e porto la responsabilità". Invece l'azione di aiuto reale e adeguata a li 'umano sarebbe "io non sono -perché io sono un essere che non è, che non ha il fondamento del proprio essere-, questo mi fa riconoscerti come me e quindi riconosco il mio bisogno e ci aiutiamo". E' un riconoscersi insieme, è la pari dignità, la reciprocità, la pari condizione umana, il pari destino d'uomo. E non una relazione fra uno che ha e uno che non ha. Insomma, noi siamo creature. E la relazione di aiuto nasce sempre da questa coscienza di uno che è stato fatto, e che poi diventa anche capace di fare, ma lo diventa nella misura in cui è cosciente di essere stato fatto. Quando invece l'uomo fa come se fosse il creatore, la sua opera impazzisce, si deforma. L'esempio di questo è oggi sulla maternità e la paternità. L'uomo che si muove con l'ovulo, con le fecondazioni in provetta, il congelamento dei feti, si muove come se fosse lui il creatore. E' una deformazione, un esito impazzito ... Quindi, tornando all'altro, stai con l'altro ... Non mi piace l'espressione "apertura ali' altro". Preferisco "apertura a1Ia vita". Eppure sono una donna che ha messo al mondo dei figli, ne ho anche presi due già fatti ... In regola con "l'apertura" ... Infatti ... Preferisco dire che sono "insieme con". Sono insieme a mio marito, poveraccio come me, insieme ai figli, ai problemi, col pezzo di vita concreta che ho fra le mani. Sono insieme con qualcuno e se con questo qualcuno riesco a guardare a un ideale siamo davvero insieme. E riusciamo a camminare con uno stesso ritmo, ad andare verso la stessa meta. "Io e tu" allora siamo insieme. Altrimenti, senza ideale, ogni tanto ci si sorregge a vicenda, ma sono la povera storpia che ogni tanto incrocia la mano del cieco e riesce a fare tre passi per poi ricadere. E' l'orizzonte che definisce la relazione. E' la domanda sul- !' uomo, su quest'uomo che non si è fatto da solo, che produce o un accantonamento del dramma -va bene, non mi sono fatto da solo, e chi se ne frega-, o produce coscienza di sé, ricerca della propria verità. In altre parole: l'uomo è fatto per un ideale che sfonda il suo orizzonte, per un ideale infinito o è fatto per vivere più intelligententemente che può, più onestamente che può, più accogliente che può, insomma per vivere meglio che può ...? La mia risposta è evidente. Ma il dramma di oggi è che questo ideale non c'è ... Lo dico spesso ai genitori, non mi interessa "quale" ideale, ma che ci sia qualcosa che trattano come ideale. Se un padre pensa che il suo ideale sia andare in quel bar a prendere il cappuccino tutte le mattine, va bene, ma che muoia per quel cappuccino, che porti tutti gli amici in quel bar, che spali la neve se ci sono quattro metri di neve che gli impediscono l'accesso a quel bar ... Insomma, che ci sia qualcosa che dentro la propria vita sia trattato come ideale infinito. Questo oggi manca. Questo orizzonte, che è una risposta, una visione dell 'uomo, una verità, non rischia di risolvere il dramma? Al contrario. Questo succede nell'uomo che si consuma nel gusto della domanda e quindi fa esperienza di sé e si estasia da quante belle domande produce, ma non vuole risposte perché la sua risposta è già in questo gusto della propria domanda. E' lo stesso uomo di cui parlavamo all'inizio. Se invece l'uomo tratta seriamente se stesso esige risposte alle sue domande fondamentali, alla sua domanda di felicità, di ideale, di amore, alla sua domanda di verità. Che tutto non sia un'illusione, non sia un sogno, ma che sia sperimentabile, che sia concreto, che sia vero. Come può non esigere che ciò che desidera possa essere sperimentabile? Non capisco questa obiezione alla risposta. Non capisco un uomo che abbia il gusto della domanda e rifiuti l'orizzonte sicuro di una risposta. Ma quello che sogna è un adolescente. L'adulto esige la risposta. Esige di fare esperienza di quello in cui crede. E infatti viviamo in un mondo ormai adolescente. •

· · · . di radici, di identità, di diversit · sulla situazione in un' Europa affraversata da nazionalismi, xenofobia e razzismi, la seconda parte dell'intervista a Alex langer, deputato verde europeo Il ritorno a "radici" vere o presunte sembra essere il tratto distintivo di questi ultimi anni. Ma questa necessità di identità, di radicamento, è un rifiuto della modernità, un voler tornare inqualche modo al passato, oppure rappresenta solo un modo, magari confuso, per entrare pienamente in una modernità che nei suoi presupposti è ormai mondializzata ed indiscutibile? A mio parere tra questi poli estremi esiste uno spazio molto ampio, tutto da esplorare. Uno spazio che si situa tra l'internazionalismo cosmopolita, fatto di inglese, bancomat,jetset e computer e la celebrazione di radici, che può portare anche all'uso di un finto veneto, di un finto lombardo e via dicendo. Ma gli esempi di questo tipo di spazio da espolorare sono molti. Si può prendere il femminismo, che si colloca tra l'accettazione di una società maschilista e la rivendicazione di un suo superamento, qui ndi di una obbligatoria ricostruzione sociale in chiave femminile. Oppure il problema rappresentato da un lato dallo stato laico, inteso come non connotato da valori e semplicemente attaccato a regole formali per cui chi rispetta le regole formali si sente a posto e, dall'altro lato, dallo stato etico, religioso o areligioso che sia, con coercizione ai valori e organizzazione integralista sui valori. Mi pare dunque che avvertire la perdita di identità e di radici sia un fatto reale e anche un grido di allarme. Non sono disposto a vedere, come accade da noi, tutto questo come una reazione anticomunista o antimodernista; io lo vedo soprattutto come un grido di allarme reale. Pensiamo all'estremo impoverimento della lingua che avviene attualmente. Me ne rendo conto partecipando a tantissime riunioni a livello europeo in cui, di fatto, la lingua dominante è l'inglese. Se io fossi inglese mi dispiacerebbe veder straziare la mia lingua da bocche tanto incompetenti, compresa la mia. In quelle sedi la ricchezza della lingua si perde nella necessaria compatibilità, si disperde. Recentemente una signora di oltre ottanta anni mi diceva della sua delusione per il fatto che noi non conosciamo più che tre o quattro specie di mele, mentre lei ne sapeva ancora elencare oltre trenta, comuni al tempo della sua giovinezza. • • • r1generaz1on1 da banca del seme Lo stesso vale per la bio-diversità. Oggi si parla delle convenzioni per la salvaguardia della bio-diversità, ma in realtà si assiste ovunque allo stesso fenomeno. Ci si rende conto cioè, e relativamente tardi, che un patrimonio di diversità e di differenziazione sta scomparendo. Che se non si coltiva il terreno e non si piantano le piante adatte, che tengono fermo il terreno, quelle rischiano di andare giù. Poi si possono anche riportare su, ma solo artificialmente. Lo vediamo con le enormi scarpate lungo le autostrade: si può anche rimboschire, riportarvi il verde, ma si tratterà sempre di un verde artificiale. Così è per le identità etniche. Oggi assistiamo ad alcuni tentativi, anche riusciti, di rigenerazione di identità etnica, ma spesso si tratta una specie di banca del seme. Mi riferisco alle tre o quattro esperienze che abbiamo sotto gli occhi in Europa. Penso all'ebraico moderno, al gaelico in Irlanda, al greco moderno e al basco. Queste sono da sempre identità molto forti, in cui non c'è stata una perdita di contatto con le tradizioni, però il greco, per esempio, ha dovuto essere rianimato dopo essere stato quasi perso sotto strati molto forti dovuti alla dominazione turca, ai secoli di decadenza e degrado. L'ebraico moderno è, in un certo senso, addirittura una lingua da provetta, anche se si rifà ad una cultura antichissima. Una cultura in cui, non a caso, il rapporto di Israele con la diaspora diventa sempre più conflittuale. perché finché la cultura ebraica era solo quella della diaspora non importava in quale lingua fosse espressa, mentre oggi il patrimonio ebraico sempre più fa riferimento ad una lingua, ad uno Stato. Altrettanto vale per il gaelico, una lingua che ancora oggi non è veramente usata. Per quanto ne so io, il gaelico nelle campagne esiste, come esiste il gallese delle campagne o lo scozzese del le campagne, però la civiltà urbana gli lascia poco spazio e il gaelico scolastico è un surgelalo di quello che doveva essere in passato. Lo stesso succede per il basco. Una volta c'era addirittura la battuta che per imparare il gaelico o il basco bisognava andare in galera, così da avere il tempo e la possibilità di trovarsi nel posto giusto, dove la lingua era viva. identità come camicie di forza Tutto questo per dire che certo il bisogno di identità è molto forte, per dire che tutti quelli che esprimono questo bisogno di identità, di radici. di rapporto con il territorio, direi anche di continuità generazionale in un mondo diventato molto mobile, molto migrante, esprimono un bisogno reale. Ma per dire anche che, sfortunatamente, attualmente nella nostra civiltà conosciamo solo forme molto alienate di espressione e di organizzazione di questo bisogno: fare uno Stato, per esempio. Ivan Illichdicevache, piuttosto che a Colombo, bisognerebbe guardare a quel tipo che, ali' epoca stessa di Colombo, regalò alla cattolicissima coppia regale spagnola una grammatica castigliana. Dice Illich che quell'uomo con la grammatica ha scritto anche la mappa del nuovo mondo, perché da allora in poi chi non contesti meno industrializzati è più possibile, ma ne dubito. In questo cinquecentenario della "scoperta" dell'America si è avviato un discorso sulla terra degli indigeni, i quali non esigono che sia una terra statale, cioè che necessariamente sia organizzata in Stato, però poi si arriverà a questo. Oggi varie Costituzioni prevedono il riconoscimento di sovranità india sulla terra però, come vediamo per la nuova Costituzione brasiliana, questo riconoscimento esige tanti e tali processi di misurazione, di canonizzazione, di collocazione di confini, che di fatto va a discapito soprattuto delle identità più deboli che, non protette da un codice, da una grammatica, da un esercito, da una bandiera, da una divisa, sanno di avere pochi strumenti di difesa della loro identità. Nella piccola esperienza locale del Trentino noi abbiamo, all'inizio intuitivamente, cercato di sviluppare una politica e una cultura di una possibile identità tirolese che lasciasse sufficientemente indefinite le cose. Che potesse essere, per esempio, abbastanza condivisa al di qua e al di là del confine politico e del confine linguistico,cioèche fosse accessibile sostanzialmente ad alto-atesini e a sudtirolesi di tutte e tre le lingue, accessibile anche a chi stava nel Tirolo austriaco o nel Trentino. Senza però fare discendere da questo la rivendicazione di una regione pan-tirolese, o, come ha fatto la Yolks Partei, di una delimitazione fatta col censimento, dove ognuno doveva fissare la propria identità addirittura sulla carta, restandovi così inchiodato a tutti gli effetti. Ma, per quanto possa essere una scimmiottatura, il bisogno di radici non può offrire quella risposta al bisogno di sentirsi a posto nel mondo che è venuta meno anche con la fine del comunismo e delle ideologie? In qualche modo questo bisogno non tradisce proprio la voglia di cercare ancora un futuro possibile che non sia quello dell'omologazione capitalistica? E' diventato molto difficile immaginare un futuro possibile, indicare un obbiettivo possibile per il futuro. Si può parlare di eliminazione della mortalità infantile o della fame dal mondo, ma è diventato molto difficile indicare obbiettivi futuri positivi, perché nessuno ci crede davvero, perché suonano come finzioni. la paura di ciò clte sarà possibile parlava nel modo codificato Ci troviamo, e mi pare anche era considerato un semi-sei- comprensibile, nel mondo dei vaggio e chi invece si muove- mali minori, in cui è già molto vaentroquellagrammaticaera far fronte a quello che viene. nel solco giusto ... Da questo Ci troviamo nella situazione di punto di vista mi pare che oggi chi ha subito diversi infarti e siano poche le esperienze che deve condurre una vita molto sappiano unire una porzione attenta. Da Chernobyl alle vasufficiente di originalità, e rie deforestazioni molte cose quindianchediirriducibilitàal sono avvenute, compreso progresso, a una forma che poi l'estremo affollamento della non standardizzi questa origi- nostra "navicella spaziale", un nalità, misurando su questo la affollamento che rende tutto conformità o meno; per cui chi più fragile. Dal mio punto di non parla il veneto non può far vista è principalmente venuta parte della Liga Veneta, chi meno l'idea che si possa attuanon ha antenati sloveni non re una specie di grande speripuò diventare cittadino siove- mentazione progettuale equeno e così via. sto è, probabilmente, un bene. Io penso che in Europa non ci E' probabilmente un bene che sia,oggi, un'esperienza in qual- non si pensi più ad un modello, che modo esemplare, che sia la stessa parola "modello" suoriuscita a recuperare radici di na male; che non si pensi più originalità senza trasformarle che il mondo sia plasmabile, in camicie di forza. Forse in come se fosse possibile ripercorrere le tappe di una creazione del mondo. In questo senso il comunismo era probabilmente l'ultima grande idea di ricreare il mondo. Anche se poi bisogna dire che meno conclamata, ma più efficace, è l'idea capitalistica che vuole rendere il mondo il più solutivo possibile, che vuole tirare fuori il meglio e anche superare, con la tecnocrazia, tutti i limiti esistenti. Mandando, casomai, nello spazio tutti i nostri rifiuti se non sappiamo dove collocarli o ricreando le specie che si degenerano con le bio-tecnologie. Insomma l'idea di fare tutto quello che è diventato possibile. Però mi sembra anche che tutto questo susciti nella gente più paura che speranza; che si abbia molta paura di come sarà l'uomo della provetta. di come sarà la soluzione tecnologica alla mancanza di acqua potabile. Da questo punto di vista mi pare giustificato cercare rifugio nel già conosciuto, nel già sperimentato. In passato la sinistra campava quasi sempre sulla speranza e la destra sull'esperienza, la destra su quello che si ha e la sinistra su quello che si vorrebbe avere o diventare e questa, in fondo, è una buona ragione perché la sinistra apparisse meno credibile, perché era tutto ancora da vedere. piccoli totalitarismi, faffi in casa Il maggior rischio dell'eredità comunista, ma anche, se non di più, del presente capitalistico, sta in un approccio fortissimamente totalitario; sta nel concepire, in nome dell'identità o dell'efficienza o del profitto, il totalitarismo come risposta più adeguata. E, per convincere, il totalitarismo ha bisogno di valori condivisibili, mentre i soli valori dell'efficienza o del profitto non bastano. Anche se guardando a paesi a privatizzazione selvaggia, come l'Inghilterra, si ha l'impressione che il totalitarismo del profitto mobiliti la gente. Recentemente, in alcuni negozi inglesi ho visto una scritta che, prospettando un popolo di consumatori sguinzagliato per la città, più o meno diceva così: "Questo articolo da noi costa tot, se voi riuscite a trovare in città un altro negozio che lo vende a meno, noi vi rimborseremo la differenza". A me pare che il totalitarismo sia la tentazione che sta dietro alla riscoperta di identità che, avendo a che fare con interlocutori molto forti come la civiltà industriale, la città, la produzione, la tecnologia, l'elettronica, portano al bisogno di una armatura senza sbavature; vale a dire ad una autorappresentazione che dia un senso opposto a quello del presente, che protegga e che in un certo senso stabilisca dei confini. In questo mi sembra che non si sia superato il tentativo comunista, almeno nel suo aspetto totalitario. Havel, in un articolo apparso recentemente su "Le Monde", chiama il suo tentativo una rivoluzione antitotalitaria, quasi mai lo chiama anticomunista; il criterio che usava per giudicare non era "comunista o anticomunista", ma "bugia o verità". In ogni caso la questione del totalitarismo mi sembra molto forte e non c'è dubbio che oggi sia venuta l'ora dei piccoli totalitarismi, dei totalitarismi fatti in casa, come alternativa ai grandi totalitarismi. Quindi il piccolo stato, il piccolo nazionalismo, la piccola lega. lo terno che il totalitarismo sia moderno, probabilmente lo sbocco più moderno ... Ma se è lo sbocco più moderno vuol dire allora che non si può sfuggire al destino totalitario dell'Occidente? Io credo che, nonostante tutto, ci siano molti spazi, magari non bianchi ma certo poco colorati, sulla mappa del nostro universo. in conto di • convivere con la malaffia In realtà, e forse questa è una realtà del tutto inesplorata, il totalitarismo organizza attivamente soltanto minoranze. Non voglio dire che i non totalitari siano una maggioranza, ma certo sono un'assai consistente minoranza, nel globo sono certamente una maggioranza. A me pare che se si guarda a quella fetta di realtà organizzabi le rappresentata dai motorizzati, da quelli che fanno politica, forse anche da quelli della carta di credito e del bancomat, cioè da quelli che interferiscono attivamente con questo mondo, si riscontra certo che sono in tanti, ma anche, mi pare, che ci sia una grande fascia di passività intorno, che il coinvolgimento nel totalitarismo sia solo passivo. A volte pensiamo che appena un Funari apre bocca tutti cadano in estasi, in realtà quelli che dovrebbero stare in estasi intanto vanno al gabinetto, cucinano, stirano o giocano a carte. Mi pare dunque che il grande spazio da esplorare sia, sempre pensando ad Havel, quello dello "svejkismo" di massa; l'atteggiamento del "Buon soldato Svejk", cioè quello di non farsi coinvolgere dai titoli eccitati dei giornali, dai servizi dei telegiornali. Ma questa è anche la gente che, mentre bruciano le botteghe degli ebrei, continua a guardare se bolle il latte ... Anche questo è vero. Ma chi come me viene da una generazione con una tradizione di attivismo, che ricercava una nuova politica, che cercava una nuova partecipazione, che pensava di cambiare il mondo, dovrà forse esplorare di più questi spazi meno intensamente colorati. In tutti i movimenti etnici quelli che gridano più forte hanno un ruolo apparentemente più grande degli altri, ma se non c'è un fondo popolare al quale attingere tutto resta solo uno sforzo di agitazione ... Nella ex Jugoslavia è stata una minoranza ad iniziare; una minoranza che però, per mezzo della propaganda, ora è diventata maggioranza ... Tutti i movimenti attivi della storia sono partiti da una minoranza. In questo senso il leninismo o il giacobinismo sono stati una interpretazione plausibile del ruolo delle minoranze; un'interpretazione in alcuni casi anche efficace. Oggi potrebbe avere più senso lavorare, anche come minoranze, per rendere meno esposti e meno permeabili al totalitarismo le paludi, le masse. Questo non è un programma politico sufficiente? Parli di contrastare una influenza, ma se si prende una influenza si guarisce prima facendola esplodere, andando alla radice ... Parlando di malattie, vorrei attenermi al paragone che ho fatto prima: operare in condizioni in cui c'è un organismo già molto scosso. Mi viene molto difficile pensare ad una integrità originaria, andrebbe invece messa in conto la possibilità di convivere con le malattie. Secondo me, per esempio, non esiste una soluzione al problema degli zingari. Credo che si possa cercare di affrontarlo in modo meno violento, che si debba diminuire il tasso di violenza e di esclusivismo, aumentando quello di convivenza, di interscambio e di interrelazione. Ma credo anche che siamo in una situazione in cui chiunque voglia rivendicare torti subiti in passato abbia molte ragioni per farlo. Prendiamo la questione delle ex minoranze tedesche. I tedeschi in Polonia adesso hanno uno status più riconosciuto di prima, ma recentemente hanno cominciato ad esibire le croci di guerra, quelle dell'esercito tedesco e questo fa, comprensibilmente, imbestialire i polacchi. In Slesia ci sono giovani tedeschi che non rispondono più alla chiamata militare perché non vogliono servire nell'esercito polacco, il governo fa ancora finta di non accorgersene, ma mettiamo che questa specie di sedizione con~o l'autorità della Polonia si allarghi e contamini altri giovani ... una leffura affiva della compassione In Cecoslovacchia Havel è stato molto criticato quando ha detto ai boemi che la cacciata dei tedeschi dai Sudeti dopo la guerra non è stata una pagina di gloria della loro storia. In quelle situazioni ognuno ha materiale per rivendicare; i torti subiti dai polacchi, ma anche dai tedeschi, sono molti. Dunque sia rispetto alla natura che alle relazioni tra popoli, sia nelle relazioni tra città e campagna che tra strati sociali, si parla di una realtà in cui la densità delle ferite accumulate è già molto alta ed ho l'impressione che una specie di pompieraggio generale sulle inevitabili frizioni sia soprattuto un'esigenza. In questo senso mi pare che siano da apprezzare quei modelli, apparentemente "deboli", in cui non si rivendica che uno Stato o un partito incarnino un ideale forte; uno di quegli ideali che incarnino di più una sapienza del vivere, delle condizioni vivibili. Ma su questo è più difficile entusiasmare la gente, è più facile entusiasmarsi per chi combatte per l'indipendenza in Angola. Con la morte di Brandt è quasi di moda u·sai-ela parola "compassione", i"nvecedi "passione". Willy Brandt aveva usato spesso il termine "compassione" intendendolo non come una forma di pietismo, ma come un atteggiamento di condivisione della sofferenza. Sicuramente la passione riempie più facilmente una piazza che non la compassione, però, guardando meglio nel territorio .... Abbiamo l'esempio molto forte, in Croazia, in Slovenia, in Vojvodina, di gente che ospita in casa persone che se fossero parenti forse apparirebbero più ingombranti. Abbiamo almeno due milioni di persone piazzate in casa di altri. Un altro esempio è il volontariato, un termine che usiamo volentieri quando vogliamo dare una lettura attiva della compassione. Insomma, c'è un potenziale di condivisione che mi pare molto importante. - 10 SCRONDO Bossi è simpatico. Bossi buca lo schermo. Come è possibile? Non ha nessuna di quelle doti che normalmente assicurano un facile successo televisivo. Non sbrodola sentimenti, non rassicura, non esorta, incespica nelle parole, manca di prontezza nella battuta, evade in modo manifesto le domande, è volgare senza essere sfrontato, non conosce l'arte della pausa. E inoltre non è bello, sputacchia, indossa giacche quadrettate dalle maniche corte, cravatte improbabili (ah, l'abito blu di Sgarbi!), porta un ciuffo visibilmente melassato di forfora, ray-ban alla Califano, la fronte sempre imperlata di un lombardo sudore. L'eros che il suo corpo esprime è poi quello "duro", sbrigativo, silenzioso del lavoratore -piccolo imprenditore, artigiano o aristocrazia operaia- che rincasando tardi la sera, non ha tempo da perdere per certe levantine raffinatezze. La sua oratoria, infine, manca visibilmente delle doti classiche della perspicuitas (chiarezza) e dell'ornatus (ornamento); ricorda piuttosto per la sua ossessiva ripetitività la ritmica in quattro parti di una discoteca di periferia: Roma ladrona, federalismo, spreco del denaro dei contribuenti, Roma ladrona, feder ... Non c'è nessuna ragione, dunque, perché questa immagine - è di una immagine infatti che stiamo parlando - lasci un segno nello spettatore distratto, perché insomma seduca. Eppure la si confronti con quella, così a modo, del giovane Casini che, contro i "nuovi egoismi", fa appello ai valori della solidarietà cristiana (dalla quale, naturalmente, sono esclusi omosessuali, abortisti e tossici non pentiti), oppure a quella del suo omologo pidiessino, trasudante umanità, moderazione, rispetto per le istituzioni ecc. Si faticherà allora a reprimere una sensazione di morbosa attrazione per quel colletto sbottonato, per quella pelle lucida, per quegli occhietti cosi privi di luce intellettuale. Perché Bossi assomiglia sempre più a quel piccolo mostro verdognolo, imparentato ai cinematografici greemlins (ma infinitamente meno problematico di loro e per questo più convincente), sognato da Antonio Ricci come immaginaria materializzazione di tutto ciò che di basso, di elementare, di "originario" produce la televisione una volta che è stata liberata da ogni arcaico impaccio ideologico (la televisione educatrice, formatrice di coscienza civile, la televisione che informa ecc.). Bossi è lo scrondo, un puro e sgangherato essere televisivo, fatto di etere, che come un'antenna vivente capta le onde della pubblica opinione, si sintonizza sulle pance degli utenti, rinvia loro, senza mediazione alcuna, la loro stessa immagine, li rende protagonisti e padroni assoluti della scena. La sua forza è la forza dell'elementare televisivo finalmente lasciato a se stesso, non più eterodiretto, non più asservito a finalità che non gli appartengono. Bossi che parla è l'apoteosi della democrazia di massa di Samarcanda e Profondo Nord. Anzi è un passo oltre quella, come se sparisse il palco dove, per antico retaggio libresco, si consuma ancora il rito del ragionamento, del progetto, e restasse invece soltanto il pubblico vociante, incazzato, ma perfettamente felice della propria visibilità. Un consiglio a Bossi: non si lasci irretire dai cattivi consiglieri del palazzo, non si persuada alla moderazione. Scomparirebbe come è accaduto a tanti personaggi televisivi che, ad un certo punto, hanno deciso di riciclarsi in abiti più seri. Lo scrondo, infatti, non può che essere maleducato, la sua natura è quella di girare per i camerini e di toccare il culo alle ballerine. Solo a questa condizione lo spettatore appesantito sulla sua poltrona, incazzato per le tasse e preoccupato per il figlio che non trova lavoro, può silenziosamente e inconsciamente riconoscerlo come un fratello e come un liberatore degli oppressi. Rocco Ronchi Aia rigrroioetca G In o Bianco UNA CITTA' 3

di politica LARICERCACUINON SI PUO' RINUNCIARE intervista ad Afl,erto Asor Rosa Alberto Asor Rosa, docente di Letteratura Italiana all'Università "La Sapienza" di Roma ed a cui si devono alcuni testi fondamentali di critica letteraria, è da molto tempo anche uno degli autori più presenti nel dibattito della sinistra italiana. Ha recentemente pubblicato "Fuori dall'Occidente. Ragionamento sull' Apocalissi" (Einaudi editore) che è stato presentato, a fine ottobre, anche a Forlì. Al termine delle serata lo abbiamo incontrato. Nel suo libro lei sembra quasi sostenere che siamo alla "fine della storia", per lo meno della storia intesa come storia dei conflitti fra realtà ed ideologie contrapposte, come erano comunismo e capitalismo. Eppure proprio la finedel comunismo hadato il via all'esplosione dei nazionalismi, al ritorno, anche violento, alle radici. In questo lei vede solo una convulsione finale, un fatto momentaneo che non mette in forse l'espansione mondiale dell'Occidente, o inquesta esplosione può esserci invece un tentativo di non omologarsi alla mondializzazione dell'uomo occidentale? Una prima precisazione: il tema della fine della storia è totalmente estraneo al discorso che faccio ed è anche un tema che trovo ridicolo. Evidentemente ci sono tante "fini" della storia quante sono le grandi epoche in cui la storia umana si è distinta, ma ad ogni fine è seguito un principio. Quello che ora possiamo dire è che si è chiusa una grande epoca della storia umana e che ne è cominciata un'altra. Un'epoca che è cominciata sotto il segno della disgregazione, del disfacimento. lo sono portato a pensare che i fenomeni a cui stiamo facencfo riferimento, cioè i conflitti interetnici, i nazionalismi violenti, non siano una risposta all'occidentalizzazione del mondo, quanto piuttosto una conseguenza dell' occidentalizzazione stessa. E questo perché mi pare che la loro genesi si possa ~ttr!buire alla disgregazione di quell'impero socialista-sovieti~o ·che in qualche modo, del tutto negativamente, aveva tenuto in piedi un'alternativa di sistema all'occidentalizzazione del mondo. Nel momento in cui questa alternativa di sistema crolla ad intervenire è la disgregazione e la dissoluzione pura e semplice, cioè senza nessun segno di positiva riconquista dell'identità. In un certo senso si torna indietro, a prima che i grandi imperi si costituissero. Ma il comunismo, che lei vede come alternativa di sistema al capitalismo occidentale, era, sia teoricamente che nella sua azione politica quotidiana, una lotta all'Occidente in nome dei valori fondanti dell'Occidente stesso. E allora la fine di quell'esperienza non è forse la fine di un abbaglio e quindi, almeno per certi versi, non può essere !"'apertura" reale all'Occidente? Esattamente. Le nuove realtà nazionali, nate dal crollo del sistema socialista sovietico, sono ben lontane dal desiderare di imboccare una strada diversa tanto dal sistema socialista che dal sistema capitalista. Sono in una lotta atroce tra di loro perché fanno di principi elementari, come la nazione, la razza o la lingua, degli strumenti di ricompattamento di identità che non c'erano prima del socialismo, ed in tutti i casi non c'erano da sempre, ma sono tutte attratte verso il polo di identificazione rappresentato dall'occidente capitalistico. La Croazia, la Serbia, la Bosnia non si muovono alla ricerca di un 'autonoma identità culturale, politica ed economica. Sono fra di loro in conflitto, ma non di meno sono concordi nel guardare all'Occidente come al referente da raggiungere il più presto possibile. Altrettanto vale per la Cecoslovacchia, l'Ungheria, la Polonia, la Russia ... Le sembra che questo valga anche per i rinascenti sciovinismi e nazionalismi dell'Europa occidentale? Qui il discorso è diverso. Lo sciovinismo occidentale, il razzismo rinascente, è una forma estrema di ricerca dell'identità nazionale dentro il grande corpo dell'Occidente. I naziskin, nella brutalità delle loro espressioni e delle loro manifestazioni, fanno riferimento al principio nazionale tedesco, ali' identità nazionale e razziale della Germania. Il loro è un percorso tipico della cultura occidentale. Ma nella cultura occidentale c'è anche l'opposto; da sempre si postula la relatività della radice nazionale e culturale. Pensiamo al concetto di "cittadino", che, di fatto, altro non è che un individuo astratto. E ~on è in questo intervento 11 12 DICIMBIIIDI fANfl ANNI Ci sono stati anni in cui il 12 dicembre di ogni anno era ben evidenziato nell'agenda politica di chi stava a sinistra: l'attentato di Piazza Fontana del 1969aveva avviato il ciclo tragico della strategia della tensione e il ricorrere del suo anniversarioera occasione di mobilitazione e denuncia contro il carattere "di Stl\to" della strage. Ma era come se il manifestare (in tanti e in pubblico e per motivazioni e obiettivi politici) assorbisse ed esaurisse le emozioni e i sentimenti interiori suscitati in ognuno anche solo dalle foto di quella devastata filiale milanese della banca Nazionale dell' Agricoltura, atroce visione di guerra catapultataali' improvvisoneltempo di pace di un paese democratico. Poi seguirono anni in cui il 12 dicembre tornò ad essere un giorno come gli altri, per la semplice ragione che molti non tenevano neppure più un'agenda politica in cui evidenziarlo. E a poco a poco la dimensione emozionale legata a quella piazza e a quella banca finì col ri-emergere e prendere il sopravvento su quella tutta e solo politica: finché a vent'anni di distanza proprio chi era stato in prima fila contro la strage di stato non ebbe ad esplicitare che con Piazza Fontana "si era persa per sempre l'innocenza", l'innocenza dei vent'anni di chi prendeva per la prima volta la pubblica parola con l'entusiasmo dei giovani e la genuinità-ingenuitàdei movimenti. Intanto, così come la fine degli anni '60, anche l'inizio di un decennio tanto diverso quale quello degli anni '80 era avvenuto sotto il segno delle stragi (stazione di Bologna, Ustica): adesso che un altro 12 dicembre si avvicina mi viene da pensare a come esattamente inverso sia stato il percorso (dalladimensioneinterioreaquella pubblica) dei nuovi soggetti (i familiaridelle vittimedi quelle nuove stragi) che hanno alzato questa volta la propria voce di protesta (alta, rigorosa, informata, civile). E a come sia per certi versi straordinario che, proprio in un clima culturale Cil!atterizzatodal predo- (' minio del privato in ogni sfera, questi nuovi soggetti abbiano trovato nella dimensione privata per eccellenza -quella della sofferenza per la perdita di una persona cara- la ragioneperun' azionepubblica, per una mobilitazione collettiva, per fare ricorso al più tipico degli strumenti a disposizione della società civile: quello di riunirsi in associazione, così per la strage di Bologna del 2 agosto 1980 come per Ustica. Fratelli, genitori, mogli e mariti delle vittime non si sono fermati a questa sola identità: e riconoscendosi anche un'altra identità (quella di vittime a loro volta dell'ingiustizia derivante dalla mancanza di verità sulle morti dei loro cari) hanno scelto di far penetrare il dolore nella dimensione pubblica per rivendicare per l'appunto giustizia e democrazia. Di fronte al silenzio in cui si voleva lasciare quelle vicende hanno rotto il silenzio del dolore per non essere complici, hanno fatto del loro grande dolore privato anche un grande dolore civile e di tutti. Da molto tempo ormai diciamo e leggiamo, anche su questogiornale, che nella nostra società la morte e la malattia vengono sempre più consegnate al solo binomio rimozione-spettacolarizzazione e che le norme socialmente accettate imporrebbero ai familiaridi vittime rassegnazione e sentimenti contenuti di lutto. I parenti delle vittime di Ustica e dell'attentato alla Stazione di Bologna hanno deviato da queste norme: non per riproporre forme di elaborazione collettivadel lutto ormai scomparse ma producendo un nuovo modello di comportamento sociale per i tempi d'oggi, accettabile dagli altri soggetti sociali: lo stesso modello che, a partire da condizioni e bisogni affatto diversi, hanno finito sostanzialmente per praticare contro il racket i commercianti di Capo d'Orlando che hanno dato vi la ali' ACIO. Non credo sia stato facile, non credo sia tuttora facile per quelle r!.l)_e così colpite nei loro affetti rinnovare quotidianamente il proprio dolore nelle tante iniziative che promuovono o cui partecipano; è stata insieme una scelta ed una necessità, come hadetto Daria Bonfietti-Presidentedell'Associazione parenti vittime di Usticaaprendo a Bologna i lavori di un convegnodedicato proprio al "dolore civile" in occasione del dodicesimo anniversario di quella strage: "La nostra scelta è stata una scelta. Abbiamo proprio scelto di ricordare i nostri cari pubblicamente parlando di società civile e di diritti dei cittadini; dei diritti calpestati e della vergognosa necessità dell'esistenza, nel nostro paese, di associazioni di parenti delle vittime di stragi". E pensiamo solo per un attimo a quanto ben più lontana sarebbe certamente la verità su Ustica se Daria Bonfietti ed altri come lei non avessero fatto quella scelta. Peraltro, proprio in questi giorni le due Associazioni del 2 agosto e di Ustica si trovano ad affrontare altre prove: il nuovo giudizio di appello sulla strage alla stazione di Bologna, disposto dalla Cassazione, rischia di essere rinviatoal I994perunaconcomitanza con iI processo alla "banda delle coop"; i fondi (280milioni) finora sottoscrittida cittadiniedenti pubblici e privati per sostenere la battaglia politico-giudiziaria su Ustica sono praticamente terminati e l'attività dell'Associazione rischia di interrompersi. E allora, a 23 anni da Piazza Fontana, dovremmo forse tutti quanti riprendere ad evidenziare anche il 12 dicembre e tutte le altre date di strage nella nostra agenda di impegni, sulla cui prima pagina non stonerebbe neppure la trascrizione di questo motto della sapienza ebraica: "Se non ora, quando? Se non qui, dove? Se non io, chi?". Si può cominciare anche da un numero di conto corrente bancario: I O 11I della Cassa di Risparmiodi Bologna-Agenzia 17-intestato a Daria Bonfietti quale Presidente dell'Associazione parenti vittime strage di Ustica. Giorgio Calderoni CO sradicamento il segno più vero ed attuale dell 'Occidente? Attualmente, la ricerca delle radici è certamente la pulsione più visibile, non la più generalizzata. Ma, all'estremo opposto di questa ricerca delle radici, non c'è più il culto dell'individuo astratto, del "citoyen" fuori da ogni caratterizzazione nazionale, c'è invece una pericolosa indeterminatezza di confini, di atteggiamento. Questo nel senso che il polo determinato è il polo razzistico e nazionalistico ed all'estremo opposto non troviamo una cultura della cittadinanza, o dei valori sovranazionali, o delle diversità e delle differenze. Troviamo solo una grande massa informe. Ed è esattamente questo il grande dramma attuale. I naziskin non crescono e non si affermano per loro forza endogena, crescono e si affermano perché laddove dovrebbe esserci il polo opposto, cioè la massa democratica, trovano una massa informe, in cui lo spirito della democrazia si è pericolosamente attenuato. Questa almeno è la mia diagnosi. Per lei, quindi, nell'Europa occidentale l'attenuazione della spinta verso la democrazia coincide col momento in cui l'Occidente come potenza si mondializza. Tutto questo non può significare che il "sogno" dell'Occidente, la democrazia occidentale, non è stato altro che un errore? Una questione di questo genere è veramente una questione disperante, per usare una espressione usata come giudizio per il mio libro. Disperante perché, se le cose fossero davvero così, la storia dell'Occidente sarebbe veramente chiusa e ne comincerebbe una, totalmente altra, difficilmente definibile. Il perno di un ragionamento molto realistico, ma al tempo stesso non disperante, è invece quello che consiste nel dire: siamo in un momento in cui le vecchie forme non bastano più e se restano le vecchie forme va avanti la risposta delle "radici"; bisogna quindi passare dalle vecchie forme a nuove forme. Ma è possibile fare questo salto critico, che prima che un salto istituzionale è un salto di coscienza? Io spero lo sia, ma più di questo è difficile dire. Lei conclude il suo libro con l'invito ad un"'etica della responsabilità", della resistenza alla potenza imperante. In questo appello c'è però un problema. E' molto difficile pensare ad un'etica che non faccia perno su dei valori, ma i valori di cui noi siamoportatori possono rischiare di essere dei valori non veri, frutto di un sogno. Allora, come si può pensare un'etica forte, che permetta di resistere al male ormai imperante, ma che, tuttavia, sia anche capace di non farsi abbagliare dai propri valori? Non si può pensare di ripartire da una carta dei valori data, finemente disegnata. Noi partiamo, al contrario, dalla constatazione a cui ci conduce questo famoso nichilismo occidentale, cioè che i valori sono in un certo senso azzerati. Questo significa cadere nella ricerca di spiegazioni più elementari, più bestiali, come quelle della razza, della nazione, del1'identità localistica e così via? Secondo me significa invece toccare il fondo di una situazione e da quella ripartire per una ricerca. Oggi un'etica della responsabilità è anche, anzi è soprattutto, un'etica della ricerca. Una ricerca che parte da una rilevazione empirica di ciò che nella situazione attuale non si può accettare, perché se lo si accettasse allora veramente la storia dell'Occidente sarebbe conci usa. L'etica del la responsabilità di cui parlo parte innanzitutto dalla rilevazione di ciò che non si può praticare come valore, sia che si presenti come ingiustizia o negazione di verità, sia che si presenti come falsa giustizia o falsa affermazione di verità. Ma una ricerca che parta innanzitutto da un rifiutonon può poi portare ad arroccarsi sul rifiuto stesso? Un rifiuto magari validissimo, ma tutto sommato sterile? No, perché io credo che su questo punto la nostra esperienza storica conti qualcosa; conti nella nostra memoria e anche nel nostro modo di atteggiarci di fronte al reale. Non è che noi, in quanto abbiamo coscienza della crisi verticale dei valori dell'Occidente, non abbiamo più passato. Noi abbiamo il Cristianesimo, la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione d'Ottobre, cioè una serie di tentativi volti alla modifica del mondo umano. Il fatto che questi tentativi siano poi, nella conduzione pratica, tutti falliti non significa che sia fallimentare la ricerca, lo spirito di ricerca che li ha mossi. Una ricerca che quindi riapre all'utopia? "Utopia" è un termine che non mi è mai andato a genio. Io direi rifiuto di rinunciare alla ricerca. Ricerca nel nostro passato, nell'esperienza concreta compiuta dalle generazioni precedenti, ricerca di verità e di giustizia. Ricerca anche di comprensione di quel lo che, in questa ricerca, è stato giusto e di quello che è stato sbagliato. In una situazione come la nostra questo è forse il terreno da cui si può ricominciare a capire da che parte muoversi. Mi pare che il problema sia soprattutto questo: in che direzione muoversi. - Pest Control Igiene ambientale • Disinfestazioni - Derattizzazioni - Disinfezioni • Allontanamento colombi da edifici e monumenti • Disinfestazioni di parchi e giardini • Indagini naturalistiche 47100Forll - viaMe11cc2i,4 (Zo11a Industriale) Te/.(0543)722062 Telefax(0543)722083 NICHILISMO FRASVIRSALI La passerella televisiva fa risuonare nelle case, in nome del diritto ali' informazione, le voci dei politici affaccendati attorno al cosiddetto "tavolo" delle riforme istituzionali. Fa risuonare, non "diffonde". Perché sono voci sempre più metalliche, direi "digitali". Sono le voci che oggi sono costrette a dichiarare la verità della democrazia, ossia lo svelamento della democrazia nella sua verità "tecnica". La famosa svolta, il punto di non ritorno cui saremmo di fronte, la curva storica del Paese, non è altro che un problema tecnico, per come viene mostrato. La rappresentanza è divenuta completamente un problema tecnico. Pare così (così è se vi pare) che la scelta fra i vari proporzionali, misti, maggioritari, all'inglese, all'americana, alla francese, sia il vero nodo da sciogliere per ritrovare un'autentica sovranità. Ci viene fatto credere che, attraverso la soluzione tecnica del problema della rappresentanza e del consenso, la rappresentanza e il consenso riacquistano autenticità, ossia riacquistano, in ultima analisi, "tiascendenza". Ed ecco che la trasversalità diviene il criterio universale dello schieramento. Ossia: di fronte alla riduzione "tecnica" estrema, è l'uniformità della tecnica che la fa da padrone. Il concetto di cittadinanza non è che lo "sfondo" (bestand) su cui l"' impianto" (gestell) tecnico-ingegneristico-istituzionale getta la sua ombra, poiché la tecnica è proprio la riduzione della natura a "sfondo" indifferenziato per la manipolazione, è il coprire tutti i nomi delle cose della natura con il principio dell'"utilizzabilità". Le voci dei "trasversali" risuonano paurosamente, tragicamente metalliche. Esse sono come la voce gridata meccanicamente nel Cantico del gallo silvestre leopardiano. Sono come gli "ammiccamenti" del1'ultimo uomo di cui parla Nietzsche, "ciò che c'è di più spregevole". L'ultimo uomo proclama al popolo le domande filosofiche, si chiede che cos'è l'amore, che cos'è la creazione, che cos'è il desiderio, che cos'è la stella, e contemporaneamente "ammicca". "La terra è diventata piccola e su di lei saltella l'ultimo uomo che rende tutto piccolo" afferma ancora Nietzsche. Nel risuonare delle voci sugli schermi, le famose pause craxiane sembrano ormai abbassamenti di corrente in un computer. Le altrettanto famose inflessioni "dentali" e "labiali" da Magna Grecia di De Mita assomigliano a certe voci telefoniche digitalizzate, con la deformazione regolare delle consonanti. Il gramscismo trasformista di Occhetto non è ormai che il fantoccio della filosofia della storia dei "blocchi". Bossi sémbra doppiato da un film americano di Bruce Willis con pessime traduzioni dei testi. Martinazzoli stesso è uno Zaccagnini solo "funzionale", senza una pari identità umana da mettere in gioco. E l'elenco potrebbe continuare. Nella declinazione tecnica della democrazia, che è poi il suo sbocco naturale, costitutivo, la voce del "politico" rimbomba sempre più irreale, sempre più, in fondo, innocua nel suo misero potere in cui l'identità tace: perciò si apre al "trasversale" con tutta naturalezza. Ma è anche una voce i cui ammiccamenti sono ormai solo, appunto, televisivi, proprio perché l'uniformità dello schermo, la sua immaterialità, sono il suo luogo ideale. Essa può essere pronunciata ormai solo nello "sfondo" dello schermo, può essere rappresentata solo in uno sfondo indifferenziato. E non è quindi certo casuale l'affollarsi attorno alla regolamentazione del1'etere, o alla riforma del servizio radiotelevisivo pubblico. La riforma della RAI è la prima cosa di cui si è occupato Martinazzoli dopo essere stato eletto segretario della D.C., in modo quasi pervicace e ossessivo, con una insistenza apparentemente inspiegabile, data ]"'attualità" di ben altri "problemi". Sulle riforme istituzionali come soluzione tecnica al problema della democrazia si accaniscono i vecchi e nuovi partiti nella commissione bicamerale, per la conquista e la conservazione della rappresentanza, mentre l'autentico conflitto delle identità, per mezzo dello stesso schermo indifferenziato, per mezzo dello stesso "sfondo", è ora divenuto pienamente iI "teatrino" dei talk-show, dei Gad Lerner, dei Ferrara, dei Costanzo, delle samarcande. E tutti aspirano alla parte dei burattini, tutti aspirano al chiambrettismo, ad essere chiambrettizzati, quasi a voler disperatamente dire a se stessi e agli altri: "Guardate, questa mia rappresentazione pubblica, sullo schermo, rendiamola pure ridicola, copriamola di sberleffi e di insulti; questa mia funzione pubblica può anche essere annichilita, umiliata fino all 'annientamento, poiché in essa in realtà non è in gioco la mia identità. Anzi, forse se mi aiutate a ridicolizzarmi, se mi fate sentire forte i vostri risolini di scherno, posso sperare, nella solitudine, in qualche nuovo riflesso del mio io sfrondato dai cascami del "pubblico" . Ciò che sta accadendo è sicuramente una "svolta", nel senso in cui ne parlava Heidegger: è una fase di svelamento. Ma nessuna svolta potrà mai essere annunciata da uno schermo televisivo, né diffusa come notizia in un telegiornale; e neppure ce la troveremo di fronte come novità "tecnica" nel nostro collegio elettorale. Non sarà nemmeno una nuova formazione "trasversale". Anzi, tutto ciò che ci sarà presentato come tale da uno schermo possiamo vederlo come una parte del velo che ancora resta da togliere. Sarà più facile scorgere la svolta nello sguardo di un amico, di un collega, di un vicino, che non nella busta paga, o nella voce impersonale dei media, che impietosamente prolungano l'agonia del sistema. Ivan ?,attini la Cassa dei Risparmdii Fon I

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